“Contratti di soggiorno” e Covid-19. Parte seconda. Nel periodo post-emergenziale

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Autor: Roberto Senigaglia, Ordinario di diritto privato, Università Ca’ Foscari Venezia. Correo electrónico: robseni@unive.it

1. Gli effetti dell’emergenza sanitaria da Covid-19 sono destinati a ripercuotersi, in modo via via meno intenso, pure sui “contratti di soggiorno” stipulati nel periodo ante-pandemia, ma la cui esecuzione ricada nel tempo successivo all’efficacia delle misure restrittive eccezionali sancite dalla legislazione e regolamentazione emergenziale; la quale, come illustrato nella parte prima, ha espressamente qualificato l’impatto della sopravvenienza virale e normativa sui “contratti di soggiorno” in termini di impossibilità sopravvenuta della prestazione ex art. 1463 c.c.. Ma ha altresì “sospeso” l’operatività di talune regole di quest’ultimo corpo normativo, specie quelle riguardanti gli effetti della risoluzione e i conseguenti obblighi restitutori.

Di qui il tipo normativo di problema sulla sorte di codesti rapporti contrattuali; il quale, tenuto conto delle gravose conseguenze personali e socio-economiche generate dalla pandemia, non può che essere articolato in chiave rimediale (DI MAJO, A.: “Il linguaggio dei rimedi”, in Eur. dir. priv., 2005, pp. 341 ss.), in funzione cioè della contestuale realizzazione degli interessi delle parti del contratto e di quelli di sostenibilità dello specifico settore di mercato, bilanciata dai principi di ragionevolezza e proporzionalità (PERLINGIERI, G.: Profili applicativi della ragionevolezza nel diritto civile, Napoli, 2015). Una prospettiva e un metodo che si impongono al fine di scongiurare esiti che renderebbero il diritto disfunzionale, facendolo approdare a significati rovinosi, evidentemente contrari a quelli che la storia attuale si attende dall’ordine giuridico.

Nell’ottica rimediale, dunque, il dialogo tra principi-regole-realtà, all’insegna del quale si celebra l’ermeneutica giuridica, non può che condurre all’articolazione dei problemi e delle soluzioni privilegiando i congegni manutentivi rispetto a quelli demolitivi del contratto (MACARIO, F.: “Per un diritto dei contratti più solidale in epoca di coronavirus”, in Giustiziacivile.com, 3/2020). E i principali referenti normativi sui quali far leva a tali fini sono i principi costituzionali di solidarietà ed effettività (artt. 2 e 24 Cost.) in uno con la clausola generale di buona fede contrattuale (artt. 1375 e 1366 c.c.) (VETTORI, G.: “Persona e mercato al tempo della pandemia”, in Pers. merc., 2020, pp. 21 ss.).

Attesa la gradualità (governata anche da un criterio geografico) che scandisce il passaggio dallo stato emergenziale a quello post-emergenziale legato al fenomeno epidemico sino all’instaurazione di una “nuova” normalità, il discorso sul regime dei rimedi contrattuali va diversamente declinato con riguardo a una fase del Covid-19 in cui, al richiamo della scienza alla prudenza per non essersi ancora ripristinato il livello di normale sicurezza sanitaria, si accompagnino regole giuridiche che si limitino a fissare standard comportamentali senza però sospendere diritti e libertà fondamentali della persona, specie la libertà di circolazione per finalità turistiche; e a una fase in cui, anche a seguito della diffusione di farmaci idonei a porre rimedio all’agente patogeno, venga ristabilita la sicurezza sanitaria e con essa cessi ogni regola restrittiva o anche solo orientativa, in termini prudenziali, precedentemente giustificata dal pericolo sanitario.

In entrambe le fasi, venuto meno il factum principis legato all’evento virale, la cui inferenza è l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, anche per espressa previsione formale, l’interprete riprende ad operare con gli strumenti “ordinari” sia pure modulando la ricerca delle soluzioni in un senso che non può non tener conto della realtà mutata dalle sopravvenienze.

2. Quanto ai “contratti di soggiorno” conclusi ante Covid-19, la cui esecuzione ricada nel periodo in cui non vigeranno più le misure restrittive generali della libertà di circolazione delle persone (fatte salve dunque alcune eventuali specifiche ipotesi) per finalità turistiche, ma continuerà a persistere l’invito alla prudenza e l’obbligo o l’esortazione a tenere precise condotte, stante il non ancora raggiunto livello di sicurezza sanitaria, è l’interesse del creditore/turista a usufruire della prestazione che potrà venire meno a seguito del fondato timore di ammalarsi, di contrarre il coronavirus. È quello che alcuni, volgendo lo sguardo a quel futuro, hanno già narrato in termini di passaggio dal lockdown formale a un lockdown psicologico.

In pratica, pur essendo possibile l’esecuzione della prestazione da parte del debitore, potrebbe essere il creditore a non volerla più utilizzare a seguito della specifica sopravvenienza. La paura di ammalarsi contrasta, evidentemente, con lo scopo di serenità che tende a perseguire ogni contratto che sia obiettivamente connotato da una finalità di carattere turistico; la quale, come ha avuto modo di specificare la Corte di Cassazione nel caso dell’epidemia di dengue emorragica a Cuba, consiste nel “benessere psico-fisico che il pieno godimento della vacanza come occasione di svago e di riposo è volto a realizzare” (Cass., 24 luglio 2007, n. 16315); sì che la fondatezza del timore di ammalarsi, la quale può ravvisarsi quando l’epidemia “fa venir meno il normale standard di sicurezza sanitaria del luogo di esecuzione della prestazione turistica”, non può non assumere rilevanza giuridica, anche in termini di tenuta del contratto.

Ad essere interessata, in questi casi, è in particolare la causa del contratto, declinata in termini concreti, nella specie, appunto, la finalità turistica (Cass., 8 maggio 2006, n. 10490; Cass., 20 dicembre 2007, n. 26958; App. Napoli, 10 maggio 2019, n. 2529); la cui sopravvenuta irrealizzabilità comporta il venir meno del rapporto obbligatorio scaturente dal contratto e l’esonero delle parti dalle rispettive obbligazioni. E ciò avviene sia nell’ipotesi di sopravvenuta impossibilità di esecuzione della prestazione per causa non imputabile al debitore sia nel caso di impossibilità sopravvenuta di utilizzazione della prestazione da parte del creditore.

È evidente, infatti, che l’intervento di un fattore esterno, non imputabile (in termini di colpa) al creditore/turista, il quale comprometta le condizioni di benessere psico-fisico che sottendono la realizzazione della finalità turistica, vale a dire la causa concreta del contratto, incide sulla tenuta dell’interesse del creditore a usufruire della prestazione, attivando così il rimedio risolutorio del contratto ( TRIMARCHI, M.: “L’impossibilità sopravvenuta di utilizzazione della prestazione”, in Obbl. contr., 2010, pp. 6 ss.; PAGLIANTINI, S.: “La c.d. risoluzione per causa concreta irrealizzabile”, in Riv. not., 2010, pp. 1219 ss.).

L’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale di questa categoria, non espressamente contemplata dal codice civile, muove dunque dalla funzione del contratto e, in particolare, dal concetto di causa concreta ovvero dai singolari interessi obiettivizzati nello specifico contratto (FERRI, G.B.: Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966; CAMARDI, C.: Economie individuali e connessione contrattuale. Saggio sulla presupposizione, Milano, 1997, 98 ss.; SCALISI, V.: “La teoria del negozio giuridico”, in AA.VV.: Categorie e istituti del diritto civile nella transizione al postmoderno, Milano, 2005, pp. 549 ss.; ROPPO, V.: Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2011, pp. 345 ss.; PERLINGIERI, G.: “Garanzie “atipiche” e rapporti commerciali”, in Riv. dir. impr., 2017, pp. 21 ss.; GAROFALO, A.M.: “Fisiologia e patologia della causa contrattuale. Profili generali e applicazioni specifiche”, in AA.VV.: L’attualità del pensiero di Emilio Betti a cinquant’anni dalla scomparsa (a cura di G. PERLINGIERI, L. RUGGERI), Napoli, 2019, pp. 681 ss.).

Appurato che anche quando l’evento sopravvenuto di forza maggiore o caso fortuito faccia venir meno l’interesse del creditore si realizza una disfunzione degli assetti giustificativi del contratto, il diritto vivente è giunto ad affermare che “l’impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore, pur se normativamente non specificamente prevista, costituisce – analogamente all’impossibilità di esecuzione della prestazione – autonoma causa di estinzione dell’obbligazione” (Cass., 24 luglio 2007, n. 16315).

Pertanto, anche il creditore/turista che pur potendo viaggiare tema di contrarre il Covid-19, non essendo stato ancora ripristinato nel luogo della vacanza il normale standard di sicurezza sanitaria, può far valere nei confronti dell’altra parte la risoluzione del contratto di soggiorno e chiedere la restituzione delle eventuali prestazioni già eseguite.

3. Ora, versando in una situazione, sempre dovuta alle note sopravvenienze, che fa gravare il rischio dell’operatività dello specifico rimedio ablativo esclusivamente in capo alla struttura ricettiva e rispetto a tutti i “contratti di soggiorno” la cui esecuzione ricada nel periodo interessato, si impone all’interprete una lettura sistematica-funzionale della disciplina delle restituzioni legate al fenomeno risolutorio, che faccia leva non solo sulle regole ma anche sui principi (VETTORI, G.: “Effettività delle tutele (diritto civile)”, in Enc. dir., Ann., X, Milano, 2017, pp. 381 ss.; NAVARRETTA, E.: Costituzione, Europa e diritto privato. Effettività e Drittwirkung ripensando la complessità giuridica, Torino, 2017, pp. 28 ss.). Con riguardo a tale profilo, si è osservato in precedenza che la normativa emergenziale “sospende” la disciplina del codice civile, la quale all’effetto retroattivo della risoluzione fa discendere gli obblighi restitutori, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito (art. 2033 c.c.). Quelle regole (eccezionali), invece, accordano al debitore (alla struttura ricettiva) un diritto potestativo di scelta tra il rimborso di quanto ricevuto e l’emissione di un voucher di pari importo da utilizzare entro un anno (e altre soluzioni trattate nella parte prima). Ne è evidenza la disposizione del comma 12 dell’art. 88-bis del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, introdotta dalla legge di conversione del 24 aprile 2020, n. 27, la quale sancisce che “l’emissione dei voucher previsti dal presente articolo assolve i correlativi obblighi di rimborso e non richiede alcuna forma di accettazione da parte del destinatario”.

In tal modo, in evidente ossequio al principio costituzionale di solidarietà economica e sociale, si è voluto operare una più “equa” distribuzione dei rischi in capo alle parti, istituendo, ex lege, una sorta di obbligazione alternativa in deroga alle regole sulla datio in solutum (art. 1197 c.c.), affiancando al rimedio demolitorio uno di carattere non necessariamente restitutorio bensì manutentivo di un possibile, altro, rapporto contrattuale.

Questo diritto potestativo è esteso dal comma 11 dello stesso art. 88 bis pure ai rapporti contrattuali di soggiorno “instaurati con effetto dall’11 marzo 2020 al 30 settembre 2020 nell’intero territorio nazionale, anche per le prestazioni da rendere all’estero e per le prestazioni in favore di contraenti provenienti dall’estero, quando le prestazioni non siano rese a causa degli effetti derivanti dallo stato di emergenza epidemiologica da Covid-19”.

L’estensione interessa dunque un periodo che va oltre quello che, ad oggi, la normativa italiana vigente sottopone alle ristrette misure di contenimento concernenti anche la circolazione delle persone. Un arco temporale, quindi, in cui la prestazione turistica potrebbe essere possibile per la struttura ricettiva, ma potrebbe non esserlo (in termini di utilizzazione) per il creditore/turista per timore di ammalarsi persistendo ancora una situazione di insicurezza sanitaria.

Dalle spigolature assiologiche e funzionali di queste disposizioni, specialmente di quelle introdotte in sede di conversione del decreto legge c.d. “Cura Italia”, pare possibile trarre validi significati al fine di individuare il rimedio restitutorio più efficace da far operare nell’ipotesi di risoluzione del “contratto di soggiorno” per impossibilità del creditore di utilizzare la prestazione quando la circolazione per finalità turistiche sarà consentita (sia pure entro certi confini geografici), pur non essendosi ancora ripristinato nel luogo di vacanza il normale standard di sicurezza sanitaria.

Potendo trovare in tale frangente piena operatività la disciplina del codice civile, si tratta di chiarire la semantica dell’obbligo di restituzione e della regola che impedisce al debitore di liberarsi dall’obbligazione eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta, anche se di valore uguale o maggiore, a meno che il creditore non vi acconsenta (art. 1197 c.c.).

Previsione, questa, che impedirebbe alla struttura ricettiva di assolvere l’obbligo restitutorio, anziché con il rimborso di quanto ricevuto, con la emissione di un voucher.

Ora, considerate le ragioni sottese alla disciplina di emergenza, che hanno condotto a distribuire i rischi tra le parti del contratto in modo differente da quanto operato dal codice civile, accordando al debitore la scelta tra rimborso o consegna di un voucher, quelle stesse ragioni risultano, nella situazione post-emergenziale ma ancora di pericolo sanitario, addirittura rafforzate, sì che tale soluzione si imporrebbe a fortiori.

Difatti, se in presenza della situazione di impossibilità sopravvenuta della prestazione, sancita dalla legge, gravante sia sul debitore sia sul creditore, impedendone tanto l’esecuzione quanto l’utilizzazione della stessa, il legislatore ha preso atto dei pesanti effetti, anche macroeconomici, che avrebbe potuto generare oltre al rimedio ablativo del contratto anche un obbligo restitutorio degli importi ricevuti, il quale incide ulteriormente e in modo grave sulla liquidità del debitore riguardando tutti i contratti da eseguire in quella fascia temporale; se è questa la contingenza che giustifica la regola, a maggior ragione quel diritto di scelta dovrebbe operare quando dovesse cessare il divieto di circolazione per finalità turistiche, ma non fosse ancora ripristinato lo standard di normale sicurezza sanitaria, e il rapporto contrattuale dovesse sciogliersi per il venir meno dell’interesse del creditore ad usufruire della prestazione. Si tratta di situazioni, invero, in cui l’allocazione dei rischi nei termini operati dal Codice civile si giustificherebbe ancor meno, essendo possibile l’esecuzione della prestazione da parte del debitore e trovandosi quest’ultimo a subire gli effetti, possibilmente di massa, delle valutazioni dei creditori.

La modifica introdotta dal legislatore in sede di conversione del decreto legge, protraendo il diritto di scelta fino al 30 settembre 2020, oltre il termine attualmente fissato dai provvedimenti che dispongono le misure restrittive, pare deporre proprio in questi termini. Ma anche dopo questa data o quella che dovesse essere ulteriormente individuata dal legislatore, in presenza delle medesime condizioni a quel criterio di allocazione dei rischi può giungersi in via interpretativa, non potendo ricorrere all’analogia legis stante la natura eccezionale della normativa di emergenza (art. 14 disp. prel. c.c.).

E qui – anche in base ai Principles for the COVID-19 crisis dell’European Law Insitute, i quali, all’art. 13, esortano gli Stati a ricercare soluzioni ragionevoli, disponendo che “in particular, the contractual allocation of risk in these instances should be evaluated in the light of existing contracts, background legal regime and the principle of good faith” – i referenti normativi del percorso ermeneutico sono il principio di solidarietà economica e sociale e la clausola generale di buona fede contrattuale, che ne è specifica espressione (MENGONI, L.: “Spunti per una teoria delle clausole generali”, in Riv. crit. dir. priv., 1986, pp. 5 ss.; PERLINGIERI, P.: Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, 3a ed., Napoli 2006, pp. 471 ss.). Difatti, l’ostacolo alla possibilità del debitore di adempiere l’obbligazione restitutoria mediante la consegna di un voucher, posto nei termini dell’art. 1197, è passibile di essere corretto sindacando l’eventuale rifiuto del creditore, come ogni altro suo comportamento, in termini di conformità o meno alle regole della correttezza contrattuale. Le quali rinviano agli standard di condotte edificate dallo specifico settore di mercato in cui si colloca il rapporto contrattuale e in ragione delle circostanze concrete.

Ebbene, l’impressione è che il legislatore emergenziale nell’articolare la regola che riconosce il diritto di scelta in capo al debitore abbia voluto cogliere e poi fissare un modello di comportamento ritenuto ragionevole e proporzionato, conforme a lealtà e correttezza, nel settore di mercato via via preso in considerazione, in presenza di eventi sopravvenuti, imprevedibili e inevitabili, legati alla salute e al factum principis, che impediscono l’attività del (di ogni) debitore e del (di ogni) creditore. È evidente, infatti, che quando una sopravvenienza sì fatta interessa tutti i contratti di una certa tipologia stipulati da uno stesso soggetto e l’intero settore di mercato dai medesimi conformato, i doveri di solidarietà economica e sociale, sanciti dalla Costituzione, esigono comportamenti collaborativi da parte di tutti gli operatori del mercato tradotti anche in termini di protezione dell’interesse altrui (MENGONI, L.: “Persona e iniziativa economica”, in AA.VV.: Persona e Mercato. Lezioni (a cura di G. VETTORI), Padova, 1996, pp. 40 ss.). L’inferenza è che nelle circostanze analizzate l’eventuale rifiuto del creditore a ricevere il voucher, arroccandosi sulla regola dell’art. 1197 c.c., potrebbe presentare gli estremi dell’abuso del diritto, con ogni relativa conseguenza.

4. Nell’arco temporale in cui, stando alle indicazioni del Comitato tecnico scientifico, il normale standard di sicurezza sanitaria non sia stato ancora raggiunto pur essendo possibile circolare (anche solo a livello regionale) per ragioni turistiche, l’interesse del creditore a usufruire della prestazione potrebbe comunque permanere, ma a condizioni economiche diverse da quelle pattuite nel contratto stipulato prima del diffondersi dell’epidemia.

Questa stessa evenienza potrebbe pure prospettarsi una volta ripristinato il normale standard di sicurezza sanitaria; nel momento in cui, cioè, venuto meno ogni presupposto, non sia possibile sciogliere il contratto né per impossibilità sopravvenuta della prestazione né per impossibilità oggettiva del creditore di poterne usufruire. In entrambi i casi, dunque, la sopravvenienza è invocata dal creditore/turista come fattore incidente sul sinallagma contrattuale, avendo essa mutato le condizioni che giustificavano gli assetti economici originariamente pattuiti. L’interesse del creditore è, in sostanza, quello di tenere in vita il contratto, ma ad altre condizioni, di rinegoziare quindi il contratto medesimo adeguandolo alla nuova situazione.

È ben noto che nell’ordinamento italiano non è rintracciabile una previsione normativa che contempli espressamente questo interesse con la previsione di un rimedio manutentivo del contratto, riconoscendo cioè alla parte contrattuale svantaggiata economicamente dagli effetti della sopravvenienza il diritto di esigere dall’altra parte la rinegoziazione del contratto. L’unica disposizione che prende in considerazione lo squilibrio economico generato da un evento sopravvenuto è quella di cui all’art. 1467 c.c., riferito ai contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione differita, i quali, appunto, a seguito di eventi straordinari e imprevedibili, vedano una delle prestazioni divenire eccessivamente (e non anche significativamente) onerosa rispetto all’altra. Ma essa, oltre a subordinare la propria operatività alla ricorrenza di cause ed effetti gravi, consegna alla parte, la cui prestazione sia divenuta eccessivamente onerosa, soltanto un rimedio di carattere ablativo del contratto, lasciando esclusivamente all’altra parte la possibilità di neutralizzare la risoluzione “offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto”.

Insomma, stando ai significati prescrittivi della disciplina generale del contratto del codice civile, la rinegoziazione a seguito di sopravvenienze (qualificate) è immaginabile soltanto se vi è l’accordo delle parti oppure per volontà della sola parte avvantaggiata, titolare quindi di un diritto potestativo. Di converso, non sarebbe possibile per opera della sola volontà della parte svantaggiata.

La rigidità di questa soluzione è ormai da tempo mitigata dalla scienza giuridica, tanto da poter essere ritenuta oggi superata in via interpretativa per il tramite, principalmente, dell’attivazione dei principi e della clausola generale di buona fede. E la lettura ermeneutica in tal senso orientata ha assunto un livello di persuasività tale da essere stata sostanzialmente assunta a uno dei contenuti del disegno di legge delega per la riforma del codice civile (DDL n. S. 1151 “Delega al Governo per la revisione del codice civile), ove tra i principi e i criteri direttivi che dovranno guidare i decreti legislativi per la revisione e l’integrazione del Codice vi è pure la previsione del “diritto delle parti di contratti divenuti eccessivamente onerosi per cause eccezionali e imprevedibili di pretendere la loro rinegoziazione secondo buona fede o, in caso di mancato accordo, di chiedere in giudizio l’adeguamento delle condizioni contrattuali in modo che sia ripristinata la proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta dalle parti”. Modifica, questa, che tenderebbe ad allineare il nostro codice alle previsioni contenute in quello tedesco (§ 313 BGB) e in quello francese (art. 1195 Codice civil), introdotte dalle più recenti riforme.

Ebbene, pur in assenza, allo stato, di un’espressa previsione che imponga alla parte avvantaggiata, su richiesta dell’altra parte, la rinegoziazione del contratto, il cui sinallagma sia stato significativamente scombinato dalle sopravvenienze, codesto dovere, come è stato ampiamente argomentato da pagine autorevoli della nostra letteratura giuridica, può ammettersi in via ermeneutica (GALLO, P.: Sopravvenienza contrattuale e problemi di gestione del contratto, Milano, 1992; MACARIO, F.; Adeguamento e rinegoziazione dei contratti a lungo termine, Napoli, 1996; SICCHIERO, G.: “La rinegoziazione”, in Contr. impr., 2002, pp. 774 ss.; GENTILI, A.: “La replica della stipula: riproduzione, rinnovazione, rinegoziazione del contratto”, in Contr. impr., 2003, pp. 667 ss.; ROPPO, V.: Il contratto, cit., pp. 1047 ss.; TOMMASINI, R.: “Revisione del rapporto (diritto privato)”, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, pp. 133 ss.). Tant’è che l’ordinamento giuridico risulta sufficientemente attrezzato di regole e di principi capaci di fungere da “finestre aperte sulla società” (VETTORI, G.: “Persona e mercato al tempo della pandemia”, cit., 6), ovvero di ordinare la specifica istanza sociale, attivando i meccanismi di resilienza del sistema per giungere ad affermare quel significato deontico.

In altre parole, muovendo dalle regole che in diversi ambiti e tipi contrattuali considerano sopravvenienze che scombinano gli assetti del contratto e istituiscono congegni di adeguamento, correzione, rinegoziazione (ad es. artt. 1537; 1623; 1664; 1710; 1897-1898 c.c.; art. 3, comma 5, l. n. 192/1998), potenziando i loro significati attraverso i principi e le clausole generali, è possibile giungere a fondare nel sistema il dovere di rinegoziazione. Un percorso, pertanto, tutto ermeneutico e dogmatico (MENGONI, L.: Ermeneutica e dogmatica giuridica. Saggi, Milano, 1996; VIOLA, F., ZACCARIA, G.: Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, Roma, 1999, pp. 130 ss.), per il cui tramite la realtà economica, la quale, per mantenersi a livelli di efficienza (recte sopravvivenza), reclama rimedi manutentivi del contratto, trova risposta dall’ordinamento (DE MAURO, A.: “Pandemia e contratto: spunti di riflessione in tema di impossibilità sopravvenuta della prestazione”, in Giustiziacivile.com, 3/2020).

Segnatamente, è facendo leva sul principio di solidarietà economica e sociale (art. 2 Cost.), su quello di effettività (art. 24 Cost.) e sulla clausola generale di buona fede contrattuale (art. 1375 e 1366 c.c.), che il dovere di rinegoziazione prende corpo in una precisa regola di condotta. Si tratta, in sostanza, dei referenti normativi all’insegna dei quali è portato a compimento il percorso ermeneutico, approdando al significato deontico che sancisce, in presenza di sopravvenienze che rendano significativamente più onerosa la prestazione di una parte rispetto agli assetti definiti in sede di conclusione del contratto, il dovere della parte avvantaggiata, su richiesta dell’altra, di rinegoziarne le condizioni, sì da ristabilire gli equilibri iniziali tra le prestazioni. Dovere che, se non adempiuto spontaneamente, può, attraverso il medesimo percorso euristico, essere confermato dal giudice in sede di interpretazione del contratto secondo buona fede con la possibile condanna della parte inadempiente al risarcimento del danno.

Riprendendo allora il nostro problema, nel caso del “contratto di soggiorno” pare riprovevole il comportamento del titolare della struttura ricettiva rigidamente radicato sullo schema dell’art. 1467 c.c., che ponga cioè l’altra parte, la cui prestazione sia divenuta significativamente più onerosa per le note sopravvenienze, dinanzi all’unica alternativa del prendere o lasciare: vale a dire di eseguire il contratto alle condizioni pattuite o chiedere la risoluzione. Egli dinanzi alla richiesta avanzata dal cliente di rivalutare le condizioni contrattuali dovrà – in ossequio ai doveri comportamentali discendenti dai principi e dalle clausole generali anzidette – collaborare, proteggendo l’interesse altrui, rinegoziando il contratto secondo buona fede. Conclusione, questa, ulteriormente rafforzata dai già richiamati Principles elaborati dall’Eruopean Law Institute, i quali, sempre all’art. 13, prevedono che “where, as a consequence of the COVID-19 crisis and the measures taken during the pandemic, performance has become excessively difficult (hardship principle), including when cost of performance has risen significantly, European States should ensure that, in accordance with the principle of good faith, parties enter into re-negotiations even if this has not been provided for in a contract or in existing legislation”.

5. Dinanzi a sopravvenienze come quella attuale, legata a un evento epidemico di portata straordinaria e globale, che ha comportato, sul piano giuridico, la sospensione di diritti e libertà fondamentali, il diritto dei contratti accusa l’inadeguatezza delle disposizioni del codice e, più in generale, i limiti funzionali delle regole del diritto privato; contestualmente, però, reclama soluzioni ragionevoli e proporzionate, articolate da una grande opera di adeguamento delle regole ai principi, soprattutto a quelli di fonte costituzionale. Si tratta di stati e reazioni del diritto indotti dalla storia, che tengono conto dello specifico rapporto contrattuale in stretta comunicazione con la tenuta degli assetti di efficienza del settore di mercato in cui esso si colloca, interessati, sempre per effetto di quelle stesse sopravvenienze, da una nuova complessità. Sì che la vita sociale già messa a dura prova dagli accadimenti legati alla pandemia da Covid-19 interpella il diritto per essere ordinata non da risposte distruttive, capaci di far seguire al dramma relazionale ed economico quello giudiziario generato dal contenzioso contrattuale; esige, viceversa, soluzioni costruttive, adatte a fondare un nuovo ordine economico, per il tramite di rimedi non caducatori o risarcitori bensì manutentivi del contratto. E trovandosi al cospetto di questa istanza sociale, il diritto non può arretrare, ma deve “effettivamente” funzionare, disponendosi a dare le giuste risposte, quelle cioè che, rispetto allo specifico ambito problematico, esprimono significati inseriti nel senso dell’assiologia del principio di solidarietà economica e sociale.

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