“Contratti di soggiorno” e Covid 19. Parte prima. Nel periodo emergenziale

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Autora: Claudia Irti, Associato di diritto privato, Università Ca’ Foscari Venezia. Correo electrónico: claudia.irti@unive.it

1. L’emergenza pandemica scatenata dalla diffusione del virus COVID-19 (SARS-CoV−2), c.d. “Coronavirus”, ha comportato l’assunzione da parte di vari governi nazionali − in ragione della primaria esigenza di tutela della salute pubblica − di provvedimenti atti a limitare la libertà di circolazione delle persone e sospendere o ridurre l’esercizio di moltissime attività economiche. Le conseguenze che nel lungo periodo potranno far seguito a tali restrizioni sono attualmente solo immaginabili e – presumibilmente − richiederanno da parte di tutti gli Stati, tanto a livello nazionale che sovrannazionale, interventi su larga scala diretti non solo a sostenere, ma forse anche a ripensare, un intero sistema socio−economico che difficilmente potrà tornare ad essere gestito e regolato secondo logiche superate da uno stato emergenziale destinato a perdurare nel tempo (ROPPO, V., NATOLI, R.: “Contratto e Covid−19. Dall’emergenza sanitaria all’emergenza economica”, in Giustiziainsieme.it, 24 aprile 2020), senza che sia davvero possibile prevedere se e quando saranno raggiunte quelle condizioni, non solo sanitarie, che ne decreteranno l’effettivo superamento (VETTORI, G.: “Persona e mercato al tempo della pandemia”, in Persona e mercato, 2020/1, p. 3 e ss.).

Tra i settori economici che più sono destinati a risentire delle conseguenze derivanti dalla pandemia e, ancor prima, a subire un grave vulnus dall’assunzione di quelle misure destinate a contenerla che incidono sulla libertà di circolazione delle persone, si segnala certamente il settore turistico. Ragione per cui non sorprende che, tra i primi provvedimenti emergenziali assunti dal Governo italiano, alcune previsioni normative abbiano inteso introdurre disposizioni (eccezionali e temporanee) destinate a regolare la sorte di specifici rapporti contrattuali più strettamente legati al mercato turistico (GIGLIOTTI, F.: “Considerazioni in tema di impossibilità sopravvenuta, per emergenza epidemologica, per prestazioni dello spettacolo e assimiliate”, in Giustiziacivile.com., 1 aprile 2020).

2. In questa sede ci soffermeremo in particolar modo ad analizzare quelle disposizioni introdotte dalla legislazione di emergenza destinate disciplinare le conseguenze del COVID 19 sui c.d. “contratti di soggiorno”, venduti al di fuori dei pacchetti turistici, come “servizi disaggregati”, che al momento della emissione dei provvedimenti precauzionali e contenitivi assunti dal Governo a seguito dello scoppio della pandemia fossero stati già conclusi, ma che avrebbero dovuto trovare esecuzione nel periodo di vigenza delle restrizioni.

In primo luogo è opportuno precisare che la locuzione adottata dal legislatore nel contesto emergenziale – “contratti di soggiorno” – si rivela essere una locuzione a-tecnica (che non è dato rinvenire all’interno di altre disposizioni normative) mediante la quale − è agevole dedurlo in ragione del contesto in cui ne è fatto uso – si è inteso far riferimento alle varie tipologie di contratto utilizzate dai turisti (e più in generale i viaggiatori) per garantirsi la possibilità di soggiornare per una o più notti in luoghi distanti dalla loro abituale dimora.

Nessun dubbio circa la riconducibilità all’interno di detta categoria dei c.d. “contratti di ospitalità” (SANTAGATA, R.: Diritto del turismo, Milano, 2018, p. 183 e ss.), come contratti di albergo e affini, quali ad esempio i contratti di residence (SANTAGATA, R.: “Gli effetti del coronavirus sui contratti turistici”, in Giustiziacivile.com, 17 aprile 2020); mentre un qualche approfondimento appare necessario avendo riguardo alle “locazioni di unità abitative ammobiliate con finalità turistiche”, mediante le quali il locatore concede al conduttore (il più delle volte un turista), per un periodo transitorio, il godimento di un immobile per il fine di una vacanza o comunque di un soggiorno temporaneo. Si tratta di un fenomeno che ha visto negli ultimi anni una crescita esponenziale, tanto in termini numerici che economici, facilitata dalla diffusione di piattaforme on line che agevolano il contatto tra la domanda di recettività (a costi contenuti, vista l’assenza o la stretta essenzialità di servizi aggiunti e/o accessori rispetto al pernottamento) e l’offerta dei proprietari di unita immobiliari (altrimenti, in linea di massima, inutilizzate nonostante gli elevati costi di manutenzione) interessati a ricevere una fonte di reddito soprattutto grazie agli introiti dei c.d. affitti di breve durata.

Un fenomeno che, vista la capillare diffusione, ha riscosso sempre maggiore attenzione da parte del legislatore, interessato − in primo luogo − a disciplinarne gli aspetti di natura tributaria, ma che tuttora sfugge a tentativi di ricostruzione sistematica. Una più articolata definizione delle locazioni turistiche era stata tentata, a livello nazionale, dal Codice del Turismo (d.lgs. n.79 del 2011), che aveva provveduto a stilare una elencazione delle principali tipologie di “strutture recettive” (alberghiere, para-alberghiera, extralberghiera e all’aperto) riconducendo le “unità abitative ad uso turistico” nel novero delle “strutture recettive extralberghiere” (ex art. 12 del Codice del Turismo, originario); la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma (operata da parte della Corte Costituzionale con sentenza n. 80 del 2012) ha, tuttavia, lasciato un vuoto normativo, solo in parte colmato da svariati e (evidentemente) disomogenei interventi a livello legislativo regionale (RIGHI, L.: “Le strutture ricettive”, in AA.VV.: Manuale di Diritto del turismo (a cura di V. FRANCESCHELLI, F. MORANDI), 2017, p. 142 e ss.).

Ebbene, la disciplina emergenziale riservata ai “contratti di soggiorno” si ritiene possa trovare applicazione anche alle “locazioni ad uso residenziale/abitativo che siano destinate a soddisfare finalità turistiche” (locazioni delle quali fa menzione sia l’art. 1, comma 1, lett. c, l. n. 431/1998 per escludere che ad esse si applichino gli articoli della medesima legge, che l’art. 53 del d.lgs. n. 79/2011, per chiarire che sono disciplinate dal codice civile; in argomento CUFFARO, V.: “Locazioni brevi, locazioni transitorie, locazioni turistiche”, in Corriere giur., 11, 2017, p. 1329 e ss.), certamente allorquando temporalmente riconducibili nella definizione di “soggiorni di breve durata”, contenuta all’art. 4 del d.l. n. 50/2017, a norma del quale sono ritenuti tali “i contratti di locazione di durata non superiore a 30 giorni, che hanno ad oggetto immobili ad uso abitativo, ivi inclusi quelli che prevedono la prestazione dei servizi di fornitura di biancheria e di pulizia dei locali, stipulati da persone fisiche al di fuori dell’esercizio di attività di impresa, direttamente o tramite soggetti che esercitano attività di intermediazione immobiliare, ovvero soggetti che gestiscono portali telematici, mettendo in contatto persone in cerca di un immobile con persone che dispongono di unità immobiliari da locare”, rispetto ai quali contratti lo stesso d.l. n. 50/2017 ha previsto l’imposizione del pagamento della “imposta di soggiorno”.

Lì dove, semmai, una qualche incertezza residua circa la rilevanza da attribuire al profilo della durata di detti contratti, quando si superi il limite temporale dei 30 giorni (fissato, come visto, quale limite massimo di durata ai fini della definizione dei c.d. contratti brevi per l’applicazione del relativo regime fiscale), senza che sia davvero possibile stabilire l’arco temporale massimo (il già ricordato art. 12 del codice del turismo − oggi abrogato − lo fissava in sette mesi consecutivi) oltre il quale non si possa più parlare di “soggiorno” − secondo l’espressione utilizzata nella legislazione emergenziale − ma di “uso residenziale” tipico.

3. La disciplina eccezionale e temporanea applicabile ai contratti di soggiorno – inizialmente individuata, mediante rinvio, in due distinti provvedimenti normativi (art. 28 comma 1, del d.l. 2 marzo 2020, n. 9, denominato “Misure urgenti per il sostegno per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID−19” e art. 88 comma 1, del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, denominato decreto “Cura Italia”) − è stata “ricomposta” all’interno dell’art. 88 bis (rubricato “Rimborso di titoli di viaggio, di soggiorno e di pacchetti turistici”) introdotto nel d.l. 17 marzo 2010 n. 18 dalla legge 24 aprile 2020 n. 27 che è intervenuta a convertire, modificandolo, il decreto stesso.

In termini pratici, a norma dei commi 1, 2 e 3 dell’art. 88 bis, fintanto che dureranno i provvedimenti restrittivi della circolazione delle persone legati al Coronavirus, coloro che avevano concluso “contratti di soggiorno” la cui esecuzione ricade in detto arco temporale, potranno chiedere lo scioglimento del contratto, con una comunicazione inviata alla “struttura recettiva” entro trenta giorni dalla cessazione della situazione limitativa imposta dai suddetti provvedimenti. In tale circostanza − a differenza del regime ordinario − la “struttura recettiva” potrà, entro quindici giorni dal ricevimento della comunicazione, decidere − alternativamente (art. 1286, comma 1°) – di rimborsare il corrispettivo versato per il soggiorno o emettere un voucher di pari importo che il cliente potrà utilizzare per ottenere analoga prestazione entro un anno dalla emissione.

La ratio legis che guida il legislatore è quella sottesa alla disciplina ordinaria all’art. 1463 c.c. (espressamente richiamato): i provvedimenti limitativi delle libertà personali, nonché le altre limitazioni imposte alle attività materiali funzionali allo svolgimento del rapporto, factum principis, determinano la sopravvenuta impossibilità della prestazione caratterizzante del contratto – il godimento dell’alloggio da parte del turista/viaggiatore nella misura in cui, nel caso disciplinato, è in primo luogo il creditore, ad essere impossibilitato a ricevere l’erogazione della stessa.

La soluzione alternativa all’obbligo restitutorio, questa sì eccezionale, è, invece, dettata dalla esigenza di evitare che gli operatori economici siano costretti a rinunciare alla “liquidità monetaria” già acquisita grazie all’incasso delle somme versate anticipatamente dai clienti a titolo di corrispettivo per la prenotazione (se non addirittura a saldo della prestazione), vedendosi altrimenti costretti a rimborsare quanto ricevuto (in ottemperanza all’obbligo restitutorio richiamato dall’art. 1463 c.c.) per prestazioni che non potranno essere usufruite. Considerato l’originario rapporto risolto per espressa previsione normativa, il legislatore è dunque intervenuto a: (a) dettare una specifica procedura, temporalmente scadenzata, per azionare il rimedio; (b) affiancare all’obbligazione restitutoria − prevista come ordinaria conseguenza della risoluzione del contratto − una obbligazione alternativa (introdotta, appunto, ope legis) attribuendo al debitore (struttura recettiva) il diritto (potestativo) di optare per quest’ultima, emettendo il voucher.

L’obbligazione restitutoria è un’obbligazione di dare che, nelle fattispecie di cui trattiamo, ha ad oggetto una somma di danaro (un’obbligazione pecuniaria); quella alternativa − il rilascio di un voucher − è pur sempre una obbligazione di dare il cui oggetto è un “documento di legittimazione” che identifica il soggetto che in futuro (entro l’anno di scadenza del titolo) avrà diritto ad ottenere una prestazione analoga a quella divenuta impossibile.

Resta, tuttavia, dal punto di vista più strettamente giuridico, comprendere e chiarire da dove tragga origine l’obbligo della struttura recettiva a eseguire la prestazione futura a favore di colui che avrà ricevuto il voucher (un documento di legittimazione avente natura probatoria, non costitutiva, che a norma di quanto dispone l’art. 2002 c.c., serve solo ad identificare l’avente diritto alla prestazione; in argomento CRISCIONE, C.: “Natura giuridica e vicende del voucher introdotto dalla decretazione d’urgenza”, in www.diritto.it), dal momento che il rapporto originario è da considerarsi risolto ex art. 1463 c.c. Un vincolo che, dunque, si deve ritenere trarre origine o da un “nuovo” rapporto obbligatorio (di novazione oggettiva ope legis parla CRISCIONE, C.: “Natura giuridica e vicende del voucher”, cit.; SANTAGATA, R.: “Gli effetti del coronavirus sui contratti turistici”, cit.) generato dalla stessa disposizione normativa emergenziale, o, forse meglio, dalla “rideterminazione ex lege” dei contenuti dell’originario rapporto (DE MAURO, A.: “Pandemia e contratto: spunti di riflessione in tema di impossibilità sopravvenuta della prestazione”, in Giustiziacivile.com., 27 marzo 2020) che, nel caso la struttura recettiva opti per la emissione del voucher, non potrà dirsi risolto, ma solo “imperativamente rinegoziato”.

3.1 Tali iniziali previsioni (già desumibili dal rinvio operato dall’originario art. 88, d.l. 17 marzo 2010 n. 18 all’art. 28 comma 1, del d.l. 2 marzo 2020, n. 9), sono state integrate, in sede di conversione del decreto, con una nuova disposizione contenuta al comma 5° dell’art. 88 bis, a norma della quale anche nelle ipotesi in cui la prestazione di soggiorno pattuita sia divenuta impossibile perché le strutture ricettive hanno dovuto sospendere o cessare l’attività, in tutto o in parte, a causa della emergenza epidemiologica, è concesso alle stesse di offrire all’acquirente un servizio sostitutivo di qualità equivalente, superiore o inferiore con restituzione della differenza di prezzo, oppure procedere al rimborso del prezzo o, altrimenti, emettere un vaucher, da utilizzare entro un anno dalla sua emissione, di importo pari al rimborso spettante. Una integrazione che si è resa necessaria al fine di disciplinare quelle ipotesi – alle quali non risultava applicabile, se non in ragione di un esercizio ermeneutico, la “prima” normativa emergenziale – in cui è la struttura recettiva a non essere oggettivamente in grado di eseguire la prestazione caratterizzante (accogliendo l’ospite) perché le conseguenze della emergenza epidemiologica – e qui la norma non fa più riferimento ai soli provvedimenti contenitivi della pandemia – hanno comportato per la stessa la cessazione o la sospensione dell’attività, in tutto o in parte.

Ove ricorrano le succitate condizioni, oltre all’obbligazione restitutoria e alla già contemplata alternativa relativa al rilascio del voucher, è attribuita alla struttura recettiva una ulteriore possibilità, quella di offrire un “servizio sostitutivo di qualità equivalente, superiore o inferiore con restituzione della differenza di prezzo”; una opzione che − sulla falsariga di quanto previsto nelle ipotesi di contratti per la vendita di pacchetti turistici a favore dei tour operator (comma 6 del medesimo articolo) − sembra essere stata pensata per quegli operatori turistici che siano proprietari/gestori di plurime strutture recettive (ad esempio più immobili adibiti ad uso alberghiero, eventualmente di diversa categoria, siti nella stessa località o addirittura in località differenti) e abbiano, di conseguenza, la possibilità concreta di offrire al cliente un servizio di ospitalità sostitutivo. Ove tale servizio dovesse essere di qualità inferiore a quello originariamente prenotato (ad esempio perché al cliente venga proposto di essere ospitato presso una struttura recettiva di categoria inferiore), l’operatore è tenuto a restituire al cliente quanto già versato in eccedenza (quando non sia possibile compensare con quanto residui da pagare); nella diversa ipotesi in cui il servizio offerto dovesse essere di qualità superiore, la norma non dispone nulla, lasciando all’autonomia delle parti stabilire chi dovrà accollarsi la relativa differenza di prezzo. Del resto, l’offerta di un servizio sostitutivo produrrà effetti solutori − rispetto agli obblighi restitutori nascenti dall’impossibilità sopravvenuta della prestazione originariamente prevista − solo ove espressamente accettato dalla controparte, dal momento che il comma 12 dello stesso art. 88 bis afferma che (solo) “l’emissione dei voucher previsti dal presenta articolo assolve i correlativi obblighi di rimborso e non richiede alcuna forma di accettazione da parte del destinatario”.

Il legislatore suggerisce come terza alternativa, una sorta di “datio in solutum” (art. 1197 c.c.), una rinegoziazione del contratto di cui detta parametri minimi, invitando le parti a perseguire strade già pragmaticamente sperimentate in discipline di settore pensate allo scopo di salvaguardare i diversi interessi coinvolti (il richiamo è alla disciplina europea dei contratti di viaggio tutto organizzato; si rinvia, in merito, ai vari contributi raccolti nel volume a cura di FINESSI, A.: La nuova disciplina europea dei contratti di viaggio, Jovene, 2017 e in particolare a quello di PAGLIANTINI, S.: “Modifiche anteriori e recesso da un contratto di pacchetto turistico secondo il canone della Dir. 2015/2302/UE: per un repertorio (frastagliato) di problemi teorici e pratici a prima lettura”, p. 65 e ss., in part. p. 72). Da ultimo è importante ricordare che, a norma del comma 10 del medesimo articolo, tutte le richiamate disposizioni trovano applicazione anche nei casi in cui il soggiorno sia stato acquistato o prenotato per il tramite di un’agenzia di viaggio o di un portale di prenotazione, in deroga alle condizioni originariamente pattuite; a norma del comma 13, altresì, le stesse sono qualificate quali norme di applicazione necessaria (ai sensi dell’art. 17 della legge 31 maggio 1995, n. 218), da impiegarsi per dirimere qualsivoglia fattispecie – a carattere interno o internazionale – che si sarebbe altrimenti dovuta risolvere mediante richiamo alla legge straniera.

Sebbene il legislatore abbia così inteso affermare che nessuna forma di “contratto di soggiorno”, né in ragione della tipologia della struttura recettiva, né delle modalità mediante le quali sia stata effettuata la prenotazione o l’acquisto, possa sfuggire all’applicazione dalla disciplina eccezionale e temporanea sin qui descritta, è doveroso rilevare − in base a quanto segnalato da molte associazioni di categoria − come le maggiori OTA (quali ad es. Booking ed Expedia) abbiano già attivato sui loro portali procedure di rimborso per eventuali pagamenti anticipati e costi di prenotazione, chiedendo alle strutture recettive i relativi rimborsi; oppure, nel concedere la facoltà di emettere un voucher in linea con quanto disposto dalla nostra normativa, abbiano attivato nei confronti di quelle strutture che si siano espresse a favore della scelta alternativa al rimborso, un declassamento delle stesse nel rating di gradimento del portale.

Comportamenti illegittimi che, nel violare disposizioni normative di natura imperativa, potrebbero anche configurare gli estremi di condotte abusive sanzionabili a livello di disciplina di tutela della concorrenza e del mercato.

4. Mediante l’assunzione delle disposizioni speciali rese oggetto di analisi la legislazione di emergenza ha inteso tutelare, in primo luogo, gli interessi degli operatori turistici, in quanto esponenti di uno dei comparti economici sicuramente più colpiti dalle conseguenze dell’emergenza sanitaria, tanto nell’immediato − a seguito dell’assunzione da parte del governo dei provvedimenti limitativi della libertà di circolazione dei cittadini − quanto nel lungo periodo − esito della ridotta affluenza di turisti stranieri nel territorio italiano per il probabile perdurare di alcune misure restrittive nella circolazione infra−Stati e di una presumibile minor propensione da parte di tutti (anche i cittadini italiani) a spostarsi per finalità turistiche, a causa dei timori legati alla paura di contrarre il virus nonostante la cessazione della fase di emergenza e, forsanche, per ragioni economiche.

Lo strumento del voucher − ampiamente adottato dal legislatore in tutte le previsioni emergenziali destinate a disciplinare le conseguenze della emergenza sanitaria sui contratti del comparto turistico (crociere, viaggi tutto compreso, contratti di soggiorno) e/o ad esso funzionali (trasporti, attività ricreative varie) − sembra salvaguardare in via preminente gli interessi degli imprenditori, che sarebbero stati altrimenti privati − ottemperando ipso iure ai dovuti obblighi restitutori − di risorse finanziarie già entrate nella loro disponibilità, utili a sostenere l’attività nei prossimi mesi di crisi e, probabilmente, già reinvestite. Mentre certamente minore è l’effetto “benefico” percepito dal consumatore/turista − più interessato a rientrare in possesso delle somme già pagate per prestazioni di cui non può più usufruire, anziché ricevere un voucher destinato a dilazionare nel tempo quelle stesse prestazioni, peraltro in un arco temporale − un anno − forse troppo breve per essere certi che si saranno effettivamente ripristinate quelle condizioni, non solo sanitarie, che ne permetterebbero l’effettivo espletamento. Effetto che, tuttavia, acquista un significato più pregnante ove ci si soffermi a riflettere come l’immediato stato di crisi finanziaria causato dalla caducazione di tutti i contratti del comparto turistico, con conseguente obbligo restitutorio delle somme già conferite, avrebbe determinato lo stato di insolvenza di moltissimi piccoli e medi imprenditori del settore, comportando conseguenze negative sul singolo turista/viaggiatore − chiamato a misurarsi con problemi di insolvenza o fallimento della controparte contraente − ma più in generale su tutti i cittadini, sulla comunità (DI MARZIO, F.: “Comunità. Affrontiamo la nostra prova”, in Giustiziacivile.com, 12 marzo 2020) che certo non può trarre alcun beneficio da una situazione di crisi pervasiva e generalizzata.

Il principio guida che in stato di emergenza muove e giustifica la costruzione e/o la rilettura di regole atte a tutelare e garantire, non i soli interessi individuali, ma i presupposti indefettibili del vivere comune, non può che essere quello solidaristico, consacrato all’art. 2 della Carta Costituzionale (MACARIO, F.: “Per un diritto dei contratti più solidale in epoca di coronavirus”, in Giustiziacivile.com, 17 marzo 2020). L’augurio è che la drammaticità degli eventi che stiamo vivendo ci renda consapevoli di come lo stato di benessere del singolo − non solo quello sanitario − poco giova e nulla garantisce per il futuro se non è accompagnato dal costante tentativo di realizzazione di un benessere collettivo.

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