1. La sentenza della Corte di Appello di Milano del 16 novembre 2017 n. 4793/17 assume una rilevanza assoluta nel quadro del revirement giurisprudenziale riguardante l’assegno divorzile. Ciò perché è una delle prime sentenze ad aver recepito positivamente la sentenza della Cassazione del 10 maggio 2017 n. 11504/17 la quale, mutando totalmente l’interpretazione giurisprudenziale precedente, pone come criterio fondamentale per la concessione dell’assegno divorzile non più il criterio del “mantenimento dello stesso tenore di vita” bensì quello “dell’autosufficienza”.
L’art. 5 sesto comma, l. 1 dicembre 1970, n. 898 che disciplina gli aspetti divorzili, in realtà, risulta abbastanza chiara, stabilendo che “il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
E già il principio generale secondo cui “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore” (art. 12, primo comma, delle disposizioni sulla legge in generale,Interpretazione della legge) avrebbe dovuto imporre una lettura conforme alla concatenazione sintattica delle espressioni impiegate dal legislatore ed al logico senso che ad esse lo stesso ha voluto attribuire, tale soluzione ermeneutica doveva trovare conferma anche alla luce di un più corretto metodo interpretativo sistematico ed assiologico.
L’obbligo contributivo del coniuge maggiormente facoltoso dovrebbe infatti sussistere tutte quelle volte – e solo in quei casi – in cui l’altro non abbia i mezzi adeguati a condurre una vita dignitosa o comunque non possa procurarseli.
2. Se chiara risulta la norma, la consuetudine ha invece seguito un percorso totalmente differente grazie anche alle numerose sentenze che nel tempo si sono pienamente conformate alle pronunce della Cassazione a S.U. del 29 novembre 1990 n. 11490 e n. 11492.
L’interpretazione data alla norma ed il criterio assunto non risultava essere quello della disponibilità di mezzi adeguati o comunque l’impossibilità a procurarseli (intesa come capacità lavorativa o, in ogni caso, disponibilità economica tale da garantire al coniuge “debole” la continuazione di una vita dignitosa) ma bensì risultava essere quello inerente la continuazione dello “stesso tenore di vita” mantenuto in costanza di matrimonio (Cfr. Cass. 21 ottobre 2013, n. 23797; Cass. 29 settembre 2016, n. 19339).
Ciò si concretizzava nell’assurdo paradosso che, nel caso in cui l’unione matrimoniale fosse venuta a mancare, il coniuge “debole” avrebbe avuto la possibilità di vantare il diritto al mantenimento da parte del c.d. coniuge “forte” al fine di essere garantito nella prosecuzione di una vita che fosse conforme allo stesso tenore assunto in costanza. Tale quantificazione in caso di coniugi entrambi lavoratori, sarebbe stata formata dalla congiunta entità patrimoniale degli stessi, intesa nella sua forma più ampia e generica.
Fulcro centrale, pertanto, risultava non la capacità di autosostenersi da parte del coniuge che, seppur debole, fosse comunque percettore di reddito ma, bensì, l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente a conservare un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio.
Non era necessario un effettivo stato di bisogno dell’avente diritto, il quale, di per sé, poteva anche essere autosufficiente, ciò che rilevava era infatti l’apprezzabile deterioramento, a seguito di divorzio, delle condizioni economiche del medesimo che quindi sarebbero dovute essere ripristinate così da compiersi un riequilibrio.
In tale quadro generale, alla parte richiedente spettava solo l’onere di provare il precedente tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, anche attraverso la produzione di documentazione fiscale risalente all’epoca dell’unione.
Di contro il coniuge forte era gravato da una prova contraria da definirsi diabolica, in quanto, avrebbe dovuto dimostrare la possibilità concreta, della controparte, di esercitare un’attività lavorativa confacente alle capacità ed esigenze della persona.
Non sono mancate sentenze che sembravano aprire uno spiraglio ad un indirizzo più realistico ponendo un apparente freno a tale concessione nei casi in cui il richiedente fosse proprietario della casa in cui abitava e godeva di un reddito da lavoro sufficiente ad assicurarsi un’esistenza dignitosa. Un freno. Però, solo apparente in quanto comunque tali elementi venivano meno tutte quelle volte in cui si provava che in costanza di matrimonio si fosse goduto di un più elevato tenore di vita.
Se scopo di tale indirizzo, mantenuto per oltre venti anni, doveva essere quello di riequilibrare la posizione generale del coniuge “debole” rispetto a quella del coniuge “forte” a seguito della crisi coniugale, di certo non è stato raggiunto. Unico effetto che si è determinato è quello paradossale di rendere il coniuge debole, forte, ed il coniuge forte, debole.
Tale indirizzo sembra aver raggiunto una svolta epocale nel corso del 2017.
Si è iniziato infatti a scardinare quel processo in base al quale preminente elemento, per la concessione dell’assegno divorzile, fosse la sussistenza dello stesso tenore di vita assunto in costanza di matrimonio.
3. La Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione, con la sentenza del 10 maggio 2017 n. 11504, rappresenta un vero e proprio spartiacque tra la vecchia interpretazione sia dottrinale che giurisprudenziale, non del tutto letterale dell’art. 5 della L. n. 898 del 1970 e quella nuova, rivoluzionaria ed innovativa.
Nel caso di specie la Cassazione aveva confermato la sentenza della Corte di Appello di Milano del 27 marzo 2014, la quale non aveva riconosciuto l’assegno divorzile alla ex coniuge che risultava essere una imprenditrice con un’elevata qualificazione culturale e un alto grado d’istruzione (possedeva anche importanti titoli di specializzazione ed esperienze professionali anche all’estero). Per altro, dall’istruttoria emergeva che, nella realtà, era l’altro coniuge ad aver subito una contrazione reddituale a seguito del divorzio.
Sebbene la Corte di Appello avesse comunque richiamato il criterio della c.d. conservazione del tenore di vita matrimoniale di fatto non ne aveva tenuto conto considerando preminente il criterio più equilibrato dell’autosufficienza. Così facendo, la suddetta sentenza si è discostata dall’orientamento sino a quel momento maggioritario, sia in giurisprudenza che in dottrina, con applicazione maggiormente conforme e pienamente rispondente a quanto imposto dalla normativa ad oggi vigente.
Ciò su cui fonda le basi la statuizione della Cassazione sta in un duplice obbligo, imposto al giudice in fase decisionale, il quale deve:
– valutare l’andebeatur, e quindi verificare se il coniuge che faccia richiesta di concessione dell’assegno sia privo di indipendenza economica ed autosufficienza in relazione: al proprio patrimonio, alle proprietà di beni mobili e immobili, e/o comunque a qualsiasi fonte di reddito ad esso ascrivibile, al costo della vita, al luogo di residenza, alle capacità lavorative ed in generale a qualsiasi elemento che possa garantirgli una prosecuzione della vita adeguata ma non per forza equivalente a quella assunta;
– quantificare il quantum debeatur, ma ciò solo all’esito di un accertamento, ovviamente positivo, degli aspetti inerenti l’an debeatur, applicando il principio della c.d. “solidarietà economica dell’ex coniuge” nei confronti dell’altro, che in base alla verifica degli elementi sopra esposti risulti, a tutti gli effetti, debole.
In sintesi la Cassazione sostiene che solo qualora manchi la sussistenza degli elementi da valutarsi e verificarsi nel giudizio sull’an debeatur, emergerebbe il diritto del richiedente al mantenimento e l’obbligo di corresponsione da parte del coniuge forte, la cui quantificazione dovrà poi essere determinata.
La ratio sta nell’evitare l’atteggiamento parassitario assunto dal coniuge debole nei confronti di quello forte.
4. Per onore di verità, tale sentenza ha sollevato critiche, oltre che per la nuova interpretazione assunta, anche sotto un profilo più propriamente processuale per una presunta violazione ex art. 352 c.p.c. – così come introdotto dall’art. 8 del D.lgs 2 febbraio 2006, n. 40, con lo scopo di assicurare il ruolo nomofilattico assegnato alla Corte di Cassazione – al cui comma 3 impone che “se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”.
Secondo alcuni, infatti, la Corte di cassazione avrebbe dovuto, verificata la presenza del contrasto giurisprudenziale, rimettere la questione alle Sezioni unite al fine di pervenire ad una decisione che dirimesse i possibili dubbi circa la corretta interpretazione della norma applicata.
Le critiche in parola non sembrano però cogliere pienamente nel segno poiché le pronunce della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Cfr. Cass. S.U. del 29 novembre 1990, n. 11490, e Cass. S.U. del 29 novembre 1990, n. 11492) se da un lato hanno enunciato il principio che vuole la quantificazione dell’assegno divorzile valutato alla luce del tenore di vita avuto in costanza di matrimonio, dall’altro hanno però affermato espressamente che “lo scopo di evitare rendite parassitarie ed ingiustificate proiezioni patrimoniali di un rapporto personale sciolto può essere raggiunto utilizzando in maniera prudente, in una visione ponderata e globale, tutti i criteri di quantificazione idonei […] ad evitare siffatte rendite ingiustificate, nonché a responsabilizzare il coniuge che pretende l’assegno, imponendogli di attivarsi per realizzare la propria personalità, nella nuova autonomia di vita, alla stregua di un criterio di dignità sociale”.
A ben vedere quindi, la sentenza della Cassazione n. 11504 del 2017 non appare così in contrasto con le Sezioni Unite richiamate.
Le due interpretazioni, infatti,muovono da uno stesso punto di partenza, nel senso che, entrambe riconoscono la necessità di una duplice valutazione, quella sull’an e sul quantum partendo però da due basi diverse. L’orientamento prevalente fino alla sentenza del 10 maggio 2017 n. 11504, si fondava sul fatto che il riconoscimento e la determinazione dell’assegno dipendono sempre da un’indagine sia sull’anche sul quantum ma che “il giudizio sull’an è necessariamente correlato all’ipotetica fissazione di un quantum che costituisce il tetto massimo di una misura che può essere diminuita, sulla base dei criteri di legge, fino anche ad eliminare, in date condizioni, il diritto” (Cfr. Cass. S.U. del 29 novembre 1990, n. 11490 e n. 11492). L’innovazione della introdotta dalla sentenza della Cassazione n. 11504/17 parte dal presupposto che l’indagine debba partire dall’an e quindi dalla sussistenza di tutti gli elementi, compresa la capacità del coniuge di provvedere autonomamente alle proprie esigenze di vita dignitosamente orientata. Solo all’esito di un’attenta analisi da disporsi caso per caso dalla quale risultasse l’impossibilità di proseguire una vita dignitosa, il Giudice dovrà provvedere alla individuazione del quantum escludendo quale parametro lo stesso tenore assunto in costanza di matrimonio.
Solo un effettivo “stato di bisogno” inteso quale impossibilità di provvedere al soddisfacimento delle necessità primariepuò giustificare la richiesta di aiuto nei confronti dell’altro coniuge successivamente alla cessazione degli effetti civili del matrimonio.
5. Un così repentino mutamento di orientamento interpretativo non poteva che avere immediati riflessi nella giurisprudenza di merito. In questo solco si inquadra la già citata sentenza della Corte di Appello di Milano del 16 novembre 2017, n. 4793/17, che ha assunto una forte rilevanza nazionale non solo perché ha recepito il nuovissimo orientamento ma anche per il suo valore mediatico dato dalla notorietà delle parti. Il giudizio vede infatti contrapposti Silvio Berlusconi, appellante, e la ormai ex moglie Miriam Bartolini, appellata.
A fondamento delle richieste dell’appellante (Berlusconi) di esclusione del diritto a percepire l’assegno divorzile di €. 1.400.000,00, inizialmente riconosciuto alla ex moglie Bartolini, vi era proprio la necessità di non applicare l’ormai obsoleto criterio valutativo del c.d. “tenore di vita assunto in costanza di matrimonio” (ribadito, dopo le S.U. da diverse sentenze: Cass. 21 ottobre 2013, n. 23797; Cass. 29 settembre 2016, n. 19339, solo per citarne alcune) che ancora risultava essere l’unica indiscussa interpretazione “letterale” dell’art. 5 della Legge n. 898/70. Tale presunta volontà legislativa doveva considerarsi, secondo l’appellante, solo una costante interpretazione giurisprudenziale distorta e mal definita del medesimo articolo ribadendo, per altro, che tale esegesi risulta, ad oggi, a tutti gli effetti superata per il normale evolversi dei tempi.
Inoltre si riteneva anche doveroso conformare la normativa nazionale a quella comunitaria la quale pone, in materia di mantenimento tra ex coniugi, una individuazione dell’assegno indirizzata attorno ai principi di autosufficienza, stato di bisogno e temporaneità e che pertanto, l’art. 5 co. 6 della Legge n. 898/70 dovesse essere interpretato in ragione di tali principi. Ciò imponeva che, caso per caso, si ponesse l’obbligo di valutare tutti i mezzi degli ex coniugi, e successivamente rapportarli al parametro dell’autosufficienza o a quello costituzionale della sufficienza per una esistenza libera e dignitosa, ma non certo a quello dello stesso tenore di vita.
La sentenza del Tribunale di Monza, appellata, deve considerarsi quindi erronea non solo perché ha posto a fondamento il criterio, ormai superato, dello stesso tenore di vita, ma anche e soprattutto perché non ha tenuto conto di tutti i mezzi a disposizione dell’odierna appellata, la quale aveva accantonato un patrimonio non indifferente(comprensivo di: assegni di mantenimento fino ad allora percepiti, e personalmente, disponibilità patrimoniale ingente tra cui liquidità amministrativa, una villa di ingente valore, ed in generale patrimoni immobiliari e mobiliari) che a sua volta, se correttamente gestito, era potenzialmente produttivo di ulteriore ricchezza.
Per il titolare di un patrimonio complessivo di 300milioni di euro non si pone neanche minimamente il problema di valutare la capacità di “procurarsi mezzi adeguati” essendo gli stessi, di per sé, pienamente sufficienti a condurre una vita ben più che dignitosa.
Parte appellata ovviamente contestava quanto sostenuto da parte appellante senza però darne alcun minimo di prova e continuando a basare il tutto sulla disparità di patrimonio tra i due ex coniugi e quindi, sull’impossibilità di mantenere uno stesso tenore di vita. D’altra parte, essendo il mutamento giurisprudenziale intervenuto nelle more del presente giudizio, parte appellata non si è neanche preoccupata di richiedere un termine per poter approfondire tale mutamento, limitandosi a contrastarlo nella discussione orale.
Alla luce del nuovo orientamento sarebbe stata, invece, fondamentale la conoscenza diretta da parte della Corte di Appello di Milano delle spese sostenute dalla ex coniuge così da essere commisurate alle reali entrate per poter quindi individuare l’effettivo patrimonio della Bartolini, la quale, come detto, non le ha mai prodotte.
Risultava provato invece, il consistente patrimonio della stessa più che idoneo a consentirle e garantirle un elevato tenore di vita.
La Corte di Appello ha ritenuto che a fronte di quanto provato dalle parti in causa, la Sig.ra Bartolini abbia perso il diritto all’assegno di mantenimento divorzile non sussistendo i presupposti per il suo riconoscimento ai sensi dell’art. 5 co. 6 della L. 898/70, come modificata dalla L. 74/87.
Ciò ha statuito, ritenendo sussistenti le pretese di parte appellante rispetto a quella appellata, ed a fondamento di quanto sostenuto, ha richiamato proprio la innovativa pronuncia della Suprema Corte di Cassazione del 10 maggio 2017, n. 11504, la prima, appunto, ad aver proposto una diversa interpretazione delle norme in esame, capostipite del mutamento rivoluzionario nell’individuazione dei presupposti a fondamento del riconoscimento dell’assegno divorzile.
Sicuramente la prima ma non l’unica, in quanto ad essa sono susseguite altre sentenze conformi e nello specifico la sentenza della Cassazione del 22 giugno 2017, n. 15481, con Collegio parzialmente differente nonché la sentenza della Cassazione del 16 maggio n. 12196/17, con Collegio ancora parzialmente differente la quale riconosce il criterio dello “stesso tenore di vita”, solo in fase di separazione e non di divorzio, sul presupposto che, prima del giudizio di divorzio definitivo, sussista ancora l’obbligo per i coniugi di assistenza completa che, invece, viene a cessare con la sentenza di divorzio. Conseguentemente con la cessazione degli effetti civili del matrimonio il criterio d’applicarsi per la valutazione sulla possibile concessione del diritto all’assegno divorzile deve essere quello dell’autosufficienza, segno che siamo entrati in pieno revirement giurisprudenziale.
6. In conclusione il nuovo indirizzo pone a fondamento dell’individuazione o meno del diritto alla percezione dell’assegno divorzile alcuni punti fondamentali:
– il diritto deve essere condizionato ad una attenta verifica, non standardizzata, ma plasmata caso per caso, che si articoli necessariamente in due fasi che devono restare, tra loro, nettamente distinte: quella sull’an debeatur attuata ed orientata al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascun coniuge, inteso quale singola persona; quella sul quantum debeatur improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato all’assegno divorzile nei confronti dell’altro economicamente più debole;
– nella prima fase, quella dell’an, è necessario verificare la mancanza di mezzi adeguati o l’impossibilità a procurarseli, con esclusivo riferimento all’indipendenza o autosufficienza economica (non più sul principio dello stesso tenore di vita assunto in costanza di matrimonio), che deve fondarsi su molteplici elementi (possesso di redditi di qualsiasi specie e/o cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari – sempre tenuto conto anche dei relativi oneri ad essi collegati -; capacità e possibilità effettive di lavoro personale in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; stabile disponibilità di una casa di abitazione) che devono essere provati dal soggetto che vanti il diritto all’assegno divorzile;
– solo all’esito positivo della prima valutazione sull’an, e quindi sul possesso dei requisiti, potrà quantificarsi l’assegno. In tal caso il giudice dovrà poi tener conto di tutti gli elementi indicati nell’art. 5 co. 6 della L. 898/70 così da poter determinare in concreto la sua misura, fermo restando che l’onere probatorio sia sempre in capo a chi affermi la titolarità del diritto all’assegno divorzile.
Pertanto nel giudizio iniziale e preliminare sull’an debeatur bisognerà verificare la mancanza o meno di mezzi adeguati o l’impossibilità a procurarseli per ragioni oggettive da parte del richiedente, il tutto dovrà rapportarsi al principio dell’adeguatezza che in quanto concetto astratto dovrà essere valutato caso per caso.
Il tenore di vita, quindi, deve considerarsi ormai un parametro relativo ed in quanto tale non può essere assunto come pietra miliare anche per il sol fatto che muta nel tempo ed è legato a diversi fattori sia di ordine sociale che personale, non ultimo il progredire dell’età.
Pertanto, se apparentemente il mutamento di indirizzo giurisprudenziale e cioè il passaggio dal criterio del “tenore di vita analogo o tendenzialmente simile a quello goduto in costanza di matrimonio” a quello della “indipendenza o autosufficienza economica” può sembrare repentino, ingiustificato, estremista – tale addirittura da creare allarmismi -, in realtà è solo il frutto, come è giusto che sia, dell’evolversi dei tempi.
I tempi cambiano e con essi la giurisprudenza di merito che deve ridisegnare i presupposti ed i confini dell’assegno divorzile, ciò perché a cambiare è la società. Non si vorrà infatti negare che, ad oggi, non esiste più nella famiglia il concetto di ripartizione dei compiti e dei ruoli per come invece si configurava in passato.
La base per un cambiamento viene posta dalla sentenza della Cassazione del 10 maggio 2017, n. 11504 che pone gli elementi per una evoluzione ed un adeguamento del diritto ai tempi attuali che iniziano ad essere applicati dalla giurisprudenza di merito. Molti infatti stanno chiedendo la revisione dell’assegno ed i Giudici, sebbene non formalmente vincolati ai recentissimi mutamenti giurisprudenziali, si stanno orientando proprio nel senso di un’adesione piena e completa ai nuovi principi espressi dalla Cassazione.
Autor: Angelica Berti de Marinis
Dott.ssa in Giurisprudenza, Università degli studi di Perugia
L’art. 5 sesto comma, l. 1 dicembre 1970, n. 898 che disciplina gli aspetti divorzili, in realtà, risulta abbastanza chiara, stabilendo che “il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
E già il principio generale secondo cui “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore” (art. 12, primo comma, delle disposizioni sulla legge in generale,Interpretazione della legge) avrebbe dovuto imporre una lettura conforme alla concatenazione sintattica delle espressioni impiegate dal legislatore ed al logico senso che ad esse lo stesso ha voluto attribuire, tale soluzione ermeneutica doveva trovare conferma anche alla luce di un più corretto metodo interpretativo sistematico ed assiologico.
L’obbligo contributivo del coniuge maggiormente facoltoso dovrebbe infatti sussistere tutte quelle volte – e solo in quei casi – in cui l’altro non abbia i mezzi adeguati a condurre una vita dignitosa o comunque non possa procurarseli.
2. Se chiara risulta la norma, la consuetudine ha invece seguito un percorso totalmente differente grazie anche alle numerose sentenze che nel tempo si sono pienamente conformate alle pronunce della Cassazione a S.U. del 29 novembre 1990 n. 11490 e n. 11492.
L’interpretazione data alla norma ed il criterio assunto non risultava essere quello della disponibilità di mezzi adeguati o comunque l’impossibilità a procurarseli (intesa come capacità lavorativa o, in ogni caso, disponibilità economica tale da garantire al coniuge “debole” la continuazione di una vita dignitosa) ma bensì risultava essere quello inerente la continuazione dello “stesso tenore di vita” mantenuto in costanza di matrimonio (Cfr. Cass. 21 ottobre 2013, n. 23797; Cass. 29 settembre 2016, n. 19339).
Ciò si concretizzava nell’assurdo paradosso che, nel caso in cui l’unione matrimoniale fosse venuta a mancare, il coniuge “debole” avrebbe avuto la possibilità di vantare il diritto al mantenimento da parte del c.d. coniuge “forte” al fine di essere garantito nella prosecuzione di una vita che fosse conforme allo stesso tenore assunto in costanza. Tale quantificazione in caso di coniugi entrambi lavoratori, sarebbe stata formata dalla congiunta entità patrimoniale degli stessi, intesa nella sua forma più ampia e generica.
Fulcro centrale, pertanto, risultava non la capacità di autosostenersi da parte del coniuge che, seppur debole, fosse comunque percettore di reddito ma, bensì, l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente a conservare un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio.
Non era necessario un effettivo stato di bisogno dell’avente diritto, il quale, di per sé, poteva anche essere autosufficiente, ciò che rilevava era infatti l’apprezzabile deterioramento, a seguito di divorzio, delle condizioni economiche del medesimo che quindi sarebbero dovute essere ripristinate così da compiersi un riequilibrio.
In tale quadro generale, alla parte richiedente spettava solo l’onere di provare il precedente tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, anche attraverso la produzione di documentazione fiscale risalente all’epoca dell’unione.
Di contro il coniuge forte era gravato da una prova contraria da definirsi diabolica, in quanto, avrebbe dovuto dimostrare la possibilità concreta, della controparte, di esercitare un’attività lavorativa confacente alle capacità ed esigenze della persona.
Non sono mancate sentenze che sembravano aprire uno spiraglio ad un indirizzo più realistico ponendo un apparente freno a tale concessione nei casi in cui il richiedente fosse proprietario della casa in cui abitava e godeva di un reddito da lavoro sufficiente ad assicurarsi un’esistenza dignitosa. Un freno. Però, solo apparente in quanto comunque tali elementi venivano meno tutte quelle volte in cui si provava che in costanza di matrimonio si fosse goduto di un più elevato tenore di vita.
Se scopo di tale indirizzo, mantenuto per oltre venti anni, doveva essere quello di riequilibrare la posizione generale del coniuge “debole” rispetto a quella del coniuge “forte” a seguito della crisi coniugale, di certo non è stato raggiunto. Unico effetto che si è determinato è quello paradossale di rendere il coniuge debole, forte, ed il coniuge forte, debole.
Tale indirizzo sembra aver raggiunto una svolta epocale nel corso del 2017.
Si è iniziato infatti a scardinare quel processo in base al quale preminente elemento, per la concessione dell’assegno divorzile, fosse la sussistenza dello stesso tenore di vita assunto in costanza di matrimonio.
3. La Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione, con la sentenza del 10 maggio 2017 n. 11504, rappresenta un vero e proprio spartiacque tra la vecchia interpretazione sia dottrinale che giurisprudenziale, non del tutto letterale dell’art. 5 della L. n. 898 del 1970 e quella nuova, rivoluzionaria ed innovativa.
Nel caso di specie la Cassazione aveva confermato la sentenza della Corte di Appello di Milano del 27 marzo 2014, la quale non aveva riconosciuto l’assegno divorzile alla ex coniuge che risultava essere una imprenditrice con un’elevata qualificazione culturale e un alto grado d’istruzione (possedeva anche importanti titoli di specializzazione ed esperienze professionali anche all’estero). Per altro, dall’istruttoria emergeva che, nella realtà, era l’altro coniuge ad aver subito una contrazione reddituale a seguito del divorzio.
Sebbene la Corte di Appello avesse comunque richiamato il criterio della c.d. conservazione del tenore di vita matrimoniale di fatto non ne aveva tenuto conto considerando preminente il criterio più equilibrato dell’autosufficienza. Così facendo, la suddetta sentenza si è discostata dall’orientamento sino a quel momento maggioritario, sia in giurisprudenza che in dottrina, con applicazione maggiormente conforme e pienamente rispondente a quanto imposto dalla normativa ad oggi vigente.
Ciò su cui fonda le basi la statuizione della Cassazione sta in un duplice obbligo, imposto al giudice in fase decisionale, il quale deve:
– valutare l’andebeatur, e quindi verificare se il coniuge che faccia richiesta di concessione dell’assegno sia privo di indipendenza economica ed autosufficienza in relazione: al proprio patrimonio, alle proprietà di beni mobili e immobili, e/o comunque a qualsiasi fonte di reddito ad esso ascrivibile, al costo della vita, al luogo di residenza, alle capacità lavorative ed in generale a qualsiasi elemento che possa garantirgli una prosecuzione della vita adeguata ma non per forza equivalente a quella assunta;
– quantificare il quantum debeatur, ma ciò solo all’esito di un accertamento, ovviamente positivo, degli aspetti inerenti l’an debeatur, applicando il principio della c.d. “solidarietà economica dell’ex coniuge” nei confronti dell’altro, che in base alla verifica degli elementi sopra esposti risulti, a tutti gli effetti, debole.
In sintesi la Cassazione sostiene che solo qualora manchi la sussistenza degli elementi da valutarsi e verificarsi nel giudizio sull’an debeatur, emergerebbe il diritto del richiedente al mantenimento e l’obbligo di corresponsione da parte del coniuge forte, la cui quantificazione dovrà poi essere determinata.
La ratio sta nell’evitare l’atteggiamento parassitario assunto dal coniuge debole nei confronti di quello forte.
4. Per onore di verità, tale sentenza ha sollevato critiche, oltre che per la nuova interpretazione assunta, anche sotto un profilo più propriamente processuale per una presunta violazione ex art. 352 c.p.c. – così come introdotto dall’art. 8 del D.lgs 2 febbraio 2006, n. 40, con lo scopo di assicurare il ruolo nomofilattico assegnato alla Corte di Cassazione – al cui comma 3 impone che “se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”.
Secondo alcuni, infatti, la Corte di cassazione avrebbe dovuto, verificata la presenza del contrasto giurisprudenziale, rimettere la questione alle Sezioni unite al fine di pervenire ad una decisione che dirimesse i possibili dubbi circa la corretta interpretazione della norma applicata.
Le critiche in parola non sembrano però cogliere pienamente nel segno poiché le pronunce della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Cfr. Cass. S.U. del 29 novembre 1990, n. 11490, e Cass. S.U. del 29 novembre 1990, n. 11492) se da un lato hanno enunciato il principio che vuole la quantificazione dell’assegno divorzile valutato alla luce del tenore di vita avuto in costanza di matrimonio, dall’altro hanno però affermato espressamente che “lo scopo di evitare rendite parassitarie ed ingiustificate proiezioni patrimoniali di un rapporto personale sciolto può essere raggiunto utilizzando in maniera prudente, in una visione ponderata e globale, tutti i criteri di quantificazione idonei […] ad evitare siffatte rendite ingiustificate, nonché a responsabilizzare il coniuge che pretende l’assegno, imponendogli di attivarsi per realizzare la propria personalità, nella nuova autonomia di vita, alla stregua di un criterio di dignità sociale”.
A ben vedere quindi, la sentenza della Cassazione n. 11504 del 2017 non appare così in contrasto con le Sezioni Unite richiamate.
Le due interpretazioni, infatti,muovono da uno stesso punto di partenza, nel senso che, entrambe riconoscono la necessità di una duplice valutazione, quella sull’an e sul quantum partendo però da due basi diverse. L’orientamento prevalente fino alla sentenza del 10 maggio 2017 n. 11504, si fondava sul fatto che il riconoscimento e la determinazione dell’assegno dipendono sempre da un’indagine sia sull’anche sul quantum ma che “il giudizio sull’an è necessariamente correlato all’ipotetica fissazione di un quantum che costituisce il tetto massimo di una misura che può essere diminuita, sulla base dei criteri di legge, fino anche ad eliminare, in date condizioni, il diritto” (Cfr. Cass. S.U. del 29 novembre 1990, n. 11490 e n. 11492). L’innovazione della introdotta dalla sentenza della Cassazione n. 11504/17 parte dal presupposto che l’indagine debba partire dall’an e quindi dalla sussistenza di tutti gli elementi, compresa la capacità del coniuge di provvedere autonomamente alle proprie esigenze di vita dignitosamente orientata. Solo all’esito di un’attenta analisi da disporsi caso per caso dalla quale risultasse l’impossibilità di proseguire una vita dignitosa, il Giudice dovrà provvedere alla individuazione del quantum escludendo quale parametro lo stesso tenore assunto in costanza di matrimonio.
Solo un effettivo “stato di bisogno” inteso quale impossibilità di provvedere al soddisfacimento delle necessità primariepuò giustificare la richiesta di aiuto nei confronti dell’altro coniuge successivamente alla cessazione degli effetti civili del matrimonio.
5. Un così repentino mutamento di orientamento interpretativo non poteva che avere immediati riflessi nella giurisprudenza di merito. In questo solco si inquadra la già citata sentenza della Corte di Appello di Milano del 16 novembre 2017, n. 4793/17, che ha assunto una forte rilevanza nazionale non solo perché ha recepito il nuovissimo orientamento ma anche per il suo valore mediatico dato dalla notorietà delle parti. Il giudizio vede infatti contrapposti Silvio Berlusconi, appellante, e la ormai ex moglie Miriam Bartolini, appellata.
A fondamento delle richieste dell’appellante (Berlusconi) di esclusione del diritto a percepire l’assegno divorzile di €. 1.400.000,00, inizialmente riconosciuto alla ex moglie Bartolini, vi era proprio la necessità di non applicare l’ormai obsoleto criterio valutativo del c.d. “tenore di vita assunto in costanza di matrimonio” (ribadito, dopo le S.U. da diverse sentenze: Cass. 21 ottobre 2013, n. 23797; Cass. 29 settembre 2016, n. 19339, solo per citarne alcune) che ancora risultava essere l’unica indiscussa interpretazione “letterale” dell’art. 5 della Legge n. 898/70. Tale presunta volontà legislativa doveva considerarsi, secondo l’appellante, solo una costante interpretazione giurisprudenziale distorta e mal definita del medesimo articolo ribadendo, per altro, che tale esegesi risulta, ad oggi, a tutti gli effetti superata per il normale evolversi dei tempi.
Inoltre si riteneva anche doveroso conformare la normativa nazionale a quella comunitaria la quale pone, in materia di mantenimento tra ex coniugi, una individuazione dell’assegno indirizzata attorno ai principi di autosufficienza, stato di bisogno e temporaneità e che pertanto, l’art. 5 co. 6 della Legge n. 898/70 dovesse essere interpretato in ragione di tali principi. Ciò imponeva che, caso per caso, si ponesse l’obbligo di valutare tutti i mezzi degli ex coniugi, e successivamente rapportarli al parametro dell’autosufficienza o a quello costituzionale della sufficienza per una esistenza libera e dignitosa, ma non certo a quello dello stesso tenore di vita.
La sentenza del Tribunale di Monza, appellata, deve considerarsi quindi erronea non solo perché ha posto a fondamento il criterio, ormai superato, dello stesso tenore di vita, ma anche e soprattutto perché non ha tenuto conto di tutti i mezzi a disposizione dell’odierna appellata, la quale aveva accantonato un patrimonio non indifferente(comprensivo di: assegni di mantenimento fino ad allora percepiti, e personalmente, disponibilità patrimoniale ingente tra cui liquidità amministrativa, una villa di ingente valore, ed in generale patrimoni immobiliari e mobiliari) che a sua volta, se correttamente gestito, era potenzialmente produttivo di ulteriore ricchezza.
Per il titolare di un patrimonio complessivo di 300milioni di euro non si pone neanche minimamente il problema di valutare la capacità di “procurarsi mezzi adeguati” essendo gli stessi, di per sé, pienamente sufficienti a condurre una vita ben più che dignitosa.
Parte appellata ovviamente contestava quanto sostenuto da parte appellante senza però darne alcun minimo di prova e continuando a basare il tutto sulla disparità di patrimonio tra i due ex coniugi e quindi, sull’impossibilità di mantenere uno stesso tenore di vita. D’altra parte, essendo il mutamento giurisprudenziale intervenuto nelle more del presente giudizio, parte appellata non si è neanche preoccupata di richiedere un termine per poter approfondire tale mutamento, limitandosi a contrastarlo nella discussione orale.
Alla luce del nuovo orientamento sarebbe stata, invece, fondamentale la conoscenza diretta da parte della Corte di Appello di Milano delle spese sostenute dalla ex coniuge così da essere commisurate alle reali entrate per poter quindi individuare l’effettivo patrimonio della Bartolini, la quale, come detto, non le ha mai prodotte.
Risultava provato invece, il consistente patrimonio della stessa più che idoneo a consentirle e garantirle un elevato tenore di vita.
La Corte di Appello ha ritenuto che a fronte di quanto provato dalle parti in causa, la Sig.ra Bartolini abbia perso il diritto all’assegno di mantenimento divorzile non sussistendo i presupposti per il suo riconoscimento ai sensi dell’art. 5 co. 6 della L. 898/70, come modificata dalla L. 74/87.
Ciò ha statuito, ritenendo sussistenti le pretese di parte appellante rispetto a quella appellata, ed a fondamento di quanto sostenuto, ha richiamato proprio la innovativa pronuncia della Suprema Corte di Cassazione del 10 maggio 2017, n. 11504, la prima, appunto, ad aver proposto una diversa interpretazione delle norme in esame, capostipite del mutamento rivoluzionario nell’individuazione dei presupposti a fondamento del riconoscimento dell’assegno divorzile.
Sicuramente la prima ma non l’unica, in quanto ad essa sono susseguite altre sentenze conformi e nello specifico la sentenza della Cassazione del 22 giugno 2017, n. 15481, con Collegio parzialmente differente nonché la sentenza della Cassazione del 16 maggio n. 12196/17, con Collegio ancora parzialmente differente la quale riconosce il criterio dello “stesso tenore di vita”, solo in fase di separazione e non di divorzio, sul presupposto che, prima del giudizio di divorzio definitivo, sussista ancora l’obbligo per i coniugi di assistenza completa che, invece, viene a cessare con la sentenza di divorzio. Conseguentemente con la cessazione degli effetti civili del matrimonio il criterio d’applicarsi per la valutazione sulla possibile concessione del diritto all’assegno divorzile deve essere quello dell’autosufficienza, segno che siamo entrati in pieno revirement giurisprudenziale.
6. In conclusione il nuovo indirizzo pone a fondamento dell’individuazione o meno del diritto alla percezione dell’assegno divorzile alcuni punti fondamentali:
– il diritto deve essere condizionato ad una attenta verifica, non standardizzata, ma plasmata caso per caso, che si articoli necessariamente in due fasi che devono restare, tra loro, nettamente distinte: quella sull’an debeatur attuata ed orientata al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascun coniuge, inteso quale singola persona; quella sul quantum debeatur improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato all’assegno divorzile nei confronti dell’altro economicamente più debole;
– nella prima fase, quella dell’an, è necessario verificare la mancanza di mezzi adeguati o l’impossibilità a procurarseli, con esclusivo riferimento all’indipendenza o autosufficienza economica (non più sul principio dello stesso tenore di vita assunto in costanza di matrimonio), che deve fondarsi su molteplici elementi (possesso di redditi di qualsiasi specie e/o cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari – sempre tenuto conto anche dei relativi oneri ad essi collegati -; capacità e possibilità effettive di lavoro personale in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; stabile disponibilità di una casa di abitazione) che devono essere provati dal soggetto che vanti il diritto all’assegno divorzile;
– solo all’esito positivo della prima valutazione sull’an, e quindi sul possesso dei requisiti, potrà quantificarsi l’assegno. In tal caso il giudice dovrà poi tener conto di tutti gli elementi indicati nell’art. 5 co. 6 della L. 898/70 così da poter determinare in concreto la sua misura, fermo restando che l’onere probatorio sia sempre in capo a chi affermi la titolarità del diritto all’assegno divorzile.
Pertanto nel giudizio iniziale e preliminare sull’an debeatur bisognerà verificare la mancanza o meno di mezzi adeguati o l’impossibilità a procurarseli per ragioni oggettive da parte del richiedente, il tutto dovrà rapportarsi al principio dell’adeguatezza che in quanto concetto astratto dovrà essere valutato caso per caso.
Il tenore di vita, quindi, deve considerarsi ormai un parametro relativo ed in quanto tale non può essere assunto come pietra miliare anche per il sol fatto che muta nel tempo ed è legato a diversi fattori sia di ordine sociale che personale, non ultimo il progredire dell’età.
Pertanto, se apparentemente il mutamento di indirizzo giurisprudenziale e cioè il passaggio dal criterio del “tenore di vita analogo o tendenzialmente simile a quello goduto in costanza di matrimonio” a quello della “indipendenza o autosufficienza economica” può sembrare repentino, ingiustificato, estremista – tale addirittura da creare allarmismi -, in realtà è solo il frutto, come è giusto che sia, dell’evolversi dei tempi.
I tempi cambiano e con essi la giurisprudenza di merito che deve ridisegnare i presupposti ed i confini dell’assegno divorzile, ciò perché a cambiare è la società. Non si vorrà infatti negare che, ad oggi, non esiste più nella famiglia il concetto di ripartizione dei compiti e dei ruoli per come invece si configurava in passato.
La base per un cambiamento viene posta dalla sentenza della Cassazione del 10 maggio 2017, n. 11504 che pone gli elementi per una evoluzione ed un adeguamento del diritto ai tempi attuali che iniziano ad essere applicati dalla giurisprudenza di merito. Molti infatti stanno chiedendo la revisione dell’assegno ed i Giudici, sebbene non formalmente vincolati ai recentissimi mutamenti giurisprudenziali, si stanno orientando proprio nel senso di un’adesione piena e completa ai nuovi principi espressi dalla Cassazione.
Autor: Angelica Berti de Marinis
Dott.ssa in Giurisprudenza, Università degli studi di Perugia