Autora: Letizia Coppo, Assegnista di ricerca, Università di Torino; docente a contratto, Università LUMSA, Palermo; correo electrónico: letizia.coppo@unito.it
1. La lente attraverso cui deve leggersi il diritto delle obbligazioni è l’esigenza di cooperazione tra gli individui; proprio in quest’ambito si può percepire fino a che punto l’intelligenza del sistema postuli una concezione teleologica dei rapporti e una valutazione comparativa degli interessi identificati dalla legge, come scriveva magistralmente Betti (BETTI, E.: Teoria generale delle obbligazioni, I, Prolegomeni: funzione economico-sociale dei rapporti d’obbligazione, Milano, 1953, pp. 5-6). Mai come in questo periodo di calamità l’insegnamento dell’illustre giurista si rivela appropriato.
Gli strumenti per reagire alla pandemia devono rintracciarsi in primo luogo nell’ordinamento vigente, nelle sue regole ma soprattutto nei suoi principi, giacché una crisi “di sistema” richiede una risposta altrettanto “di sistema”, non limitata a interventi politico-legislativi dettati dalla contingenza (per una riflessione di più ampio respiro, ancorché su una crisi diversa v. PERLINGIERI, P.: “Diritto e crisi”, Convegno di studi per i trent’anni della Rivista giuridica sarda, in Rassegna di diritto civile, 2016, pp. 319-321; sulla “legislazione dell’effimero” le osservazioni di PALERMO, G.: Sein und Sollen, in LUMINOSO, A.: Diritto e crisi, Milano, 2016). Anche perché situazioni come la presente, ora percepite come eccezionali, rischiano di diventare in futuro una costante.
Se le sfide sono in certa misura nuove, la missione del giurista dovrebbe essere in fondo quella di sempre: indagare i margini di flessibilità del sistema senza alterarne, però, la coerenza. Ben si presta a tale compito il libro IV del codice, per la sua marcata impronta solidaristica (che emerge in primo luogo dalla Relazione del Guardasigilli al codice civile del 1942, no 558) e per la poliedricità intrinseca al concetto stesso di solidarietà, una volta epurato dell’originaria coloritura corporativa (interessanti le riflessioni di PERLINGIERI, P.: “Mercato, solidarietà e diritti umani”, in Rassegna di diritto civile, 1995, p. 82 ss.). Da un lato, solidarietà è sinonimo di contemperamento tra l’interesse debitorio e creditorio; dall’altro rimanda, per il tramite di una lettura costituzionale della clausola di buona fede, all’esigenza di un surplus di tutela rivolto a quella tra le parti che, di volta in volta, si trova in una posizione di occasionale debolezza (sull’impatto della Costituzione nel diritto privato v. in particolare PERLINGIERI, P.: “Interpretazione e controllo di conformità alla Costituzione”, in Rassegna di diritto civile, 2018, p. 593 ss.; FEMIA, P.: Drittwirkung: principi costituzionali e rapporti tra privati. Un percorso nella dottrina tedesca, Napoli, 2018].
Ecco che, in linea di principio, la disciplina delle obbligazioni reca già in sé gli anticorpi adeguati, purché si abbia cura d’interpretarla in chiave evolutiva per applicarla alla soluzione dei nuovi problemi. Tra i più comuni nella quotidianità della pandemia vi è quello della sorte dei contratti di prestazione periodica d’opera o di servizi, stipulati prima dell’emergenza sanitaria, nel caso in cui il debitore, per far fronte all’impossibilità di eseguire la prestazione causata dall’esigenza di rispettare “misure di contenimento” disposte dalla legge e contenere il danno economico, abbia offerto al creditore una prestazione “alternativa”, con contenuto analogo, seppur non identico, e modalità di erogazione diverse. Si pensi a quei teatri e quelle palestre che hanno messo a disposizione di chi ha sottoscritto abbonamenti semestrali o annuali spettacoli e corsi in via telematica. La questione è stabilire se sia configurabile in capo al creditore il diritto di rifiutare la prestazione alternativa e domandare invece la restituzione integrale del corrispettivo pagato o la sua conversione in un voucher spendibile entro un anno, in linea con quanto previsto, però solo in riferimento ad alcuni contratti, dall’art. 88 del d.l. 18/2020.
Fermo restando che nessuna responsabilità per inadempimento potrebbe imputarsi ai prestatori d’opera e di servizi in questione – e questo anche se non fosse stato previsto all’art. 6-bis della l. 13/2020 un espresso esonero per i casi in cui l’inesecuzione di quanto dovuto dipenda dall’osservanza delle «misure di contenimento» –, l’interrogativo poc’anzi sollevato ne presuppone altri: segnatamente, la qualificazione della prestazione “alternativa” come un quid minoris rispetto alla prestazione originaria oppure come un aliud, da cui dipende in primo luogo la riconducibilità della fattispecie all’impossibilità totale o all’impossibilità parziale; la sindacabilità in giudizio dell’eventuale rifiuto della prestazione “alternativa” da parte del creditore o la configurabilità in capo al debitore del diritto di eseguire tale prestazione.
2. Nei contratti di prestazione d’opera o di servizi è ancora più evidente la corrispondenza con quell’idea del rapporto obbligatorio come “struttura complessa, formata da diritti, obblighi, poteri e soggezioni, il cui contenuto può modificarsi senza che il rapporto perda la sua identità giuridica” (MENGONI, L.: La responsabilità contrattuale, ora in MENGONI, L.: Scritti II. Obbligazioni e negozio, a cura di C. CASTRONOVO, A. ALBANESE, A. NICOLUSSI, Milano, 2011). In quest’ottica non è agevole ricostruire a valle il concetto di adempimento “esatto” e quindi a contrario quello di adempimento inesatto e di adempimento parziale, o meglio di “prestazione parziale” “il termine compare nel BGB, che al § 266 parla di Teilleistung, su cui v. le considerazioni di GERNHUBER, J.: Die Erfüllung und ihre Surrogate, Tübingen, 1994, p. 148 ss.; ed è ripreso nel titolo della monografia di FONDRIESCHI, A.: La prestazione parziale, Milano, 2005).
La difficoltà non dipende solo dalla complessità del rapporto, ma anche dal fatto che nella specie la valutazione di conformità della prestazione non può compiersi su un piano meramente quantitativo; e secondo autorevole dottrina difformità qualitative e difformità quantitative sono trattate dalla disciplina codicistica in modo diverso [NICOLÒ, R.: “Adempimento (dir. civ.)”, NICOLÒ, R.: Raccolta di scritti, II, Milano, 1980, p. 1301; NATOLI, U.: L’attuazione del rapporto obbligatorio. I. Il comportamento del creditore, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da CICU e MESSINEO, XVI, 1, Milano, 1974, p. 201; BRECCIA, U.: Le obbligazioni, in Trattato di diritto privato, a cura di IUDICA e ZATTI, Milano, 1991, p. 401 ss.; GAMBINO, A.: Le obbligazioni. I. Il rapporto obbligatorio, in Trattato di diritto civile, diretto da SACCO, Torino, 2015, p. 306; v. però DALLA MASSARA, T.: “L’adempimento parziale”, in GAROFALO, L., TALAMANCA. M.: La struttura e l’adempimento, Trattato delle obbligazioni, I.5, Padova, p. 214].
Se l’art. 1218 c.c. quando parla di adempimento “inesatto” si riferisce indifferentemente a difformità quantitative e qualitative, le norme in tema di adempimento parziale (art. 1181 c.c.) e di impossibilità parziale (artt. 1258 e 1464 c.c.) varrebbero solo per le prime. Alle difformità qualitative si applicherebbe invece l’art. 1197 c.c., secondo cui l’esecuzione di una “prestazione diversa” libera il debitore solo ove il creditore l’abbia accettata. La prestazione qualitativamente difforme, dunque, non sarebbe soltanto un quid minoris rispetto a quella originaria, bensì una “prestazione diversa” e la sua esecuzione sarà qualificabile come datio in solutum.
La ricostruzione esposta incontra una serie di obiezioni (illustrate da SITZIA, L.: Il potere di scelta del creditore sulla prestazione incompleta, Napoli, 2017, p. 13 ss.). Tra queste appare dirimente il rilievo per cui l’art. 1181 c.c., nel sancire il diritto del creditore di rifiutare l’adempimento parziale, lo estende “anche” alle obbligazioni divisibili, dando così per presupposta la sua applicazione a quelle indivisibili. Ebbene, per tale ultima categoria di obbligazioni riesce difficile immaginare un inadempimento parziale che non sia qualitativo (sul tema v. ampiamente CICALA, R.: “Obbligazione divisibile e indivisibile”, in Novissimo Digesto italiano, XI, Torino, 1968]. Se così è, pare ragionevole ammettere che la prestazione difforme sotto il profilo qualitativo non sia necessariamente “diversa”, ma possa essere semplicemente “parziale”.
A questo punto si pone il problema di stabilire la soglia oltre la quale la prestazione da “parziale” diventa “diversa”. Da ciò dipende la qualificazione della fattispecie prospettata all’inizio del contributo in termini di impossibilità parziale o totale. Se la prestazione alternativa è “parziale” significa che quella originaria non era totalmente impossibile; mentre vale l’opposto se la prestazione alternativa è una “prestazione diversa”. Qualche indicazione potrebbe trarsi in primo luogo dalla definizione che dottrina e giurisprudenza sogliono dare di aliud pro alio: la prestazione è qualificabile come “altra” quando presenta differenze che ne alterano la natura, l’individualità, la consistenza e la destinazione al punto da non renderla più riconducibile al genus cui originariamente apparteneva [in dottrina, per tutti, GRASSI, U.: I vizi della cosa venduta nella dottrina dell’errore. Il problema dell’inesatto adempimento, Napoli, 1996, p. 219 ss.; in giurisprudenza, già Cass., 23 marzo 1999, n. 2712, in Notariato, 1999, p. 307]; detto altrimenti, quando la prestazione offerta s’inserisca in qualche modo nell’attuazione del programma obbligatorio [v. PROSPERETTI, M.: Adempimento parziale e liberazione del debitore, Napoli, 1980, p. 27 ss.].
Vi è poi un’ulteriore soglia da stabilire: quella minima, al di sotto della quale la difformità qualitativa della prestazione non legittima neppure lo scioglimento del rapporto. Qui entra in gioco il principio generale per cui il creditore è tenuto a tollerare difformità che siano di scarsa importanza, veicolato dall’art. 1455 c.c. Una difformità qualitativa trascurabile non dovrebbe rendere la prestazione – questa volta neppure parzialmente – impossibile. Per la giurisprudenza la valutazione deve compiersi alla stregua di un criterio oggettivo e di uno soggettivo: in sintesi, il giudice deve verificare se la difformità, per entità e per pregiudizio causato al creditore, abbia alterato in modo sensibile l’equilibrio del sinallagma; e se la difformità sia stata attenuata da comportamenti concreti delle parti (ex multis, Cass., 22 ottobre 2014, n. 22346, in Leggi d’Italia online).
Ora, tornando al problema pratico che si è sollevato all’esordio del contributo, la tesi dell’impossibilità assoluta pare troppo radicale. La difformità qualitativa prospettata altera senza dubbio alcune delle funzioni tipiche della prestazione – soprattutto quella della socializzazione, che spesso costituisce proprio il motivo per cui la parte ha stipulato i contratti in questione –, ma non ne fa venire meno la funzione economica essenziale e non ne muta il genere. Questo sempreché il creditore non sia nell’impossibilità di fruire della prestazione, ma sul punto si tornerà più avanti. Cambiando angolazione e ragionando sul principio di rilevanza dell’inadempimento, sarebbe agevole sostenere che la difformità in questione non sia contenuta entro la soglia della normale tollerabilità, ma sarebbe altrettanto agevole obiettare che nel contesto attuale il concetto di “tollerabile” deve parametrarsi all’eccezionalità e della situazione e alla portata globale dell’epidemia. Se così è, la prestazione originaria dovrebbe qualificarsi come solo parzialmente impossibile e l’esecuzione della prestazione “alternativa” come adempimento parziale.
3. La qualificazione della fattispecie in termini di impossibilità parziale comporta l’applicazione degli artt. 1258 e 1464 c.c. [sui rapporti tra le due norme cfr. in particolare PERLINGIERI, P.: Dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento, cit., 1975, p. 518], ai sensi dei quali il creditore ha la facoltà di recedere dal contratto quando “non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale”. Nel rimettere la scelta al creditore, l’art. 1464 c.c. non tiene in alcuna considerazione l’interesse che il debitore potrebbe avere ad eseguire la prestazione parziale per evitare di dover restituire l’intero corrispettivo ricevuto. In altre parole, la norma, così come formulata, non sembra incarnare adeguatamente quello spirito di cooperazione che dovrebbe animare il diritto delle obbligazioni, soprattutto in momenti di crisi. Il bilanciamento tra le due parti del rapporto obbligatorio è integralmente rimesso dalla lettera della norma alla valutazione dell’interesse apprezzabile del creditore, parametro almeno a prima vista connotato da una certa soggettività. Proprio a fronte di questa connotazione si è posto il problema di stabilire se sulla valutazione in esame potesse esercitarsi in sede giudiziale una qualche forma di scrutinio oggettivo.
Sul punto si registra un contrasto tra giurisprudenza e dottrina. In una prima fase, la giurisprudenza si è espressa in senso favorevole alla sindacabilità della scelta del creditore.
La casistica verteva sulla sorte dei contratti di locazione stipulati prima dello scoppio della guerra nei numerosi casi in cui gli immobili locati erano stati danneggiati dai bombardamenti. Al riguardo, le corti si sono premurate di chiarire che è rimesso in via esclusiva al giudice il compito di valutare, nell’ipotesi di contrasto tra le parti, se l’impossibilità della prestazione sia da considerarsi totale o parziale, indipendentemente dall’affermazione del conduttore circa l’interesse alla prosecuzione del rapporto (così Cass., 11 febbraio 1947, n. 170, in Foro italiano, 1947, I, c. 450; e Cass., 17 giugno 1968, ivi, 1968, I, c. 2507; in senso adesivo, MOSCO, L.: “Impossibilità sopravvenuta della prestazione”, in Enciclopedia del diritto, XX, Milano, 1970, p. 436). La motivazione e il contesto offrono spunti interessanti.
In seguito (ma già Cass., 8 marzo 1960, n. 430, in Massimario Giurisprudenza italiana, 1960, p. 110), la giurisprudenza si è attestata su una lettura soggettiva dell’interesse apprezzabile e, conseguentemente, ne ha affermato l’insindacabilità in sede giudiziale (Cass., 19 settembre 1975, n. 3066, in Giurisprudenza italiana, 1976, I, c. 1852; Cass., 17 luglio 1987, n. 6299, in Leggi d’Italia online; Cass., 14 marzo 1997, n. 2274, ivi; e ancora di recente Cass., 23 aprile 2020, n. 8112, ivi). Tale impostazione ha invece registrato in dottrina una voce autorevole ma isolata [COTTINO, G.: “Questioni in materia di impossibilità della prestazione”, in Rivista di diritto commerciale, 1951, II, p. 80, per il quale l’aggettivo “apprezzabile” è soltanto “diretto ad impedire che possano essere tutelati semplici stati d’animo, specie se ingiustificati, del creditore, come ad es. il capriccio o l’intenzione di nuocere all’altro contraente”).
Il resto della dottrina ha criticato la tesi e ha suggerito di leggere la locuzione “interesse apprezzabile del creditore” in chiave causale. Tale interesse mancherebbe soltanto quando la prestazione parziale è incompatibile con la causa concreta del contratto [così BIANCA, C.M.: Diritto civile. 5. La responsabilità2, Milano, 2012, p. 404; sulla medesima linea, pur con qualche sfumatura diversa, PAGLIANTINI, S.: “Art. 1464”, in NAVARRETTA, E., ORISTANO, A.: Dei contratti in generale, in Commentario del Codice civile, diretto da E. GABRIELLI, Torino, 2011, p. 584 e p. 591, per il quale il recesso è precluso al creditore quando questo “accampi un pregiudizio trascendente la (mancata) realizzazione dell’utilità contrattuale attesa «in quell’affare»”; ma già MENGONI, L.: Note sull’impossibilità sopravvenuta della prestazione di lavoro, in MENGONI, L.: Scritti II. Obbligazioni e negozio, cit., p. 121, osservava che il creditore deve valutare “se la ridotta funzionalità del contratto è idonea a ripagare il costo di una controprestazione”).
La tesi della sindacabilità è condivisibile per una serie di ragioni, che possono riassumersi nella tendenza dell’ordinamento alla conservazione del contratto (su cui, in una prospettiva di più ampio respiro, sono ancora attuali le osservazioni contenute nel volume a cura di DURAND, P.: La tendance à la stabilité du rapport contractuel, Parigi, 1960] e al conseguente controllo giudiziale sull’esperimento dei rimedi ablativi persino in caso d’inadempimento, ove il bilanciamento dell’interesse del creditore con quello del debitore dovrebbe essere meno giustificato, giacché la mancata esecuzione della prestazione è imputabile a quest’ultimo.
Così innanzitutto è sindacabile, per espressa previsione di legge – ma sul tema si tornerà nel prossimo paragrafo – il rifiuto di una parte di eseguire la prestazione a fronte dell’inadempimento totale o parziale dell’altra (art. 1460 c.c.) e sulla base di tale disposizione la giurisprudenza, in perfetto accordo con la dottrina [NATOLI, U.: L’attuazione del rapporto obbligatorio, cit., p. 402; DI MAJO, A.: Dell’adempimento in generale, sub Artt. 1177-1200, in Commentario del Codice civile Scialoja-Branca, Libro IV: Delle obbligazioni, Bologna-Roma, 1994, p. 99 ss.; e DALLA MASSARA, T.: “L’adempimento parziale”, cit., p. 254), ritiene censurabile anche il rifiuto da parte del creditore dell’adempimento parziale del debitore, pur non sancendo l’art. 1181 c.c., a differenza dell’art. 1464 c.c., alcun limite, se non quello di eventuali norme di legge o usi in senso contrario (v. per esempio Cass., 9 ottobre 2012, n. 17140, in CED Cassazione, ove si ha però cura di precisare che il rifiuto del creditore non può assurgere a colpa ai sensi dell’art. 1227 c.c.).
Parimenti sindacabile ex fide bona, secondo la giurisprudenza, è l’atto di avvalimento della clausola risolutiva espressa da parte del creditore. In particolare, la Cassazione ha invocato l’exceptio doli generalis in casi nei quali l’inadempimento dedotto nella clausola si era rivelato non imputabile (cfr., tra le tante, Cass., 30 aprile 2012, n. 6634, in Guida al diritto, 2012, p. 54) o di scarsa importanza (Cass., 23 novembre 2015, n. 23868, in Contratti, 2016, p. 659 ss., con nota critica di PIRAINO, F.: “Il controllo giudiziale di buona fede sulla clausola risolutiva espressa – Il commento”. Sulla clausola risolutiva espressa come strumento per ottenere un commodus discessus dal rapporto contrattuale cfr., in particolare, GRONDONA, M.: La clausola risolutiva espressa, Milano, 1998, p. 43 ss., spec. p. 51 ss., secondo cui la ratio dell’art. 1455 c.c. ricorre anche nella risoluzione stragiudiziale; e SARTORI, F.: Contributo allo studio della clausola risolutiva espressa, Napoli, 2012, p. 75 ss.].
Sempre alla luce della buona fede, declinata come divieto di abuso del diritto, la giurisprudenza ritiene sindacabile l’esercizio del recesso ad nutum e si è pronunciata per la prima volta in tal senso proprio in un caso nel quale le conseguenze del recesso si sarebbero riverberate a catena su una pluralità di rapporti, così producendo un impatto economico notevole su una determinata porzione di mercato [il leading case è il noto caso Renault: v. Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, in Contratti, 2010, con nota di D’AMICO, G.: “Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto”; in Obbligazioni e contratti, 2010, p. 172 ss., con nota di ORLANDI, M.: “Contro l’abuso del diritto”; in Giurisprudenza commerciale, 2011, II, p. 286 ss., con commento di BARCELLONA, M.: “Buona fede e abuso del diritto di recesso ad nutum tra autonomia privata e sindacato giurisdizionale”).
Nella situazione attuale, l’impatto del recesso sul mercato sarebbe ancora più “massivo” e questo è un elemento che dovrebbe essere tenuto presente nella riflessione.
In ultimo, l’art. 1467 c.c. in tema di eccessiva onerosità sopravvenuta, analogamente all’art. 1450 c.c. in tema di rescissione, consente al debitore di evitare lo scioglimento del contratto mediante l’offerta di ricondurlo ad equità. Secondo l’interpretazione prevalente, l’offerta non può essere rifiutata dal creditore quando sia effettivamente idonea a riequilibrare il sinallagma, sicché il debitore ha diritto ad ottenere dal giudice la sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. (sul punto la giurisprudenza è risalente ma costante: Cass., 16 aprile 1951, n. 431, in Giurisprudenza completa della cassazione civile, 1951, II, p. 320, con nota di FORTUNATO, G.: “Natura dell’offerta di reductio ad aequitatem e limiti per farla valere nel processo”; e sulla rescissione Cass. 13 febbraio 1951, n. 351, in Rivista di diritto processuale, 1953, II, p. 108, con nota di CARNELUTTI, F.: “Preclusione dell’offerta di riduzione del contratto ad equità”; e Cass., 24 marzo 1954, n. 837, in Foro italiano, 1954, I, c. 755. In dottrina v. REDENTI, E.: “L’offerta di riduzione ad equità”, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1947, p. 576 ss.]. Eccessiva onerosità e impossibilità sono evidentemente due fattispecie diverse, ma si potrebbe sostenere che la medesima ratio cui è ispirata la disciplina della prima ricorre anche nella seconda quando dipenda da eventi straordinari e imprevedibili, com’è l’epidemia di Coronavirus.
Una lettura in termini oggettivi dell’art. 1464 c.c., con conseguente attribuzione al giudice del potere di sindacare la scelta del creditore di rifiutare l’adempimento della parte di prestazione rimasta possibile, sembra inserirsi perfettamente nel quadro appena tracciato.
E del resto, come si accennava, sarebbe incoerente garantire al debitore che non ha eseguito l’intera o l’esatta prestazione per causa a lui imputabile maggiore tutela rispetto al debitore la cui prestazione è divenuta parzialmente impossibile per un evento del tutto estraneo alla sua sfera di controllo; si tratterebbe di un’irragionevole disparità di trattamento, soprattutto nell’attuale contesto di crisi.
4. Una volta appurata la sindacabilità del rifiuto del creditore, si tratta di stabilire quale criterio debba guidare la valutazione del giudice. Come si diceva, la dottrina suggerisce il parametro della causa concreta, opinione che rievoca quella giurisprudenza a tutti nota con cui la Corte di legittimità ha equiparato quoad effecta all’impossibilità sopravvenuta della prestazione il difetto sopravvenuto della funzione economico-individuale del contratto (Cass., 24 luglio 2007, n. 16315, in Contratti, 2008, p. 241; e Cass., 20 dicembre 2007, n. 26958, ivi, 2008, p. 786. Per un’analisi più ampia e congiunta delle due sentenze v. FERRANTE, E.: “Causa concreta ed impossibilità della prestazione nei contratti di scambio”, in Contratto e impresa, 2009, p. 156 ss.].
Tale collegamento suggerisce uno spunto ulteriore: nella giurisprudenza appena citata il problema non era l’impossibilità di prestare, bensì l’impossibilità (almeno parziale) per il creditore di fruire della prestazione. Senza poter qui affrontare il tema, il contributo alla riflessione sull’attualità potrebbe essere questo: l’interesse apprezzabile del creditore alla prestazione parziale, almeno in situazioni di crisi causata da circostanze eccezionali e imprevedibili, dovrebbe sempre sussistere quando una componente della prestazione rimane possibile; e la possibilità deve valutarsi non solo in rapporto a chi eroga la prestazione, ma anche in relazione all’utilizzatore. Volendo tornare agli esempi prospettati all’inizio, il titolare dell’abbonamento dovrà essere in possesso di una buona connessione internet; e nel caso della palestra anche di uno spazio minimamente idoneo a svolgere gli esercizi.
L’impostazione causalista è senz’altro da condividere, ma il contesto attuale, così come quello post-bellico in cui è intervenuta la citata giurisprudenza in tema di locazione, richiede una solidarietà che vada oltre il mero bilanciamento dell’interesse debitorio e creditorio. La lettura causalista dovrebbe essere arricchita da un’interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 1175 e 1375 c.c. (lo suggerivano già CABELLA PISU, L.: Dell’impossibilità sopravvenuta, Artt. 1463-1466, in Commentario del Codice civile Scialoja-Branca, cit., 2002, p. 160; nonché CARNEVALI, U.: L’impossibilità sopravvenuta, in Trattato di diritto privato, diretto da Mario Bessone, XIII, Torino, 2011, p. 284 ss.).
Linee guida utili provengono innanzitutto dalla casistica sull’eccezione di inadempimento.
Almeno nel caso in cui il creditore eccepisca ex art. 1460 c.c. il “mancato” anziché “l’inesatto” adempimento, il giudizio di compatibilità con la buona fede consta di due fasi.
In primo luogo devono valutarsi la gravità dell’inadempimento a fronte del quale viene sollevata l’eccezione dilatoria e la proporzionalità tra l’impatto prodotto sul rapporto dall’inadempimento giustificante e quello che produrrebbe l’inadempimento giustificato (per tutte, Cass., 27 marzo 2013, n. 7759, in Contratti, 2013, p. 1097; Cass., 8 gennaio 2010, n. 74, in Giustizia civile, 2010, p. 584; Cass., 16 maggio 2006, n. 11430, in Rivista giuridica del lavoro, 2006, II, p. 651; e Cass., 7 gennaio 2004, n. 58, in Giustizia civile, 2005, I, p. 2800). In secondo luogo deve valutarsi la condotta dell’eccipiente nell’esecuzione del contratto (Cass., 4 febbraio 2009, n. 2720, in Obbligazioni e contratti, 2010, p. 429; sosteneva la necessità di non arrestarsi ad elementi meramente oggettivi già BIGLIAZZI GERI, L.: “Eccezione di inadempimento”, in Digesto delle discipline privatistiche, VII, Utet, Torino, 1991, p. 343).
Quanto alla gravità dell’inadempimento, criterio che ricalca evidentemente quello dell’art. 1455 c.c., la giurisprudenza ha affermato che la valutazione deve tenere conto sia della componente della prestazione non adempiuta rispetto all’obbligazione nel suo complesso, sia dell’alterazione dell’equilibrio contrattuale [Cass., 26 luglio 2000, n. 9800, in Giustizia civile, 2000, I, p. 1632; sul punto v. le critiche di ROPPO, V.: Il contratto, in Trattato di diritto privato, a cura di G. IUDICA, P. ZATTI, Milano, 2011, p. 921). Nell’ipotesi in cui sia coinvolta una pluralità di prestazioni, tale interesse non deve parametrarsi a loro singolarmente, ma essere inserito nel quadro di una valutazione unitaria e globale (Cass., 4 ottobre 1983, n. 5776, in Repertorio Foro italiano, 1983, voce “Contratti agrari”, n. 280).
Al requisito della gravità si aggiunge quello della proporzionalità (sulla necessità del cumulo, Cass., 13 dicembre 2010, n. 25159, in Guida al diritto, 2011, p. 80.): nell’accertare se l’eccezione dilatoria è legittima, bisogna comparare l’entità dell’inadempimento giustificante con quella dell’inadempimento giustificato. Così, anche un inadempimento di lieve importanza può legittimare la sospensione dell’esecuzione ex art. 1460 c.c., purché tale reazione sia proporzionata al fatto che vi ha dato causa [cfr., ex multis, Cass., 7 marzo 2001, n. 3341, in Contratti, 2001, p. 995], sempre tenendo conto della funzione economico-sociale del contratto e della rispettiva incidenza degli inadempimenti sull’equilibrio sinallagmatico del medesimo [Cass., 4 febbraio 2009, n. 2720, in Obbligazioni e contratti, 2010, p. 429].
Quanto agli elementi soggettivi, una decisione della Corte di legittimità ha reputato contrario a buona fede il comportamento di una parte che, dopo aver tollerato per un certo periodo l’esecuzione della prestazione con modalità diverse da quelle pattuite, ha rifiutato di adempiere alla propria obbligazione eccependo l’inadempimento dell’altra [Cass., 8 novembre 1984, n. 5639, in Giurisprudenza italiana, 1985, I, p. 436]. Qui la buona fede è stata concretizzata nella tutela dell’affidamento [sul tema v. PROCCHI, F.: “L’‘exceptio doli generalis’ e il ‘divieto di venire contra factum proprium’”, in AA.VV.: L’eccezione di dolo generale. Applicazioni giurisprudenziali e teoriche dottrinali (a cura di L. GAROFALO), Padova, 2006, p. 77 ss.; più in generale cfr. PIRAINO, F.: La buona fede in senso oggettivo, Torino, 2015, p. 440 ss.].
In un’altra decisione, la Cassazione ha reputato contraria a buona fede l’eccezione di inadempimento a motivo del fatto che l’eccipiente avrebbe potuto soddisfare il proprio credito se solo avesse cooperato con la controparte (Cass., 21 febbraio 1983, n. 1308, in Giustizia civile, 1983, I, p. 2379, con nota di COSTANZA, M.: “Buona fede ed eccezione di inadempimento”). L’ipotesi riguardava il rifiuto di un’acquirente, nell’ambito di una compravendita di immobile ipotecato nella quale era previsto il pagamento del prezzo solo dopo la cancellazione dell’ipoteca, di versare detto prezzo direttamente al creditore ipotecario, in modo da conseguire la liberazione dell’immobile dalla garanzia reale. Qui la buona fede diventa sinonimo della correttezza di cui all’art. 1175 c.c. [sul rapporto tra i due termini v. PIRAINO, F.: La buona fede in senso oggettivo, cit., p. 12 ss.].
La casistica appena citata consente di aggiungere alla riflessione qualche tassello conclusivo. Il primo è il principio di proporzionalità (su cui PERLINGIERI, G., FACHECHI, A.: Ragionevolezza e proporzionalità nel diritto contemporaneo, Napoli, 2017): nella fattispecie oggetto del presente contributo, come in quelle poc’anzi considerate, c’è pur sempre una parte che vuole riottenere la propria prestazione eccependo l’inesattezza di quella altrui. Anche qui dunque pare opportuna una comparazione tra l’impatto che avrebbe sul creditore la prestazione alternativa e quello che avrebbero sul debitore il recesso e il conseguente obbligo restitutorio. E tale comparazione dovrebbe – come ha fatto la giurisprudenza sulle locazioni all’indomani del secondo conflitto mondiale – trascendere il singolo contratto e tenere conto anche dell’effetto massivo che il rifiuto della prestazione parziale avrebbe sulla contrattazione nei settori interessati.
Il secondo e ultimo tassello è il dovere di cooperazione ai sensi dell’art. 1175 cod. civ., che dovrebbe essere letto alla luce del principio di ragionevolezza e del principio di solidarietà come inteso dalla Costituzione, se non alla luce del principio di autoresponsabilità: si può pretendere che il creditore faccia tutto ciò che è ragionevole attendersi in un periodo di eccezionale ed imprevedibile emergenza per consentire al debitore di attenuare le conseguenze negative della crisi [per riflessioni di più ampio respiro v. PERLINGIERI, G.: Profili applicativi della ragionevolezza nel diritto civile, Napoli, 2015].