Autora: Maria Cristina Cervale. Ricercatore di Dritto Privato, Universidad de L’Aquila, Italia. Correo electrónico: mariacristina.cervale@univaq.it.
Resumen: La proprietà collettiva, nelle sue diverse manifestazioni risalenti nel tempo e aventi ad oggetto l’appartenenza, l’uso, la gestione di vaste porzioni di territorio con destinazione agricola, a pascolo o a bosco, costituisce un altro modo di possedere tali beni da parte delle comunità interessate, in modo da consentire la utilizzazione collettiva di alcuni beni immobili ma anche la conservazione dell’ambiente naturale come patrimonio dell’uomo e della società in cui vive.
La proprietà collettiva, denominata anche «usi civici», è stata oggetto di importanti decisioni rese dalla Corte costituzionale che ne hanno riconosciuto l’appartenenza all’ordinamento civile dello stato italiano, trattandosi di diritti reali relativi a beni immobili.
Di recente, il legislatore è intervenuto a disciplinare la materia con la legge 20 novembre 2017, n. 168, sui domini collettivi, legge che ne riconosce il rilievo costituzionale, la natura privatistica, la non alienabilità, la non divisibilità, la non usucapibilità e la perpetua destinazione agro-silvo-pastorale.
Palabras clave: proprietà; proprietà collettiva; usi civici; ordinamento civile.
Abstract: Collective ownership, in its various manifestations dating back over time that have as their object the belonging, use, management of large portions of land for agricultural, pasture or woodland purposes, constitutes another way of possessing these assets by communities concerned, so as to allow the collective use of some real estate while assuring the conservation of the natural environment as a heritage of man and the society in which he lives.
Collective ownership, also known as “civic uses”, has been the subject of important decisions made by Constitutional Court which recognized its belonging to the civil system of Italy, being them real rights relating to real estate.
Recently, the legislator intervened to regulate the matter with the law n. 168 of November 20, 2017 on collective domains. A law that recognizes their constitutional significance, their private nature, the fact that they can not be alienated, divided, acquired by prescription and their perpetual destination for agricultural, pasture or woodland purposes.
Key words: property; collective ownership; civic uses; civil system.
Sumario:
I. Gli usi civici, la proprietà collettiva e la loro origine.
II. L’alterno rapporto tra legislazione statale e potestà normativa regionale.
III. Gli usi civici, la legislazione regionale e la destinazione industriale di terreni agrari.
IV. Gli usi civici e la realizzazione di impianti pubblici o di pubblico interesse destinati alle telecomunicazioni, al trasporto energetico, dell’acqua, del gas e dello smaltimento di liquami.
V. Il recente contributo della giurisprudenza della corte costituzionale.
VI. I principi generali della Legge 20 novembre 2017, n. 168, sui domini collettivi, all’interno dell’ordinamento civile.
VII. Il mutamento di destinazione d’uso in funzione dell’evoluzione dell’economia agricola e ambientale.
VIII. La natura privata degli enti esponenziali delle collettività titolari dei domini collettivi.
IX. Conclusioni
Referencia: Actualidad Jurídica Iberoamericana Nº 14, febrero 2021, ISSN: 2386-4567, pp. 532-557.
Revista indexada en SCOPUS, REDIB, ANVUR, LATINDEX, CIRC, MIAR.
I. GLI USI CIVICI, LA PROPRIETÀ COLLETTIVA E LA LORO ORIGINE.
La disciplina degli usi civici ha origini antiche e si sviluppa nel corso dei secoli con un interesse non sempre costante che ha risentito, a fasi alterne, dell’attenzione rivolta alle proprietà collettive, piuttosto che alla proprietà individuale; dell’esigenza di tutela della terra, della natura e dell’ambiente piuttosto che dell’industria e dell’urbanizzazione; della necessità di garantire a determinate collettività utilità e poteri di gestione di beni naturali da conservare piuttosto che da liquidare ed estinguere.
Gli usi civici in senso proprio emergono nei lavori della Commissione feudale napoletana che nei primi anni dell’Ottocento traduce in atti concreti i principi delle leggi eversive della feudalità. L’esperienza feudale che aveva permeato di sé l’epoca medievale attraverso il vincolo personale di dipendenza del vassallo al signore e la concessione, del signore al vassallo, del possesso e del godimento della terra, terminerà, nei primi anni dell’Ottocento, con l’abolizione della feudalità e la scelta di ripartire le terre che un tempo costituivano il feudo tra il barone e i cittadini del luogo. Il dominio diviso della tradizione medievale, distinto in dominio diretto e dominio utile, aveva determinato una scomposizione del diritto di proprietà tramandato dalla civiltà giuridica romana come diritto individuale, assoluto ed esclusivo; una scomposizione che rispondeva alle diverse stratificazioni sociali, gerarchicamente subordinate tra loro, attraverso le quali la vita medievale si era organizzata attorno al feudo. La trasformazione del feudo in istituto patrimoniale, poi, aveva imposto un nuovo regolamento del possesso fondiario e pertanto il concetto di proprietà fluttuava tra l’antico individualismo romano e le forme di godimento fondiario collettivo, con tutti i vincoli di carattere reale che vi erano storicamente connessi. Si assiste così al passaggio dalla proprietà individuale alla proprietà collettiva, riferita ad una comunità originariamente legata ad un determinato territorio e volta al soddisfacimento di interessi collettivi, gli interessi del gruppo, attraverso lo sfruttamento del bene terra considerato necessariamente funzionale alla sopravvivenza quotidiana.
Il feudo meridionale, pertanto, accompagnerà, come struttura economico-sociale, il lungo percorso storico che porterà, nel decennio napoleonico dei primi anni dell’Ottocento, all’eversione della feudalità. Così, Giuseppe Napoleone, con la legge 2 agosto 1806, dispone che: «La feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali, ed i proventi qualunque, che vi siano stati annessi, sono reintegrati alla sovranità, della quale saranno inseparabili» (art. 1). Nel successivo art. 15, la suddetta legge afferma che i demani appartenenti agli aboliti feudi restano agli attuali possessori e che gli usi civici saranno conservati fino a quando di detti demani, con apposita legge, non ne sia determinata e regolata la divisione, proporzionata al dominio e ai diritti rispettivi.
Pertanto, prima Giuseppe Napoleone e poi Gioacchino Murat, il suo successore, provvedono ad attuare concretamente le citate disposizioni attraverso la nomina dei componenti della Commissione feudale a cui viene assegnato il delicato compito di regolare i rapporti tra i baroni ed i cittadini, dividendo le terre che appartenevano un tempo al feudo.
Il descritto stato di fatto comporta una profonda modifica alla struttura proprietaria del Regno di Napoli e soprattutto permette alla citata Commissione di elaborare i principi generali della materia che ancora oggi la caratterizzano significativamente: i beni di uso civico, a differenza degli altri beni immobili di proprietà privata, non circolano e non si usucapiscono; inoltre, i diritti di uso civico non si prescrivono. Tali principi rimangono alla base della legislazione degli anni ’20 del Novecento che, dopo oltre un secolo di sostanziale disinteresse, tenta di rivalorizzare la materia attraverso un’opera di affidamento dei suddetti beni ai Comuni. Quindi, nel 1927, viene approvata la legge 16 giugno 1927, n. 1766 che costituirà e costituisce ancor oggi il punto di partenza per una riflessione di diritto positivo sul tema e che realizzerà un processo di pubblicizzazione tale da rendere la proprietà collettiva, dalla pianura padana alla Sicilia, unitaria nella disciplina e nelle funzioni. Ne restano estranee solo le regole dell’arco alpino, disciplinate molto dopo nel 1994 dalla legge sulla montagna (l. 31 gennaio 1994, n. 97).
Il sintagma «usi civici», tuttavia, costituisce una espressione di comodo che ricomprende al suo interno istituti e discipline varie dell’intero territorio italiano. Attualmente, sinonimo di tale espressione può essere considerato quello, ascrivibile alla dottrina contemporanea di «assetti fondiarii collettivi», cioè regimi di proprietà diversi da quella allodiale, aventi quale comune denominatore – all’interno delle peculiarità generate dai diversi contesti storici – l’utilizzazione collettiva di determinati beni immobili. Pertanto, la denominazione più diffusa, quella di usi civici, intende ricomprendere sotto una unica definizione non soltanto i diritti reali di interesse pubblico su proprietà private (iura in re aliena) ma anche qualsiasi forma di proprietà collettiva privata.
L’evoluzione normativa, tuttavia, non si è esaurita con la legge del 1927 in quanto il legislatore ha avvertito la necessità di regolare nuovamente la materia attraverso l’emanazione della legge 20 novembre 2017, n. 168 (recante Norme in materia di domini collettivi). La citata legge interviene dopo quasi un secolo su una disciplina, quella appunto degli usi civici, che attendeva da tempo una rinnovata regolamentazione all’interno di un contesto il quale, partendo dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766 e dal regolamento di attuazione di cui al r.d. 26 febbraio 1928, n. 332, ricomponesse il quadro delineato anche dalle successive leggi sulla tutela dell’ambiente, del paesaggio e della montagna. A ciò si aggiunga che, nel corso degli ultimi anni, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha autorevolmente contribuito a fare chiarezza su contrasti, questioni e dibattiti non soltanto di legittimità costituzionale ma anche di natura interpretativa, costituendo un necessario punto di riferimento per l’approfondimento di una materia che, stando alle ultime decisioni della Consulta, rientra a pieno titolo nell’ordinamento civile ai sensi dell’art. 117, lett. l), Costituzione in quanto riguardante diritti dominicali il cui regime giuridico non può essere modificato da provvedimenti amministrativi regionali.
II. L’ALTERNO RAPPORTO TRA LEGISLAZIONE STATALE E POTESTÀ NORMATIVA REGIONALE.
Tra le varie peculiarità che contraddistinguono gli usi civici vi è anche quella relativa al rapporto tra legislazione statale e potestà normativa regionale, un rapporto che sollecita ancora un dibattito vivace, alimentato da molteplici fattori, tra i quali si possono individuare: la riforma costituzionale del 2001, introdotta dalla legge costituzionale n. 3/2001, con cui sono state ripartite dettagliatamente le competenze legislative tra Stato e Regioni; la tematica sempre attuale del costante e ininterrotto dialogo tra diritto pubblico e diritto privato, secondo una distinzione enunciata con riferimento al diritto come ordinamento, sintesi necessaria dei due termini di confronto. A ciò si aggiunga, tra le ulteriori ragioni, la sensibilità dimostrata dalla dottrina civilistica al dettato costituzionale, quale strumento di interpretazione delle norme ordinarie e di difesa dei diritti fondamentali e la costante attenzione rivolta alla giurisprudenza della Corte costituzionale: quest’ultima, quando è possibile evitare l’abrogazione di una norma, ne propone una lettura conforme ai principi costituzionali, creando proficuamente un diritto vivente vicino al tessuto sociale in continuo fermento.
Entro il descritto scenario, si colloca appunto la materia degli usi civici che documenta, per la sua particolare natura e funzione, come usi civici e diritto civile, legislazione statale e potestà normativa regionale creino dinamiche necessarie, inevitabili nella loro stringente correlazione con la particolare natura degli usi civici che, necessariamente, coniuga interessi privati con interessi della collettività.
III. GLI USI CIVICI, LA LEGISLAZIONE REGIONALE E LA DESTINAZIONE INDUSTRIALE DI TERRENI AGRARI.
La Regione Abruzzo, il cui territorio montano è in gran parte sottoposto a vincoli di natura civica sia per la presenza di tratturi sia per lo sviluppo di estesi pascoli, è tra le prime regioni ad intervenire sulla disciplina degli usi civici, mediante la legge regionale 3 marzo 1988, n. 25 (così come modificata dalla successiva legge Regione Abruzzo 8 settembre 1988, n. 77), intitolata «Norme in materia di usi civici e di gestione delle terre civiche».
Proprio tale legge costituisce tuttavia oggetto di esame da parte della Corte costituzionale che, con la sentenza 30 dicembre 1991, n. 511, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, secondo comma, in essa contenuto. Tale articolo così dispone: «Nei casi in cui, per effetto di utilizzazioni improprie ormai consolidate, porzioni di terre civiche abbiano da tempo irreversibilmente perduto la conformazione fisica e la destinazione funzionale di terreni agrari, ovvero boschivi o pascolivi, il Consiglio regionale, su richiesta motivata del comune territorialmente interessato, ovvero dell’Amministrazione separata frazionale, sentito il Comune, se trattasi di beni di pertinenza frazionale, può disporre la sclassificazione di dette terre dal regime demaniale civico».
Le argomentazioni svolte affrontano il tema del rapporto tra legislazione statale, ordinamento civile e potestà legislativa regionale. Nello specifico, il contenzioso riguardava l’ente comunale e il consorzio per il nucleo industriale del medesimo comune e aveva ad oggetto la cessione a titolo gratuito, dal primo al secondo, di un appezzamento di terreno di natura demaniale civica per intervenuta perdita delle proprie caratteristiche. L’assunto da cui muove la Corte è che, «pur nel quadro della legge nazionale», occorre «trovare spazi a leggi regionali di sanatoria». Un assunto conciso ma significativo che oggi, rispetto alla produzione giurisprudenziale successiva, appare sicuramente vacillare sino a giungere, attraverso un percorso articolato ed incisivo, all’evoluzione di pensiero rappresentata dalla sentenza n. 113/2018 e dalle ulteriori successive sentenze intervenute sulla materia. La sentenza n. 131/2018, riguardante la normativa in materia emanata dalla regione Lazio è stata seguita dalla sentenza n. 178 del 2018, relativa alla legge regionale della Sardegna e, ancora, dalla sentenza n. 71/2020, relativa alla legge regionale della Calabria.
Tornando alla decisione n. 511 del 1991, le doglianze svolte avanti la Corte consistono nella violazione dell’art. 117 Cost. (pur se nel testo anteriore alla riforma costituzionale del 2001, che comunque individuava la materia «agricoltura e foreste» per giustificare il trasferimento alle Regioni di determinate funzioni sugli usi civici); dell’art. 118 Cost. e, infine, dell’art. 42, terzo comma, Cost. Con particolare riferimento alla violazione dell’art. 117 Cost., la Corte si pone un problema di coerenza dell’art. 10, secondo comma, legge Regione Abruzzo con i principi fondamentali risultanti e risalenti alla legge del 1927 n. 1766, di recente ribaditi ancora dalla legge 168/2017, dell’imprescrittibilità dei diritti di uso civico, dell’inusucapibilità e dell’indisponibilità delle terre collettive. Come è noto, la citata legge n. 1766 del 1927 (sul riordinamento degli usi civici nel Regno) e il successivo r.d. n. 332 del 1928 (regolamento di esecuzione della legge 1766/1927), disciplinano in un unico contesto le attività amministrative e giurisdizionali riguardanti gli usi civici. Vi rientrano, tra l’altro, la liquidazione dei diritti in re aliena, l’assegnazione a categoria di quelli in re propria (con conseguente quotizzazione dei beni con destinazione agricola e sottoposizione alla legislazione forestale di quelli con destinazione boschiva e pascoliva), le legittimazioni delle occupazioni dei terreni a vocazione agricola, le alienazioni e i mutamenti di destinazione d’uso di quelli utilizzabili come bosco o come pascolo.
La Corte, di fronte ad un provvedimento regionale di sclassificazione di terre civiche a sanatoria di situazioni pregresse, ha ritenuto, nei primi anni ’90, non sussistere la violazione dei principi fondamentali in materia di usi civici dettati dalla legislazione statale, in quanto, nel caso di zone ad utilizzazione industriale, come era nel caso di specie, le diverse e più remunerative possibilità di occupazione, prodotte dal sopravvenuto sviluppo industriale del paese anche nelle zone tradizionalmente agricole, avevano determinato un progressivo abbandono dell’esercizio degli usi civici collegati a quelle economie. Tale fenomeno aveva comportato che terreni gravati da usi civici fossero stati alienati dai comuni, trascurando le condizioni e le procedure previste dall’art. 12 della legge del 1927; tutto ciò, comunque, sempre per finalità di pubblico interesse connesse ai bisogni di urbanizzazione o di industrializzazione. A parere della Corte, quindi, pur nel quadro della legge nazionale, lo si ripete, occorre «trovare spazi a leggi regionali di sanatoria», con la conseguenza che la soluzione adottata dall’art. 10, secondo comma, della legge abruzzese, ossia la sclassificazione dei beni demaniali oltre i casi considerati dalla legislazione statale vigente, si fonda sul fatto che le terre civiche oggetto del giudizio a quo «hanno da tempo perduto irreversibilmente la conformazione fisica e la destinazione funzionale di terreni agrari ovvero boschivi o pascolivi».
Nè sussiste violazione dell’art. 118 Cost. in quanto «il trasferimento delle funzioni amministrative in questa materia… dovrebbe intendersi in realtà come delega ai sensi dell’art. 118, secondo comma, Cost., assistita dal limitato potere normativo previsto dall’art. 7 del citato decreto (d.p.r. 616/1977)». Inoltre la Corte, in relazione alla lamentata violazione dell’art. 42, terzo comma, Cost., riguardante la possibilità di espropriazione della proprietà privata per motivi di interesse generale, ritiene che l’atto di sclassificazione non possa essere considerato assimilabile alla espropriazione forzata, essendo, nel caso di specie, ordinato alla regolarizzazione di una vendita già avvenuta «finalizzata a un insediamento industriale che rappresenta un reale beneficio per la collettività». Pertanto, avendo l’atto di sclassificazione natura meramente dichiarativa volta ad accertare la perdita delle caratteristiche che qualificavano i terreni come beni del demanio collettivo, esso non poteva essere ragione di nullità della vendita stipulata tra le parti.
Ne è conseguita, quindi, la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, secondo comma, della legge Regione Abruzzo 3 marzo 1988, n. 25, rubricato «Sanatoria di abusi edilizi», in riferimento agli artt. 117, 118 e 42 della Costituzione, con il riconoscimento della possibilità, per il Consiglio regionale abruzzese, di provvedere alla sclassificazione delle terre civiche nei casi in cui le stesse avessero perduto irreversibilmente la loro conformazione fisica e la loro destinazione funzionale.
La questione, in linea di principio, non riguarda soltanto la Regione Abruzzo in quanto altre leggi regionali contengono precetti simili a quelli della legge abruzzese: ad esempio, analoga disciplina è prevista dall’art. 7, legge Regione Veneto 22 luglio 1994, n. 31 (Norme in materia di usi civici) che, ugualmente, prevede forme di sclassificazione di terreni di uso civico che «hanno irreversibilmente perduto la conformazione fisica e la destinazione funzionale di terreni agrari, boschivi e pascolivi per effetto di occupazioni abusive o di utilizzazioni improprie ormai consolidate»; ancora, l’art. 8 della legge Regione Molise 23 luglio 2002, n. 14 (Usi civici e gestione delle terre civiche), regolamenta forme di sanatoria in caso di «terre civiche che abbiano da tempo irreversibilmente perduto la conformazione e la destinazione funzionale»; inoltre, l’art. 24 della legge R. Calabria, 21 agosto 2007, n. 18 (Norme in materia di usi civici), regola gli effetti della cessazione definitiva dei diritti di uso civico.
IV. GLI USI CIVICI E LA REALIZZAZIONE DI IMPIANTI PUBBLICI O DI PUBBLICO INTERESSE DESTINATI ALLE TELECOMUNICAZIONI, AL TRASPORTO ENERGETICO, DELL’ACQUA, DEL GAS E DELLO SMALTIMENTO DI LIQUAMI.
La progressiva percezione della rilevanza degli usi civici, del loro valore intrinseco e della loro funzionalità così proficuamente legata al territorio, al paesaggio e all’ambiente porta la giurisprudenza della Corte costituzionale a modificare il proprio orientamento quando la Corte è chiamata a decidere una diversa questione relativa ad altra legge della Regione Abruzzo, nello specifico la legge regionale 27 aprile 1996, n. 23 (riguardante gli «Impianti pubblici o di pubblico interesse»). Con la decisione del 21 novembre 1997, n. 345, la Consulta, utilizzando il criterio di ragionevolezza stabilito dall’art. 3 Cost., dichiara la illegittimità costituzionale della legge impugnata, che si compone di un unico articolo.
L’intento del legislatore regionale era quello di semplificare le procedure di alienazione o di mutamento di destinazione delle terre civiche irreversibilmente trasformate per motivi industriali collegati ad interessi pubblici. Pertanto, secondo la suddetta legge, gli impianti a rete pubblici o di pubblico interesse, destinati alle telecomunicazioni, al trasporto energetico, dell’acqua, del gas e allo smaltimento dei liquami, si configuravano come opere di urbanizzazione e quindi non necessitavano di conformità urbanistica e non erano soggetti a concessione edilizia, ma a semplice autorizzazione comunale, che aveva l’effetto di rendere immediatamente utilizzabili i suoli civici. Tutto ciò, sul presupposto che la realizzazione dei suddetti impianti costituisse comunque una esplicazione del diritto collettivo di godimento.
Tuttavia, in questo secondo giudizio, la necessità di tutela dei beni civici risulta prevalente sulla esigenza di legittimare gli impianti di pubblico interesse. A parere della Corte, infatti, il tentativo della legge regionale di voler snellire l’iter procedimentale delle opere di urbanizzazione ivi previste, collegando automaticamente l’estinzione dell’uso civico all’autorizzazione del sindaco, appare contrario al criterio di ragionevolezza e, quindi, in contrasto con l’art. 3 della Costituzione. Abbandonato il criterio della prevalente utilità industriale delle zone tradizionalmente agricole applicato dalla sentenza n. 511 del 1991, criterio che in tale sede non viene nemmeno citato, la Consulta in un ragionamento dal respiro più ampio e richiamando la violazione dell’art. 3 Cost., ritiene la legge regionale in contrasto con la legislazione nazionale in materia (ossia la legge n. 1766 del 1927 e il successivo regolamento di esecuzione n. 332 del 1928), con la legge statale per le zone montane (l. 31 gennaio 1994, n. 97 – Nuove disposizioni per le zone montane) e anche con la legge Regione Abruzzo n. 25 del 1988 (art. 6), in quanto le limitazioni o la liquidazione dei diritti di uso civico rientra nella competenza legislativa statale, che prevede l’obbligatorietà del procedimento di assegnazione a categoria dei terreni civici da alienare o da mutare nella destinazione e postula la compatibilità del programma di trasformazione con le valutazioni paesistiche.
La questione, come appare evidente, è complessa e la dialettica si arricchisce di nuovi argomenti in quanto l’attenzione agli impianti di rilevante impatto economico e sociale ha portato il legislatore a ritenere che «i beni gravati da uso civico non possono essere espropriati o asserviti coattivamente se non viene pronunciato il mutamento di destinazione d’uso, fatte salve le ipotesi in cui l’opera pubblica o di pubblica utilità sia compatibile con l’esercizio dell’uso civico» (art. 1 bis, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327). L’attuale testo dell’art. 1 bis risulta dalle modifiche apportate dall’art. 74, comma primo, legge 28 dicembre 2015, n. 221. Sull’argomento, va segnalato che con il d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, era stata inserita, a conclusione dell’art. 1 bis, il seguente ulteriore testo: «… compreso il caso di opera interrata o che occupi una superficie inferiore al 5 per cento rispetto a quella complessiva oggetto di diritti di uso civico». Tuttavia, tale modifica non è stata confermata in sede di conversione e ciò ribadisce, da un lato, l’efficace resistenza che la materia oppone ad eventuali modifiche semplificatorie della normativa; dall’altro, l’attenzione che il legislatore costantemente pone alle tematiche trattate.
V. IL RECENTE CONTRIBUTO DELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE.
Le problematiche esaminate hanno recepito nel corso degli anni una diversa impostazione, soprattutto a seguito di una sempre più crescente sensibilità giuridica manifestata nei confronti degli usi civici che ha portato ad evidenziarne la natura di diritti soggettivi, nella specie diritti reali, su cui la legislazione regionale non può esercitarsi. A ciò si aggiunga la sopravvenuta legge sui domini collettivi 20 novembre 2017, n. 168, che costituisce una significativa testimonianza dell’attenzione manifestata dal legislatore statale all’istituto giuridico in esame. Tale provvedimento normativo, come già rilevato, riconosce i domini collettivi come ordinamento giuridico primario delle comunità originarie e riconosce anche la loro funzione di conservazione e valorizzazione del patrimonio naturale nazionale, la loro perpetua destinazione agro-silvo-pastorale e il loro essere componenti stabili del sistema ambientale; il tutto sempre all’interno della competenza legislativa statale. Attualmente, dunque, l’ordinamento civile cui si riferisce l’art. 117, lett. l), Cost., ma anche l’ambiente e l’ecosistema, cui si riferisce la lett. s) del medesimo articolo, costituiscono materie riservate alla competenza legislativa statale, delimitano cioè un’area giuridica entro la quale il legislatore regionale non può introdursi, se non per conservare, incentivare e valorizzare attraverso i procedimenti amministrativi previsti dalla legge n. 1766 del 1927 e, quando necessario, attraverso il procedimento di mutamento di destinazione.
Pertanto, il «regime dominicale degli usi civici» costituisce materia dell’«ordinamento civile», per usare le parole della Corte (sentenza 113/2018). In particolare, le regioni a statuto ordinario non possono dettare norme circa «la disciplina della titolarità e dell’esercizio di diritti dominicali su terre civiche»; e tale limite è ribadito anche con riferimento alla Regione autonoma della Sardegna (Corte cost., 26 luglio 2018, n. 178). La configurazione dell’uso civico quale diritto reale lo rende prerogativa del diritto privato, così come anche la individuazione della natura pubblica o privata dei beni (il riferimento è agli artt. 822 e seguenti c.c.) appartiene all’ordinamento civile, con la conseguenza che rientra nella competenza legislativa statale la disciplina dell’estinzione e dell’alienazione dei beni di uso civico, entro le ipotesi tassative indicate dalla legge 1766 del 1927.
Ancora, più di recente, la Consulta con la sentenza del 24 aprile 2020, n. 71, in relazione alla dichiarata illegittimità costituzionale dell’art. 53 della legge della Regione Calabria 29 dicembre 2010, n. 24, conferma i principi già enunciati nel senso che la determinazione del regime giuridico dei beni immobili collettivi appartiene alla materia dell’ordinamento civile, soffermandosi altresì sul ruolo del procedimento amministrativo di mutamento di destinazione d’uso. A parere della Corte, tale procedimento non mortifica il valore dell’uso civico né riduce la consistenza del bene che ne costituisce l’oggetto: il mutamento di destinazione d’uso può determinare, invece, un utilizzo del bene che segue le esigenze economiche e ne dispone in modo dinamico, attualizzando l’uso alle nuove dinamiche produttive.
La configurazione degli usi civici quali diritti reali ne determina la perpetuità e l’assolutezza, pur se gli usi civici risultano caratterizzati anche da inalienabilità, inusucapibilità e imprescrittibilità. E su tale conclusione non si può che concordare anche in considerazione del fatto che l’art. 3, terzo comma, l. 168/2017 ribadisce i suddetti principi. La caratterizzazione in senso reale, inoltre, spiega la particolare attenzione rivolta dalla dottrina civilistica al loro inquadramento sistematico, in rapporto al diritto d’uso, alle servitù prediali, alla configurazione di un diritto reale atipico o, comunque, alla configurazione di una situazione dominicale eccezionale rispetto al sistema dei diritti reali per come esso è tradizionalmente conosciuto (per quanto riguarda gli usi civici in re aliena); oltre alla proficua riflessione sui possibili contatti tra demani civici, comunione ordinaria e proprietà collettiva.
Dalle considerazioni sin qui svolte possono trarsi le seguenti ulteriori conseguenze. Un bene gravato da uso civico non può essere oggetto di disposizione al di fuori delle ipotesi disciplinate dalla legge 1766/1927 e del r.d. n. 332 del 1928 (e, quindi, alienazione e legittimazione nei casi ivi previsti) e, tenuto conto delle caratteristiche strutturali degli usi civici, sotto il profilo sistematico e sostanziale il regime civilistico dei beni civici non può ritenersi rientrante nella sfera di competenza legislativa delle regioni, essendo state ad esse trasferite soltanto le funzioni amministrative. Pertanto, le procedure di legittimazione e di alienazione non possono essere modificate dagli enti territoriali regionali i quali possono esclusivamente incidere sulle modalità attraverso cui si realizzano tali mutamenti della proprietà collettiva: per esempio, attraverso l’eterodeterminazione di un canone ridotto per particolari situazioni personali (quali la residenza, il tempo di residenza, il reddito, la qualifica di coltivatore diretto, il vincolo intergenerazionale).
L’ordinamento civile si pone quale limite alla legislazione regionale in quanto fondato sull’esigenza di garantire nel territorio nazionale l’uniformità di disciplina dei rapporti tra privati: ciò determina che l’individuazione della natura pubblica o privata dei beni appartiene all’ordinamento civile e non può essere attribuita ad una norma regionale.
Conseguentemente, le regioni possono esercitare i poteri di natura amministrativa relativi alle alienazioni e alle legittimazioni nel rispetto della normativa statale, non potendo invece dettare norme di carattere sostanziale che le vadano a modificare, perché ciò inciderebbe sul particolare regime della titolarità, della natura e della circolazione dei beni.
L’incommerciabilità derivante da tale regime comporta che la preminenza del pubblico interesse, che ha impresso al bene immobile il vincolo dell’uso civico, non ne possa consentire la circolazione, oltre i modi e i termini previsti dalla legislazione statale vigente, anche se ciò costituisce un limite all’autonomia privata. Pertanto, tutto ciò che riguarda la disciplina sostanziale degli usi civici rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato: in termini di natura (in quanto trattasi di diritti soggettivi assoluti), di funzione (nel senso di utilità per le comunità di appartenenza e di conservazione del territorio, del paesaggio e dell’ambiente), di regime giuridico (si pensi alla inalienabilità, indisponibilità, inusucapibilità, imprescrittibilità), di sdemanializzazione (secondo le ipotesi disciplinate dalla legge 1766/1927).
VI. IL MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO IN FUNZIONE DELL’EVOLUZIONE DELL’ECONOMIA AGRICOLA E AMBIENTALE.
Nell’ambito della riflessione, si può considerare anche il mutamento di destinazione d’uso, pur se si dubita se esso rientri in pieno nella materia «ordinamento civile». L’istituto non contrasta con il regime di indisponibilità del bene civico quando avviene attraverso la valutazione delle autorità competenti, in quanto non sottrae il bene al patrimonio civico, non lo aliena né lo permuta: ne riconosce una diversa funzione, limitata nel tempo e dietro pagamento di un canone, esercitata comunque sempre per la soddisfazione di un interesse della collettività che ne rimane intestataria. Il procedimento di mutamento di destinazione potrebbe costituire la strada maestra per risolvere i conflitti tra un utilizzo moderno delle terre civiche, che tenga conto di nuove destinazioni non ipotizzabili compiutamente negli anni venti del Novecento (si pensi al trasporto di energia, ai ripetitori per le telecomunicazioni, allo sviluppo delle infrastrutture) e il permanere del vincolo di destinazione, che in tale ipotesi continua a sussistere pur essendo temporaneamente sospeso.
Si tratta di porre in rilievo un diverso valore che il bene di uso civico può offrire nel senso che il mutamento di destinazione d’uso può consentire la conservazione del rilievo pubblicistico del bene nell’ambito, però, di un diverso assetto funzionale, in tal modo valorizzando la natura dinamica dei vincoli che gravano sui patrimoni civici e adeguandola alle attuali esigenze economiche. Infatti, lo stretto rapporto tra vincolo paesistico-ambientale e regime dei beni di uso civico comporta altresì che la tutela di questi ultimi non possa consistere unicamente in una conservazione statica e determina, piuttosto, un regime di gestione che ne preservi il carattere ecologico e la disciplina giuridica in coerenza con l’evoluzione dell’economia agricola e di quella ambientale. Il carattere peculiare del mutamento di destinazione è dato proprio dalla sua compatibilità tra l’utilizzo attuale del bene di uso civico e l’interesse generale della comunità titolare del bene stesso.
Detto principio risulta di rilevante attualità e già si rinviene nell’art. 41 del regolamento di attuazione (r.d. 332/1928) il quale stabilisce «… che a tutte o parte delle terre sia data una diversa destinazione, quando essa rappresenti un reale beneficio per la generalità degli abitanti… In tal senso il decreto di autorizzazione conterrà la clausola del ritorno delle terre, in quanto possibile, all’antica destinazione quando venisse a cessare lo scopo per il quale l’autorizzazione era stata accordata. Qualora non sia possibile ridare a queste terre l’antica destinazione, il Ministro per l’economia nazionale potrà stabilire la nuova destinazione delle terre medesime». La citata norma evidenzia il rapporto di continuità tra la vocazione pubblica, che sussiste all’interno dell’istituto del mutamento di destinazione d’uso, e le esigenze evolutive che pure caratterizzano l’ambito disciplinare in esame. L’onerosità del mutamento di destinazione può essere modulata diversamente in ragione della durata e della difficoltà di reversibilità del bene verso l’originario assetto e, comunque, può garantire l’integrità del patrimonio civico nel suo complesso.
VII. I PRINCIPI GENERALI DELLA LEGGE 20 NOVEMBRE 2017, N. 168, SUI DOMINI COLLETTIVI, ALL’INTERNO DELL’ORDINAMENTO CIVILE.
La legge 20 novembre 2017, n. 168, contribuisce ad ampliare la normativa relativa agli usi civici attraverso la disciplina dei «domini collettivi», senza l’abrogazione della disciplina precedentemente in vigore. Tale legge inserisce a pieno titolo i domini nella Costituzione attraverso un esplicito richiamo agli articoli 2, 9, 42 secondo comma, e 43 Cost., ne dichiara la natura privata in quanto «ordinamento giuridico primario delle comunità originarie… dotato di autonormazione… di capacità di gestione del patrimonio… caratterizzato dall’esistenza di una collettività» (art. 1, comma primo). Il riferimento all’art. 2 Cost. appare una significativa valorizzazione di tali realtà come formazioni sociali in grado di consentire lo sviluppo della personalità dell’individuo che vi partecipa: ed in effetti gli usi civici, nelle loro radici originarie e nella successiva evoluzione storica, costituiscono senza dubbio una delle più antiche espressioni di formazione sociale entro il cui ambito si gestiscono i beni di interesse collettivo, nell’interesse proprio, altrui e quindi della collettività. Il tutto, all’interno di un rapporto di natura reale tutelato dall’art. 42, secondo comma, Costituzione. Ugualmente, il richiamo all’art. 9 Cost. conferma il ruolo, assunto nel corso del tempo e confermato a più riprese dalla giurisprudenza costituzionale, dei beni civici quale efficace espressione, e al tempo stesso strumento di tutela, del paesaggio e dell’ambiente; mentre l’art. 43 Cost. sottolinea il valore economico insito nei beni di uso civico attraverso la possibilità di riservare o trasferire a enti pubblici, comunità di lavoratori o di utenti, imprese relative a beni produttivi che presentino il carattere di preminente interesse generale.
La recente legge sui domini collettivi, pertanto, rivitalizza una materia assai particolare, ne riconosce la natura privatistica, recepisce anche da un punto di vista terminologico il concetto di proprietà collettiva, il ruolo della collettività, la funzione collettiva dei beni civici.
I domini collettivi, per volontà della legge, esistono come ordinamenti giuridici primari delle comunità originarie in quanto preesistenti allo Stato italiano, consistenti in una utilità per i componenti di una determinata comunità di abitanti, abbiano ad oggetto lo sfruttamento di un fondo. Essi, inoltre, sono soggetti alla Costituzione; sono dotati di capacità di autonormazione e di gestione del patrimonio naturale, economico e culturale che fa capo alla base territoriale della proprietà collettiva; sono caratterizzati dall’esistenza di una collettività i cui membri hanno in proprietà terreni ed insieme esercitano diritti di godimento, individualmente e collettivamente, su terreni che il comune amministra o la collettività da esso distinta ha in proprietà pubblica o collettiva (art. 1).
Il regime giuridico dei beni collettivi resta quello della inalienabilità, della indivisibilità, della inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale (art. 3, terzo comma), in continuità con la precedente normativa.
La legge n. 168 del 2017, inoltre, affermando che «gli enti esponenziali delle collettività titolari dei diritti di uso civico e della proprietà collettiva hanno personalità giuridica di diritto privato ed autonomia statutaria» (art. 1, secondo comma), marginalizza il ruolo dei Comuni e delle Regioni. Ancora, con tale legge viene ad essere riaffermata positivamente la funzione ambientale della materia, che si aggiunge a quella agro-silvo-pastorale. Funzione ambientale già indicata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e ribadita anche da alcune recenti decisioni che ridimensionano ulteriormente il ruolo delle Regioni, sottolineando come sia la funzione ambientale sia l’appartenenza della materia all’ordinamento civile, facciano propendere per un riequilibrio delle attribuzioni a tutto vantaggio dello Stato centrale.
I beni collettivi, all’interno del testo normativo, vengono individuati e classificati in relazione alle loro caratteristiche (art. 3, primo comma) e si considerano tali:
le terre di originaria proprietà collettiva della generalità degli abitanti del territorio di un comune o di una frazione, imputate o possedute da comuni, frazioni od associazioni agrarie, comunque denominate;
le terre, con le costruzioni di pertinenza, assegnate in proprietà collettiva agli abitanti di un comune o di una frazione, a seguito della liquidazione dei diritti di uso civico e di qualsiasi altro diritto di promiscuo godimento esercitato su terre di soggetti pubblici e privati;
le terre derivanti da scioglimento delle promiscuità, dallo scioglimento di associazioni agrarie, dall’acquisto di terre ai sensi dell’art. 22, legge 1766/1927 e art. 9, legge 1102/1971, da operazioni e provvedimenti di liquidazione o da estinzione di usi civici, da permuta o da donazione;
le terre di proprietà di soggetti pubblici o privati, sulle quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati;
le terre collettive comunque denominate, appartenenti a famiglie discendenti dagli antichi originari del luogo e le terre collettive disciplinate dalla legge 991/1952, dalla legge 1102/1971, dalla legge 97/1994;
infine, i corpi idrici sui quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici.
Il riferimento costante, per la individuazione dei beni collettivi, è alla terra, alle terre collettive e a tutte quelle realtà che nei secoli, in via originaria, risultano collegate alla terra. Tuttavia, una apprezzabile novità della recente legge è costituita dall’aver inserito, all’interno della categoria, i corpi idrici sui quali risultano esercitati usi civici da parte dei residenti. L’esplicito riferimento ai corpi idrici chiarisce ed estende espressamente la categoria del bene collettivo anche all’acqua, una risorsa vitale ed essenziale, anch’essa strettamente funzionale alla sopravvivenza umana; una risorsa preziosa, dal rilevante valore economico se gestita, commercializzata e trasformata in bene di consumo.
VIII. LA NATURA PRIVATA DEGLI ENTI ESPONENZIALI DELLE COLLETTIVITÀ TITOLARI DEI DOMINI COLLETTIVI.
Un importante rilievo assume la legge 20 novembre 2017, n. 168, per quanto riguarda l’attenzione posta non soltanto ai profili sostanziali di individuazione e qualificazione dei domini collettivi ma anche all’aspetto gestionale e di amministrazione, riconosciuto in favore degli enti esponenziali delle collettività titolari dei beni oggetto di proprietà collettiva e di uso civico. La natura privatistica di tali enti li colloca all’interno dell’ordinamento civile e, quindi, della competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Ciò non costituisce una assoluta novità in quanto già la legge n. 97/1994 (Nuove disposizioni per le zone montane), all’art. 3, attribuiva ai soggetti gestori dei beni collettivi la personalità giuridica di diritto privato. Tuttavia, e significativamente, la previsione viene ripresa e sancita dalla legge 168/2017, secondo la quale (art. 1, comma secondo) «gli enti esponenziali delle collettività titolari dei diritti di uso civico e della proprietà collettiva hanno personalità giuridica di diritto privato ed autonomia statutaria». Trova in tal modo conferma un orientamento già espresso dalla Corte costituzionale negli anni ’70 (sentenza n. 38 del 1977) in forza del quale la disciplina dell’acquisto della personalità giuridica di diritto privato delle associazioni, delle fondazioni e delle altre istituzioni di carattere privato, rientra sicuramente, diremmo oggi, nell’ordinamento civile. Si rivaluta anche il ruolo dell’autonomia privata che, attraverso l’esercizio del potere di autonormazione che la legge 168/2017 riconosce, consente la costituzione di entità territoriali capaci di gestire e tutelare i beni in esame. Da un punto di vista pratico, pertanto, sta avvenendo che talune Amministrazioni Separate dei Beni di Uso civico stiano acquisendo la denominazione di «Domini collettivi dei beni di uso civico» e si stiano dotando di un proprio statuto, approvato dall’assemblea degli utenti. Tali enti assumono personalità giuridica privata di interesse pubblico ed hanno propria autonomia statutaria, amministrativa, finanziaria e contabile, oltre ad una autonomia imprenditoriale e gestionale.
IX. CONCLUSIONI.
Gli usi civici, i domini collettivi, le proprietà collettive, gli assetti fondiarii collettivi, volendo con le varie formulazioni definitorie proposte far riferimento ad una medesima esperienza giuridica, per quanto complessa e articolata, rappresentano una realtà ricca di spunti di riflessione di carattere giuridico, storico ma anche sociale ed economico.
La collocazione all’interno dell’ordinamento civile, per le ragioni espresse, ne caratterizza la disciplina, pur nel costante rapporto sia con il diritto pubblico sia, più specificamente, con la legislazione regionale in materia. La relazione tra ordinamento civile e potestà normativa regionale può, in taluni casi, apparire sfumato e portare con sé qualche incertezza sia perché non è sempre facile individuare con assoluta chiarezza gli effettivi limiti alla potestà normativa regionale in relazione all’ordinamento civile sia perché non risulta semplice stabilire il confine tra la «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», riservata allo Stato ex art. 117, lett. s) Cost., e la «valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali», propria della potestà legislativa concorrente delle Regioni, ai sensi sempre del citato art. 117, terzo comma, Costituzione.
E l’attualità del momento rafforza la necessità di un costruttivo dialogo tra Stato e regioni da cui potrebbe trarre vantaggio anche la materia degli usi civici che necessita sicuramente di una costante attenzione da parte degli organi centrali dello Stato ma che, al tempo stesso, non può prescindere dal suo originario collegamento alle specificità di una determinata collettività e del suo territorio.
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