Gli oneri del debitore fra norme emergenziali e principi generali (a proposito dell’art. 91 del d.l. n. 18/2020, “Cura Italia”)

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Autor: Giovanni Iorio, Ordinario di diritto privato, Bicocca-Milano. Correo electrónico: giovanni.iorio@unimib.it

1. L’art. 91, comma 1, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 (decreto “Cura Italia”, convertito nella legge del 24 aprile 2020, n. 27), stabilisce che «all’articolo 3 del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazioni dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, dopo il comma 6, è inserito il seguente: “6-bis. Il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”».

Il decreto legge del 23 febbraio 2020, n. 6 (rubricato “misure urgenti di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19”), ha attribuito alle autorità competenti il potere, fra l’altro: (a) di disporre nel territorio italiano una serie di limitazioni alla circolazione di persone e beni; (b) di sospendere le attività lavorative; (c) di chiudere tutte le attività commerciali, esclusi gli esercizi commerciali per l’acquisto di beni di prima necessità. L’art. 1 del d.l. n. 6/2020, peraltro, non contiene un’indicazione tassativa delle misure urgenti. L’art. 2, infatti, stabilisce che “le autorità compenti, con le modalità previste dall’articolo 3, commi 1 e 2, possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia da COVID-19 anche fuori dei casi di cui all’art. 1, comma 1”. L’art. 3 del d.l. n. 6/2020, infine, ha previsto un rigido sistema sanzionatorio: il mancato rispetto delle misure di contenimento è punito ai sensi dell’art. 650 c.p., salvo che il fatto non costituisca più grave reato. Per gli esercizi commerciali, inoltre, la violazione dei provvedimenti delle autorità pubbliche può comportare la chiusura delle attività fino ad un mese.

In questo quadro si inserisce il ricordato art. 91, comma 1, del d.l. n. 18/2020, il quale pone al civilista una serie di questioni che così possono ordinarsi. In primo luogo, muovendo dalla tecnica redazionale della disposizione, occorre interrogarsi su quale sia il suo ambito operativo; si deve studiare, in particolare, quali norme del codice civile vengano coinvolte dall’intervento del legislatore. In secondo luogo va indagato in quale misura la disposizione introdotta incida sui principi generali in tema di onere della prova del debitore; o se, invece, agli stessi risultati voluti dalla recente norma si possa pervenire invocando le regole esistenti. In terzo luogo va svolta qualche notazione di più ampio respiro, riflettendo sulla centralità di alcuni principi civilistici nella soluzione della “crisi” contrattuale. Nel prosieguo si seguirà l’ordine di trattazione appena indicato.

2. La modalità di scrittura dell’art. 91 del d.l. n. 18/2020 non è certo ineccepibile. Sotto questo aspetto la disposizione è “figlia” di una vera e propria emergenza sanitaria che ha indotto il Governo italiano, nel marzo del 2020, a emanare una serie di decreti che rispecchiano, sin dalla tecnica redazionale, la drammaticità e la concitazione di quei momenti.

Considerando, innanzitutto, i due commi da cui è composto l’art. 91 (rubricato “disposizioni in materia di ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall’attuazione delle misure di contenimento e anticipazione del prezzo in materia di contratti pubblici”), si deve rilevare che essi hanno contenuto eterogeneo (il che avrebbe consigliato una loro sistemazione in articoli distinti): il primo comma si riferisce alla materia dell’inadempimento contrattuale derivante da misure restrittive; il secondo all’anticipazione del prezzo nei contratti pubblici. Al fine di evitare fraintendimenti, dunque, la formula della rubrica dell’articolo 91 avrebbe dovuto essere la seguente: “disposizioni in materia di ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall’attuazione delle misure di contenimento e disposizioni in materia di anticipazione del prezzo in materia di contratti pubblici” (la sintetica rubrica dell’art. 91 ha indotto in errore FEDERICO, G.: “Adeguamento del contratto e doveri di solidarietà: per un’ermeneutica della dignità”, in questionegiustizia.it, 9 aprile 2020, secondo cui la disposizione sarebbe diretta a regolamentare “la materia dei contratti pubblici”, pur essendo dotata – a suo dire – di portata generale e, per questo, applicabile anche ai contratti di diritto privato).

Inoltre, avendo riguardo al contenuto della disposizione che qui interessa (il primo comma), ci si accorge che sono plurime le norme del codice civile da richiamare e coordinare.

Conviene partire, allora, dall’art. 1218 c.c., per il quale “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”. Questa norma del codice, come noto, è da sempre al centro di una serie di diverse interpretazioni, da parte della dottrina e della giurisprudenza italiana, che in questa sede non si possono ripercorrere (v., diacronicamente, OSTI, G.: “La revisione critica della teoria sull’impossibilità della prestazione”, in Rivista di diritto civile, 1918, p. 209 ss.; GIORGIANNI, M.: L’inadempimento. Corso di diritto civile, 3ᵃ ed., Milano, 1975; VISINTINI, G.: La responsabilità contrattuale, Napoli, 1979; MAZZAMUTO, S.: “La responsabilità contrattuale nella prospettiva europea”, in AA. VV., La didattica del diritto civile (a cura di S. MAZZAMUTO e E. MOSCATI), Torino, 2015; D’AMICO, G.: “La responsabilità contrattuale: attualità del pensiero di Giuseppe Osti”, in Rivista di diritto civile, 2019, pp. 1-24).

Ai fini del presente discorso basterà osservare che, in caso di inadempimento, il debitore è tenuto a risarcire i danni che il creditore provi ai sensi dell’art. 1223 c.c. (danno emergente e lucro cessante), salva la dimostrazione che l’inadempimento sia stato determinato da impossibilità sopravvenuta della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. A seconda dei casi, l’impossibilità della prestazione potrà essere definitiva o temporanea (art. 1256 c.c.); potrà essere, inoltre, parziale (art. 1258 c.c.). Più in generale, il tema dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione rende necessario richiamare una serie di norme (artt. 1256-1259 c.c.) senza le quali la formula contenuta nella parte finale dell’art. 1218 c.c. non può essere adeguatamente compresa.

Non solo. Qualora la prestazione diventata impossibile sia oggetto di un contratto, occorre fare capo alla disciplina sulla risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta (artt. 1463-1466 c.c.). Deve ritenersi, anzi, che la disposizione in esame sia stata dettata avendo di mira, principalmente, le problematiche nascenti dall’inadempimento contrattuale al tempo della pandemia (si veda, del resto, il riferimento letterale ai “contratti” contenuto nella già ricordata rubrica dell’art. 91).

In sintesi: allorché il debitore invochi (pure giudizialmente) le misure di contenimento previste dal d.l. n. 6/2020, ci si dovrà confrontare con una serie di norme del codice civile: artt. 1218 ss., 1256 ss., 1463 ss. c.c.

3. I rilievi da ultimo svolti, tuttavia, non vogliono essere prodromici all’affermazione della portata (decisamente) innovativa dell’art. 91, comma 1, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18. Anzi, ad opposta conclusione si può giungere proprio considerando, sistematicamente, gli articoli del codice civile di cui si è detto.

Si provi allora ad immaginare uno scenario (quello della pandemia da coronavirus) in cui non sussista nell’ordinamento italiano una disposizione come quella dettata dal legislatore nel marzo del 2020. Ebbene, per sottrarsi alla responsabilità il debitore avrà l’onere di provare (artt. 1218 e 1256 c.c.): (i) che è stato impossibilitato all’adempimento; (ii) che l’impossibilità è derivata da un evento straordinario ed imprevedibile (il quale può consistere anche in un factum principis).

L’art. 91, comma 1, del d.l. n. 19/2020, sul punto, sembra avere prospettato un onere probatorio più “leggero”, consistente nella dimostrazione che l’impossibilità della prestazione è la conseguenza delle misure disposte in via eccezionale. Ed infatti, come insegnano i giudici di legittimità, normalmente il provvedimento coercitivo che impedisce l’adempimento solleva il debitore da responsabilità allorché sia prevedibile attraverso l’utilizzo di un normale grado di diligenza (Cass., 8 giugno 2018, n. 14915, in Diritto e Giustizia, 11 giugno 2018). Qui, invece, il debitore non dovrà provare che le misure adottate presentano il carattere della straordinarietà ed imprevedibilità. La “tipizzazione”, in una norma, dell’emergenza legata alla diffusione del coronavirus, esclude l’onere della dimostrazione della prevedibilità in capo alla parte che invoca il factum principis.

Ci si deve chiedere, però, se la disposizione di nuovo conio abbia davvero il carattere di una norma emergenziale (che per sua natura istituisce una deroga, anche importante, allo status quo) o se essa possa essere definita, come si è affermato all’indomani della sua emanazione, una norma “emozionale” (SANTOSUOSSO, D.U.: “Le misure di contenimento attenuano l’onere del debitore”, in Il Sole 24 ore, 26 marzo 2020, p. 25).

In effetti, difficilmente può negarsi che la pandemia del Covid-19 e le conseguenti misure di contenimento non integrino gli estremi della forza maggiore. Già negli anni Settanta del secolo scorso, di fronte alla diffusione di un virus intestinale (non certo paragonabile a quello attuale), la giurisprudenza amministrativa si è così espressa: “l’epidemia influenzale che abbia colpito un’alta percentuale delle maestranze” costituisce un “evento impeditivo che ha la rilevanza della causa di forza maggiore” (Cons. Stato, 1° marzo 1972, n. 287, citata in giurisprudenzaappalit.it, 6 aprile 2020). Ed è ancora più difficile immaginare che il giudice, investito della controversia, non proceda ad una attenta considerazione degli interventi pubblici disposti al fine di giustificare il ritardo nell’adempimento del debitore. Da qui il carattere “rassicurante” della disposizione: il debitore sa che, in presenza di una situazione eccezionale, il giudice è invitato a prestare una particolare attenzione alle ragioni delle parti che si trovano in difficoltà.

Non sembra, invece, che dalla disposizione possa trarsi l’indicazione di un potere del giudice di incidere sul quantum dei danni da risarcire a favore del creditore, allorché sia comunque riconosciuto un profilo di responsabilità in capo al debitore (così BENEDETTI, A.M.: “Il rapporto obbligatorio al tempo dell’isolamento: una causa transitoria di giustificazione?” in dirittoegiustizia.it, 3 aprile 2020, che intende valorizzare il riferimento all’art. 1223 c.c. contenuto nell’art. 91); né dalla disposizione può ricavarsi una disciplina “a ventaglio (positivamente) aperto”, che affiderebbe al giudice il compito di individuare il rimedio più opportuno rispetto al caso concreto (DOLMETTA, A.A.: “Rispetto delle misure di contenimento della pandemia e disciplina della obbligazione”, in ilcaso.it, 11 aprile 2020).

Si è detto, al fine di giustificare un ampio spettro di rimedi (soprattutto di tipo manutentivo), che la disposizione in commento attribuirebbe al giudice un potere equitativo ai sensi dell’art. 1374 c.c. (VERTUCCI, G.: “L’inadempimento delle obbligazioni al tempo del coronavirus: prime riflessioni”, in ilcaso.it, 23 aprile 2020). In realtà, quando il legislatore ha voluto prevedere l’equità c.d. “correttiva”, lo ha fatto espressamente (cfr. l’art. 1384, comma 1, c.c., secondo cui la “penale può essere diminuita equamente dal giudice”).

L’esplicita attribuzione di questo potere manca nell’art. 91; il che non autorizza l’interprete a scorgere, implicitamente, un’ipotesi di “giustizia del caso singolo”. E d’altra parte, pur a voler considerare le ipotesi di equità “integrativa” (la quale consente al giudice di sopperire ad un’incompleta determinazione del contenuto del contratto), non si sfugge dalla seguente alternativa: (i) o il potere equitativo del giudice è previsto espressamente (artt. 1349, comma 1, 1526 cod. civ.); (ii) oppure è descritto (e, quindi, circoscritto) l’oggetto del potere integrativo del giudice (artt. 1183, 1331, comma 2). Queste “regole di ingaggio”, tuttavia, non si rinvengono nell’art. 91.

La ricostruzione qui proposta non vuole significare, però, che nei confronti dell’art. 91, comma 1, del d.l. n. 18/2020 debba essere formulato un giudizio del tutto negativo. Nei limiti in cui si è detto (e rifuggendo da interpretazioni “eversive” del sistema), la sua funzione “rassicurante” può essere apprezzata positivamente nell’ambito di un contesto che, per la sua drammaticità (sotto il profilo sanitario, economico e sociale), evoca gli spettri di una vera e propria guerra.

Giacché se è vero che deve considerarsi tutt’ora aperto il dibattito sull’efficiente e tempestiva “risposta” delle autorità nazionali ed europee, non si può negare che a seguito delle prime manifestazioni dell’epidemia (già alla fine del 2019) la propagazione del coronavirus, nel giro di poche settimane, è avvenuta con modalità tali da far ritenere imprevedibile il lockdown che ha coinvolto la maggior parte dei Paesi del mondo.

Fra i tanti (e spesso indecifrabili) dati che hanno accompagnato i giorni della pandemia, durante la primavera del 2020, ve n’è uno che lascia il segno. Il 18 aprile 2020 il Commissario straordinario dell’emergenza, Domenico Arcuri, intervenendo durante la quotidiana conferenza stampa della Protezione Civile italiana, ha ricordato che tra l’11 giugno 1940 e il 1° maggio 1945, a Milano, sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale sono morti 2.000 civili. Ebbene, in Lombardia, soltanto in due mesi, sono morti per coronavirus 11.851 civili. Cinque volte di più, in un lasso di tempo ben più circoscritto.

4. Se si riflette, è possibile rinvenire nel sistema del diritto privato alcune risposte a problematiche che nascono in situazioni emergenziali e, più in generale, di fronte ad eventi imprevisti ed inattesi. Si è detto, da parte di taluno, che l’art. 91, comma 1, del d.l. n. 18/2020 darebbe vita ad una sorta di presunzione assoluta di “irresponsabilità” del debitore; una presunzione non vincibile in alcun modo. In realtà, la decretazione d’urgenza non introduce, come si è cercato di spiegare, un assetto così diverso da quello che si ricava dall’applicazione coordinata di una serie di norme del codice civile.

Deve ricordarsi, inoltre, che l’ordinamento italiano (assieme a quello europeo) è improntato al principio della buona fede oggettiva, il quale presiede non solo la fase delle trattative (artt. 1337 e 1338 c.c.) ma anche lo svolgimento del rapporto contrattuale (art. 1375 c.c.), fino ad arrivare alle vicende patologiche. L’interprete è dunque chiamato a valutare attentamente se, nella fattispecie concreta, la parte debitrice si sia attivata per preservare l’interesse della controparte fino al punto di non pregiudicare il proprio, adempiendo così a quegli inderogabili doveri di solidarietà di cui discute l’art. 2 della Costituzione (v., per tutti, PERLINGIERI, P.: Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, 3ᵃ ed., Napoli, 2006).

Pertanto, un utilizzo attento del principio della buona fede contrattuale (che certo non può ricevere alcuna “sospensione”, neanche in tempi di pandemia) impedisce di giungere a soluzioni che non contemperino un’attenta ed equilibrata composizione degli interessi effettivamente in gioco. In questo senso depone anche il tenore letterale dell’art. 91, comma 1, del d.l. n. 18/2020, secondo cui il rispetto delle misure di contenimento è (sempre) “valutato” ai fini dell’esclusione della responsabilità: il che esclude ogni automatismo in ordine alla decisione che il giudice è chiamato a prendere. Si dovrà valutare, ad esempio, se il debitore (nonostante il rispetto delle misure di contenimento) avrebbe potuto adottare un sistema di comunicazione a distanza in grado di superare l’effetto impeditivo dei provvedimenti restrittivi; il tutto tenendo conto delle caratteristiche e della natura della prestazione da eseguire (BENEDETTI, A.M.: “Il rapporto obbligatorio al tempo dell’isolamento”, cit.).

Ancora, l’utilizzo accorto del principio in parola costituisce la chiave di volta per affrontare complesse (e drammatiche) questioni destinate a sorgere in periodi di emergenza, restrizioni e divieti. Il tema, in particolare, è quello del ritardo nell’adempimento delle prestazioni pecuniarie. Come è noto, di fronte alle obbligazioni di denaro il principio secondo cui genus numquam perit trova la sua più radicale affermazione (v. la Relazione al codice civile, nn. 571 e 577). L’obbligato, in sostanza, può trovarsi in una situazione di difficoltà economica nel reperimento di denaro liquido; tale sopravvenuta mancanza, tuttavia, non è considerata sufficiente, secondo l’univoco orientamento giurisprudenziale, a liberare il debitore (App. Firenze, 4 maggio 1950, in Giurisprudenza toscana, 1950, p. 216; Cass., 20 maggio 2004, n. 9645, in Massimario Giustizia civile, 2004; Cass., 15 novembre 2013, n. 25777, in Diritto e Giurisprudenza, 5 febbraio 2013). Pure i Principi Unidroit sui contratti commerciali internazionali ribadiscono l’incondizionata responsabilità del debitore per il ritardo nel pagamento di somme di denaro (art. 7.4.9).

Eppure, si ripete spesso che il creditore, proprio in base alle regole della buona fede oggettiva, non può pretendere dal debitore un impegno oltremodo gravoso in presenza di circostanze che rendono difficoltosa, in misura eccezionale o smisurata, l’esecuzione della prestazione.

Ora, non si vede perché una siffatta applicazione del principio di correttezza e lealtà non possa interessare il tema delle prestazioni pecuniarie. Proprio lo scenario determinato dal Codiv-19 permette di affermare come in determinate fattispecie (che il giudice dovrà attentamente verificare, contemperando gli interessi in gioco) possa ritenersi giustificato il ritardo nell’adempimento delle prestazioni di denaro. Se si vuole, la funzione “rassicurante” dell’art. 91, comma 1, di cui già si è detto, emerge anche sotto questo aspetto: il debitore è edotto del fatto che, almeno in certi casi, non sarà chiamato a rispondere per il ritardo nell’adempimento dell’obbligazione pecuniaria. E tuttavia si deve considerare che a questo risultato si perviene non già in virtù della nuova disposizione, ma grazie al ruolo che può giocare la buona fede quale limite di esigibilità della prestazione del debitore laddove l’adempimento (esatto) confligga, come ha insegnato Adolfo Di Majo, con interessi di valore preminente rispetto a quello del creditore (DI MAJO, A.: “Debito e patrimonio nell’obbligazione”, in AAVV.: Le obbligazioni e i contratti nel tempo della crisi economica.

Italia e Spagna a confronto (a cura di G. GRISI), Napoli, 2014, p. 23).

In sintesi: quand’anche si ritenga che, di fronte alle prestazioni di denaro, non si possa discettare di impossibilità temporanea vera e propria (in questo senso, però, v. GRISI, G.: “L’inadempimento di necessità”, in Jus Civile, 2014, 6, p. 234, che ritiene di giungere alle conclusioni sopra ricordate rimanendo nell’alveo dell’art. 1256, comma 2, c.c.), cionondimeno il debitore (di fronte a scenari di portata epocale, come quelli qui presi in esame) potrebbe domandare la reiezione dell’altrui pretesa formulando un’eccezione di dolo generale; dimostrando, cioè, che la pretesa del creditore è contraria al principio della buona fede oggettiva (almeno fino al venir meno dei divieti o delle misure restrittive).

Ma si vada al di là della disposizione sino ad ora studiata. Non è azzardato affermare che l’inedito scenario del 2020 costituisce un importante banco di prova per quelle dottrine che, non solo in Italia, si occupano da tempo del tema della rinegoziazione tra le parti (v., per la ricognizione dello stato dell’arte, MACARIO, F.: Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 2006; ID.: “Per un diritto dei contratti più solidale in epoca di ‘coronavirus’”, in giustiziacivile.com, 17 marzo 2020; TUCCARI, E.: Sopravvenienze e rimedi nei contratti di durata, Padova, 2018). Né può essere disconosciuto, nonostante alcune voci contrarie, il ruolo che gioca, nelle dinamiche negoziali, il discorso sulla causa in concreto (IORIO, G.: Corso di diritto privato, terza edizione, 2018, pp. 432-433). La Corte di cassazione italiana lo ha detto a chiare lettere: la causa, quale elemento essenziale del contratto, va intesa non come funzione economico-sociale, ma come funzione economico-individuale. Pertanto, anche nel caso di contratto legalmente tipico è necessario verificare in concreto la sintesi degli interessi reali che il contratto è diretto a realizzare al di là del modello (anche tipico) adoperato; sintesi che costituisce la ragione concreta della dinamica contrattuale (Cass., 8 maggio 2006, n. 10490, in Rassegna di diritto civile, 2008, 2, pp. 564; Cass., 24 luglio 2007, n. 16315, in Foro italiano, 2009, 1, I, cc. 214 ss.; Cass., Sez. Un., 6 marzo 2015, n. 4628, in Rivista del notariato, 2015, 1, pp. 192 ss.). Ed ancora, il tema della presupposizione merita di essere ripreso, non già in una prospettiva teorica (diremmo quasi “libresca”), ma per le importanti applicazioni pratiche che possono nascere da un suo sapiente utilizzo.

Si giunge, sulla base delle considerazioni sin qui svolte, a qualche riflessione conclusiva. Di fronte alla grave situazione di emergenza determinata dalla diffusione del coronavirus, il ricorso ai consolidati principi civilistici di ogni nazione europea, filtrati attraverso i valori costituzionali, costituisce un riferimento irrinunciabile per fornire risposte ragionevoli ed equilibrate.

La centralità di questi principi, al tempo della crisi, è rafforzata dal fatto che la maggior parte di essi sono condivisi fra i diversi ordinamenti dell’Unione Europea (la cui legittimazione, converrà ricordarlo, si fonda sull’adozione di Trattati in cui non può non rinvenirsi una matrice comune). Una riprova immediata si ha leggendo i “Principi per la crisi Covid-19” elaborati dall’esecutivo dell’European Law Institute (ELI) nella primavera del 2020. Rimanendo al diritto dei contratti, l’art. 13 (“Force majeure and hardship”) prevede che: (1) l’inadempimento totale o temporaneo della prestazione, derivante dalla pandemia Covid-19, deve essere valutato, fra l’altro, alla luce del principio di buona fede (“principle of good faith”); (2) le prestazioni diventate eccessivamente difficili, a causa della pandemia, dovrebbero essere rinegoziate conformemente al principio della buona fede (“European States should ensure that, in accordance with the principle of good faith, parties enter into re-negotiations even if this has not been provided for in a contract or in existing legislation”); (3) in ossequio al principio di solidarietà, occorre fare in modo che le conseguenze dell’interruzione dei rapporti contrattuali (come la disdetta di viaggi già prenotati) non siano a carico esclusivo di una sola parte (“in conformity with the principle of solidarity, States should ensure that the consequences of the disruption of contractual relationships, such as the cancellation of travel arrangements, should not be at the sole risk of one party, in particular of a consumer or SME”).

Ci si può spingere oltre. Di fronte alla pandemia del 2020 molte cose sono cambiate e cambieranno. Se però si vuole dare un senso (aggiungerei: un valore) al dolore individuale e collettivo che si è vissuto, un auspicio va formulato: quello di (ri)costruire una comunità che non abbia al centro la finanza ed il dio denaro, l’egoismo dei singoli e delle Nazioni, ma l’uomo e i suoi bisogni reali; una società ispirata ad un nuovo umanesimo che valorizzi, fra l’altro, il principio solidaristico cui si ispirano le Carte fondamentali europee. Ognuno è chiamato a svolgere un ruolo importante in questa fase che si apre. Ed il giurista non può certo tirarsi indietro.

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