Por Giovanni Berti de Marinis
1. Le conseguenze economiche che derivano dalla cessazione degli effetti civili del matrimonio sono state sempre al centro di un forte dibattito nella dottrina e nella giurisprudenza italiana. Il tema dell’assegno divorzile, disciplinato dall’art. 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970, coinvolge infatti una molteplicità di problematiche connesse, in particolare, all’individuazione dei presupposti di fatto che legittimano il coniuge c.d. debole ad ottenere il beneficio economico e, ovviamente, alla sua quantificazione.
Ai sensi della disposizione sopra richiamata, il giudice “dispone, tenuto conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, l’obbligo per uno dei coniugi di somministrare a favore dell’altro periodicamente un assegno in proporzione alle proprie sostanze e ai propri redditi. Nella determinazione di tale assegno il giudice tiene conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in un’unica soluzione”.
Se tale disposizione fissa i caratteri generali che deve avere l’assegno divorzile, non fornisce solide basi all’interprete nell’individuare quando la posizione economica di uno dei coniugi possa essere definita come “debole” e, quindi, quando lo stesso si trovi in una situazione tale da poter pretendere l’assegno dal coniuge c.d. forte. Allo stesso modo, poi, non si evincono chiari indici che possano guidare l’interprete verso l’individuazione dell’esatta quantificazione dell’assegno divorzile.
2. Le due problematiche, chiaramente interconnesse, hanno occupato la giurisprudenza che si era attestata su un orientamento consolidato secondo il quale il termine di paragone per verificare la sussistenza del diritto all’assegno divorzile e la sua quantificazione doveva essere individuato nel “tenore di vita” potenziale di cui la coppia di coniugi avrebbe potuto godere in assenza del divorzio. Sulla scorta del medesimo parametro, poi, doveva essere quantificato l’ammontare dell’assegno da calcolare in misura tale da permettere al coniuge debole di mantenere lo stesso “tenore di vita” goduto in costanza di matrimonio.
Tale orientamento, che trova la sua più autorevole espressione nella Sentenza Cass., Sez. un., 29 novembre 1990, n. 11490, è stato successivamente ripreso – forse un po’ acriticamente – dalle successive pronunce di merito e di legittimità che hanno contribuito a formare un “diritto vivente” che vedeva proprio nel “tenore di vita” il parametro di riferimento in funzione del quale verificare sia l’an che il quantum dell’assegno (in questo senso, Cass., 21 ottobre 2013, n. 23797; Cass. 29 settembre 2016, n. 19339).
Di fronte a tale stato di fatto la dottrina si è posta con toni abbastanza critici facendo notare come una applicazione poco elastica dei principi sopra brevemente esposti aveva di fatto portato a quantificazioni dell’assegno divorzile eccessive e, come tali, pregiudizievoli per il coniuge forte che sovente veniva privato di risorse che ingiustificatamente venivano poste a disposizione dell’altro. Un orientamento che, sovente, determinava l’instaurarsi di rendite parassitarie in favore del c.d. coniuge debole.
Proprio la ricorrenza di tali fatti indusse il Tribunale di Firenze (Ordinanza del 22 maggio 2013) a sollevare questione di costituzionalità delle disposizioni richiamate nell’interpretazione consolidata che alle stesse veniva data dall’unanime giurisprudenza. I profili di incostituzionalità venivano individuati da parte del Giudice rimettente nel presunto contrasto di tale regolamentazione con l’art. 2 Cost. in quanto determina un erroneo bilanciamento dei valori in gioco proteggendo eccessivamente il coniuge debole a discapito del coniuge c.d. forte, nonché con gli artt. 3 e 29 Cost. nella misura in cui lo stesso orientamento lede il principio di uguaglianza fra i coniugi.
La Corte costituzionale italiana, sollecitata dall’ordinanza in parola, ha però rigettato la questione di costituzionalità con Sentenza 11 febbraio 2015, n. 11. Tale arresto del Giudice delle leggi si fonda sulla considerazione per cui il “tenore di vita”, pur rappresentando il parametro principale al fine di verificare la spettanza del diritto all’assegno e la sua quantificazione, non rappresenta l’unico parametro che il giudice può utilizzare al fine di pervenire ad una corretta determinazione del sua ammontare. Il giudice, infatti, potrà ridimensionare l’importo dell’assegno in funzione dei rispettivi patrimoni dei coniugi, della durata del matrimonio, degli apporti personali che ciascuno dei coniugi ha dato alla vita della famiglia ecc.
Tale autorevole pronuncia aveva avuto l’effetto di confermare ulteriormente l’interpretazione portata avanti dalla giurisprudenza ordinaria e sembrava, di fatto, aver chiuso completamente qualunque ulteriore possibilità di distaccarsi dalla stessa.
3. In questo quadro caratterizzato da una certa staticità, è recentemente intervenuta la Corte di cassazione con la Sentenza 10 maggio 2017, n. 11504 che, contrastando l’orientamento dominante, tenta una nuova ricostruzione delle disposizioni in tema di assegno divorzile. Evidenzia in particolare tale sentenza come il divorzio, anche nelle finalità che allo stesso vengono assegnate dal legislatore, sia istituto volto a creare una realtà completamente nuova attraverso lo scioglimento di un matrimonio che, per effetto della volontà responsabile dei soggetti coinvolti, cessa definitivamente di esistere. In tale contesto, ogni tentativo di prolungare nel tempo diritti e doveri che trovavano la loro fonte proprio nel vincolo ormai dissolto, si pone in completo contrasto con la ratio dell’istituto. Ancorare l’an ed il quantum dell’assegno divorzile al “tenore di vita” di cui la coppia godeva in costanza di matrimonio avrebbe l’effetto di determinare che, pur sotto un profilo meramente economico, continuino a perpetrarsi gli effetti dell’ormai cessato vincolo matrimoniale.
Tale convinzione espressa dal giudice viene poi a trovare ulteriore conferma nell’evoluzione sociale che il matrimonio ha evidentemente subito. In questo senso, infatti, assumono una rilevanza quantitativa sempre più marginale quelle strutture familiari caratterizzate dalla totale rinuncia di una delle parti (normalmente la moglie) a svolgere forme di lavoro esterno retribuito al fine di dedicarsi ai lavori di casa con beneficio per l’intera famiglia. L’accesso maggiormente diffuso al mercato del lavoro da parte delle donne ha reso, a parere dei giudici, del tutto inattuale il fatto di continuare a scaricare integralmente il costo della crisi sul coniuge c.d. forte.
Il fatto che il matrimonio – come pure la sua crisi – si fondi su scelte caratterizzate dalla piena ed integrale autoresponsabilità di soggetti pienamente consapevoli e maturi, impone di evitare la creazione di rendite parassitarie che sovente vedevano costretti i coniugi forti a sostenere vita natural durante i rispettivi coniugi deboli che si adagiavano su uno stato di benessere che risultava, sciolto il matrimonio, garantito da parte di un soggetto divenuto ormai totalmente estraneo.
Con ciò, ovviamente, i giudici non vogliono affermare che il coniuge debole non abbia diritto a forme di sostentamento ma, più semplicemente, che tale diritto e la sua relativa quantificazione economica non possa dipendere dal tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Nel tentativo di individuare un distinto parametro su cui verificare la spettanza del diritto all’assegno e la sua quantificazione i Giudici, facendo riferimento a quanto disposto dall’art. 337 septies, comma 1, c.c. in tema di mantenimento dei figli maggiorenni, hanno ritenuto opportuno ancorare tali valutazioni al parametro della “indipendenza economica” del coniuge debole. Sarà dunque proprio in relazione a tale fattore che si dovrà valorizzare l’assegno divorzile.
Sotto tale profilo, in realtà, la Corte di cassazione fa espresso riferimento al parametro della “indipendenza economica” esclusivamente in relazione all’individuazione dell’an. Afferma cioè chiaramente che l’assegno divorzile spetterà esclusivamente al coniuge che non sia economicamente autosufficiente ma tale ultimo parametro non viene altrettanto espressamente riferito alla fase della quantificazione della corrispondente obbligazione. Appare però coerente interpretare la sentenza nel senso che da un lato, l’assegno divorzile spetterà al coniuge richiedente qualora questi non abbia risorse tali da rendersi autosufficiente e, dall’altro, che la quantificazione dello stesso dovrebbe essere tale da permettere al coniuge debole, dato il suo patrimonio personale insufficiente, di colmare il gap economico fino a permettergli l’autosufficienza.
4. Va peraltro segnalato come la Sentenza della Corte di cassazione 10 maggio 2017, n. 11504 fondi le proprie considerazioni sulla incompatibilità del divorzio rispetto ad una assegno divorzile basato sulla conservazione del medesimo tenore di vita goduto durante il matrimonio ormai dissolto. Tutto ciò lascia pensare che le considerazioni sopra riportate possano trovare una concreta applicazione esclusivamente nei casi di assegno divorzile e non, al contrario, nelle ipotesi di assegno di mantenimento dovuto dal coniuge forte in caso di separazione coniugale.
In tale ultimo caso, infatti, la crisi coniugale passa attraverso un sensibile ridimensionamento dei doveri coniugali ma non determina lo scioglimento del matrimonio e, con esso, quello relativo al dovere di rispettare la solidarietà fra i coniugi. Il fatto che la separazione coniugale sia ontologicamente funzionale ad una ricostituzione del vincolo attraverso la riconciliazione sembra elemento sufficiente a permettere, in tali circostanze, una diversa individuazione degli elementi che legittimano astrattamente un soggetto a percepire un assegno di mantenimento e, ovviamente, alla sua concreta quantificazione.
Il dubbio viene confermato da una recentissima sentenza della stessa Corte di cassazione che in data 16 maggio 2017- e, quindi, a pochi giorni dal precedente arresto -, emette la sentenza n. 12196. In tale sentenza, che cita al suo interno la precedente Sentenza n. 11504/2017, viene effettuata espressamente la suddetta distinzione ribadendo come la permanenza di un vincolo coniugale, pur se in uno stato di crisi, impone di quantificare l’assegno di mantenimento in sede di separazione in relazione al tenore di vita goduto dalla coppia in assenza di conflitto. Ciò che sembra prospettarsi, alla luce delle due recenti pronunce, è una distinta declinazione della solidarietà a seconda che la stessa sia qualificabile come “coniugale” – cosa che accade nella separazione – o “post-coniugale” – come nel divorzio -.
Se la “solidarietà coniugale” impone sotto il profilo economico l’obbligo per il coniuge forte di garantire all’altro lo stesso tenore di vita, la “solidarietà post-coniugale” limiterebbe tale responsabilità patrimoniale al solo obbligo di garantire all’ex coniuge che si trovi in una situazione di debolezza quanto necessario per consentirgli una vita autonoma ed autosufficiente.
5. I recenti orientamenti giurisprudenziali sembrano, quindi, iniziare a tracciare delle nuove linee guida su cui l’interprete dovrebbe muoversi. Salvo ovviamente il verificare la concreta reazione dei giudici di merito alle stesse, sembra evidente un netto cambio di impostazione volto a distinguere con decisione la posizione di debolezza del coniuge separato rispetto a quella del coniuge divorziato.
Va tuttavia segnalato come anche il fatto di far riferimento, nel caso dell’assegno divorzile, alla necessità di garantire l’autosufficienza potrebbe determinare distinte interpretazioni da parte dei giudici che potrebbero da un lato portare a un sacrificio eccessivo della posizione del coniuge c.d. debole e, dall’altro, frustrare l’obiettivo perseguito dalla Corte di cassazione citata rintracciabile nella necessità di ridimensionare l’impegno economico dell’ex coniuge in caso di divorzio.
Sotto il primo profilo, infatti, appare evidente come l’assegno divorzile giunga ad approssimarsi in maniera sempre più netta ad una prestazione quasi di natura alimentare che rischia di penalizzare il coniuge che, dopo essersi dedicato per anni alla vita familiare, decida di porre fine al vincolo esercitando una libera scelta. A tale soluzione si dovrebbe giungere ove il concetto di “indipendenza economica” non venga parametrato a dati esterni ma solo ed esclusivamente a quanto necessario per sostenersi dignitosamente.
Per quanto concerne il secondo profilo, anche il fatto di ancorare l’assegno divorzile al concetto di “indipendenza economica” potrebbe comunque portare giudici, anche alla luce dell’esigenza di evitare un eccessivo avvicinamento fra l’assegno divorzile ed un prestazione alimentare, a differenziare la quantificazione dell’assegno in funzione dell’abituale maniera di vivere del coniuge debole. Anche la “indipendenza economica” potrebbe infatti essere interpretato come un concetto relazionale influenzabile dalla qualità della vita di cui un soggetto è abituato a godere. Garantire l’indipendenza economica in relazione ad una vita umile comporterà l’attribuzione di un assegno meno sostanzioso; garantire la stessa indipendenza parametrandola in ragione di una vita maggiormente agiata comporterà necessariamente una quantificazione più consistente dell’assegno. Se così dovesse essere, non sembra che vi sia molto di nuovo sotto la luce del sole dal momento che si tornerebbe, di fatto, ad una quantificazione dell’assegno divorzile in funzione del “tenore di vita” dal quale i giudici della cassazione hanno tentato, da ultimo, di allontanarsi.
Quello che invece sembra mancare, e di cui forse si avrebbe bisogno, è una interpretazione maggiormente attenta del principio di solidarietà sia esso “coniugale” che “post-coniugale”. La solidarietà, che sicuramente deve permanere anche di fronte ad una crisi familiare, deve però essere valorizzata come principio bidirezionale e non unidirezionale. Sembra, al contrario, che il rispetto di tale principio venga richiesto esclusivamente al coniuge forte quando invece, come pare evidente, lo stesso coniuge debole dovrà sopportare eventuali trattamenti economici deteriori rispetto a quelli goduti in costanza di convivenza pacifica proprio per il vincolo di solidarietà che lo lega ancora al coniuge forte.
Tanto la separazione quanto il divorzio creano una nuova realtà che richiede ad entrambi i coniugi di essere reciprocamente solidali. In questa circostanza spetta al giudice bilanciare attentamente le reciproche posizioni parametrando l’an ed il quantum dell’assegno alla situazione concreta ed all’effettiva possibilità per i coniugi di continuare a dare un contributo ragionevolmente proporzionato alla situazione di fatto nella quale si trovano.
Autor: Giovanni Berti de Marinis
Ricercatore di Diritto privato, Università degli Studi di Perugia, Italia
Accedere alla Sentenza 10 maggio 2017, n. 11504
1. Le conseguenze economiche che derivano dalla cessazione degli effetti civili del matrimonio sono state sempre al centro di un forte dibattito nella dottrina e nella giurisprudenza italiana. Il tema dell’assegno divorzile, disciplinato dall’art. 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970, coinvolge infatti una molteplicità di problematiche connesse, in particolare, all’individuazione dei presupposti di fatto che legittimano il coniuge c.d. debole ad ottenere il beneficio economico e, ovviamente, alla sua quantificazione.
Ai sensi della disposizione sopra richiamata, il giudice “dispone, tenuto conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, l’obbligo per uno dei coniugi di somministrare a favore dell’altro periodicamente un assegno in proporzione alle proprie sostanze e ai propri redditi. Nella determinazione di tale assegno il giudice tiene conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in un’unica soluzione”.
Se tale disposizione fissa i caratteri generali che deve avere l’assegno divorzile, non fornisce solide basi all’interprete nell’individuare quando la posizione economica di uno dei coniugi possa essere definita come “debole” e, quindi, quando lo stesso si trovi in una situazione tale da poter pretendere l’assegno dal coniuge c.d. forte. Allo stesso modo, poi, non si evincono chiari indici che possano guidare l’interprete verso l’individuazione dell’esatta quantificazione dell’assegno divorzile.
2. Le due problematiche, chiaramente interconnesse, hanno occupato la giurisprudenza che si era attestata su un orientamento consolidato secondo il quale il termine di paragone per verificare la sussistenza del diritto all’assegno divorzile e la sua quantificazione doveva essere individuato nel “tenore di vita” potenziale di cui la coppia di coniugi avrebbe potuto godere in assenza del divorzio. Sulla scorta del medesimo parametro, poi, doveva essere quantificato l’ammontare dell’assegno da calcolare in misura tale da permettere al coniuge debole di mantenere lo stesso “tenore di vita” goduto in costanza di matrimonio.
Tale orientamento, che trova la sua più autorevole espressione nella Sentenza Cass., Sez. un., 29 novembre 1990, n. 11490, è stato successivamente ripreso – forse un po’ acriticamente – dalle successive pronunce di merito e di legittimità che hanno contribuito a formare un “diritto vivente” che vedeva proprio nel “tenore di vita” il parametro di riferimento in funzione del quale verificare sia l’an che il quantum dell’assegno (in questo senso, Cass., 21 ottobre 2013, n. 23797; Cass. 29 settembre 2016, n. 19339).
Di fronte a tale stato di fatto la dottrina si è posta con toni abbastanza critici facendo notare come una applicazione poco elastica dei principi sopra brevemente esposti aveva di fatto portato a quantificazioni dell’assegno divorzile eccessive e, come tali, pregiudizievoli per il coniuge forte che sovente veniva privato di risorse che ingiustificatamente venivano poste a disposizione dell’altro. Un orientamento che, sovente, determinava l’instaurarsi di rendite parassitarie in favore del c.d. coniuge debole.
Proprio la ricorrenza di tali fatti indusse il Tribunale di Firenze (Ordinanza del 22 maggio 2013) a sollevare questione di costituzionalità delle disposizioni richiamate nell’interpretazione consolidata che alle stesse veniva data dall’unanime giurisprudenza. I profili di incostituzionalità venivano individuati da parte del Giudice rimettente nel presunto contrasto di tale regolamentazione con l’art. 2 Cost. in quanto determina un erroneo bilanciamento dei valori in gioco proteggendo eccessivamente il coniuge debole a discapito del coniuge c.d. forte, nonché con gli artt. 3 e 29 Cost. nella misura in cui lo stesso orientamento lede il principio di uguaglianza fra i coniugi.
La Corte costituzionale italiana, sollecitata dall’ordinanza in parola, ha però rigettato la questione di costituzionalità con Sentenza 11 febbraio 2015, n. 11. Tale arresto del Giudice delle leggi si fonda sulla considerazione per cui il “tenore di vita”, pur rappresentando il parametro principale al fine di verificare la spettanza del diritto all’assegno e la sua quantificazione, non rappresenta l’unico parametro che il giudice può utilizzare al fine di pervenire ad una corretta determinazione del sua ammontare. Il giudice, infatti, potrà ridimensionare l’importo dell’assegno in funzione dei rispettivi patrimoni dei coniugi, della durata del matrimonio, degli apporti personali che ciascuno dei coniugi ha dato alla vita della famiglia ecc.
Tale autorevole pronuncia aveva avuto l’effetto di confermare ulteriormente l’interpretazione portata avanti dalla giurisprudenza ordinaria e sembrava, di fatto, aver chiuso completamente qualunque ulteriore possibilità di distaccarsi dalla stessa.
3. In questo quadro caratterizzato da una certa staticità, è recentemente intervenuta la Corte di cassazione con la Sentenza 10 maggio 2017, n. 11504 che, contrastando l’orientamento dominante, tenta una nuova ricostruzione delle disposizioni in tema di assegno divorzile. Evidenzia in particolare tale sentenza come il divorzio, anche nelle finalità che allo stesso vengono assegnate dal legislatore, sia istituto volto a creare una realtà completamente nuova attraverso lo scioglimento di un matrimonio che, per effetto della volontà responsabile dei soggetti coinvolti, cessa definitivamente di esistere. In tale contesto, ogni tentativo di prolungare nel tempo diritti e doveri che trovavano la loro fonte proprio nel vincolo ormai dissolto, si pone in completo contrasto con la ratio dell’istituto. Ancorare l’an ed il quantum dell’assegno divorzile al “tenore di vita” di cui la coppia godeva in costanza di matrimonio avrebbe l’effetto di determinare che, pur sotto un profilo meramente economico, continuino a perpetrarsi gli effetti dell’ormai cessato vincolo matrimoniale.
Tale convinzione espressa dal giudice viene poi a trovare ulteriore conferma nell’evoluzione sociale che il matrimonio ha evidentemente subito. In questo senso, infatti, assumono una rilevanza quantitativa sempre più marginale quelle strutture familiari caratterizzate dalla totale rinuncia di una delle parti (normalmente la moglie) a svolgere forme di lavoro esterno retribuito al fine di dedicarsi ai lavori di casa con beneficio per l’intera famiglia. L’accesso maggiormente diffuso al mercato del lavoro da parte delle donne ha reso, a parere dei giudici, del tutto inattuale il fatto di continuare a scaricare integralmente il costo della crisi sul coniuge c.d. forte.
Il fatto che il matrimonio – come pure la sua crisi – si fondi su scelte caratterizzate dalla piena ed integrale autoresponsabilità di soggetti pienamente consapevoli e maturi, impone di evitare la creazione di rendite parassitarie che sovente vedevano costretti i coniugi forti a sostenere vita natural durante i rispettivi coniugi deboli che si adagiavano su uno stato di benessere che risultava, sciolto il matrimonio, garantito da parte di un soggetto divenuto ormai totalmente estraneo.
Con ciò, ovviamente, i giudici non vogliono affermare che il coniuge debole non abbia diritto a forme di sostentamento ma, più semplicemente, che tale diritto e la sua relativa quantificazione economica non possa dipendere dal tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Nel tentativo di individuare un distinto parametro su cui verificare la spettanza del diritto all’assegno e la sua quantificazione i Giudici, facendo riferimento a quanto disposto dall’art. 337 septies, comma 1, c.c. in tema di mantenimento dei figli maggiorenni, hanno ritenuto opportuno ancorare tali valutazioni al parametro della “indipendenza economica” del coniuge debole. Sarà dunque proprio in relazione a tale fattore che si dovrà valorizzare l’assegno divorzile.
Sotto tale profilo, in realtà, la Corte di cassazione fa espresso riferimento al parametro della “indipendenza economica” esclusivamente in relazione all’individuazione dell’an. Afferma cioè chiaramente che l’assegno divorzile spetterà esclusivamente al coniuge che non sia economicamente autosufficiente ma tale ultimo parametro non viene altrettanto espressamente riferito alla fase della quantificazione della corrispondente obbligazione. Appare però coerente interpretare la sentenza nel senso che da un lato, l’assegno divorzile spetterà al coniuge richiedente qualora questi non abbia risorse tali da rendersi autosufficiente e, dall’altro, che la quantificazione dello stesso dovrebbe essere tale da permettere al coniuge debole, dato il suo patrimonio personale insufficiente, di colmare il gap economico fino a permettergli l’autosufficienza.
4. Va peraltro segnalato come la Sentenza della Corte di cassazione 10 maggio 2017, n. 11504 fondi le proprie considerazioni sulla incompatibilità del divorzio rispetto ad una assegno divorzile basato sulla conservazione del medesimo tenore di vita goduto durante il matrimonio ormai dissolto. Tutto ciò lascia pensare che le considerazioni sopra riportate possano trovare una concreta applicazione esclusivamente nei casi di assegno divorzile e non, al contrario, nelle ipotesi di assegno di mantenimento dovuto dal coniuge forte in caso di separazione coniugale.
In tale ultimo caso, infatti, la crisi coniugale passa attraverso un sensibile ridimensionamento dei doveri coniugali ma non determina lo scioglimento del matrimonio e, con esso, quello relativo al dovere di rispettare la solidarietà fra i coniugi. Il fatto che la separazione coniugale sia ontologicamente funzionale ad una ricostituzione del vincolo attraverso la riconciliazione sembra elemento sufficiente a permettere, in tali circostanze, una diversa individuazione degli elementi che legittimano astrattamente un soggetto a percepire un assegno di mantenimento e, ovviamente, alla sua concreta quantificazione.
Il dubbio viene confermato da una recentissima sentenza della stessa Corte di cassazione che in data 16 maggio 2017- e, quindi, a pochi giorni dal precedente arresto -, emette la sentenza n. 12196. In tale sentenza, che cita al suo interno la precedente Sentenza n. 11504/2017, viene effettuata espressamente la suddetta distinzione ribadendo come la permanenza di un vincolo coniugale, pur se in uno stato di crisi, impone di quantificare l’assegno di mantenimento in sede di separazione in relazione al tenore di vita goduto dalla coppia in assenza di conflitto. Ciò che sembra prospettarsi, alla luce delle due recenti pronunce, è una distinta declinazione della solidarietà a seconda che la stessa sia qualificabile come “coniugale” – cosa che accade nella separazione – o “post-coniugale” – come nel divorzio -.
Se la “solidarietà coniugale” impone sotto il profilo economico l’obbligo per il coniuge forte di garantire all’altro lo stesso tenore di vita, la “solidarietà post-coniugale” limiterebbe tale responsabilità patrimoniale al solo obbligo di garantire all’ex coniuge che si trovi in una situazione di debolezza quanto necessario per consentirgli una vita autonoma ed autosufficiente.
5. I recenti orientamenti giurisprudenziali sembrano, quindi, iniziare a tracciare delle nuove linee guida su cui l’interprete dovrebbe muoversi. Salvo ovviamente il verificare la concreta reazione dei giudici di merito alle stesse, sembra evidente un netto cambio di impostazione volto a distinguere con decisione la posizione di debolezza del coniuge separato rispetto a quella del coniuge divorziato.
Va tuttavia segnalato come anche il fatto di far riferimento, nel caso dell’assegno divorzile, alla necessità di garantire l’autosufficienza potrebbe determinare distinte interpretazioni da parte dei giudici che potrebbero da un lato portare a un sacrificio eccessivo della posizione del coniuge c.d. debole e, dall’altro, frustrare l’obiettivo perseguito dalla Corte di cassazione citata rintracciabile nella necessità di ridimensionare l’impegno economico dell’ex coniuge in caso di divorzio.
Sotto il primo profilo, infatti, appare evidente come l’assegno divorzile giunga ad approssimarsi in maniera sempre più netta ad una prestazione quasi di natura alimentare che rischia di penalizzare il coniuge che, dopo essersi dedicato per anni alla vita familiare, decida di porre fine al vincolo esercitando una libera scelta. A tale soluzione si dovrebbe giungere ove il concetto di “indipendenza economica” non venga parametrato a dati esterni ma solo ed esclusivamente a quanto necessario per sostenersi dignitosamente.
Per quanto concerne il secondo profilo, anche il fatto di ancorare l’assegno divorzile al concetto di “indipendenza economica” potrebbe comunque portare giudici, anche alla luce dell’esigenza di evitare un eccessivo avvicinamento fra l’assegno divorzile ed un prestazione alimentare, a differenziare la quantificazione dell’assegno in funzione dell’abituale maniera di vivere del coniuge debole. Anche la “indipendenza economica” potrebbe infatti essere interpretato come un concetto relazionale influenzabile dalla qualità della vita di cui un soggetto è abituato a godere. Garantire l’indipendenza economica in relazione ad una vita umile comporterà l’attribuzione di un assegno meno sostanzioso; garantire la stessa indipendenza parametrandola in ragione di una vita maggiormente agiata comporterà necessariamente una quantificazione più consistente dell’assegno. Se così dovesse essere, non sembra che vi sia molto di nuovo sotto la luce del sole dal momento che si tornerebbe, di fatto, ad una quantificazione dell’assegno divorzile in funzione del “tenore di vita” dal quale i giudici della cassazione hanno tentato, da ultimo, di allontanarsi.
Quello che invece sembra mancare, e di cui forse si avrebbe bisogno, è una interpretazione maggiormente attenta del principio di solidarietà sia esso “coniugale” che “post-coniugale”. La solidarietà, che sicuramente deve permanere anche di fronte ad una crisi familiare, deve però essere valorizzata come principio bidirezionale e non unidirezionale. Sembra, al contrario, che il rispetto di tale principio venga richiesto esclusivamente al coniuge forte quando invece, come pare evidente, lo stesso coniuge debole dovrà sopportare eventuali trattamenti economici deteriori rispetto a quelli goduti in costanza di convivenza pacifica proprio per il vincolo di solidarietà che lo lega ancora al coniuge forte.
Tanto la separazione quanto il divorzio creano una nuova realtà che richiede ad entrambi i coniugi di essere reciprocamente solidali. In questa circostanza spetta al giudice bilanciare attentamente le reciproche posizioni parametrando l’an ed il quantum dell’assegno alla situazione concreta ed all’effettiva possibilità per i coniugi di continuare a dare un contributo ragionevolmente proporzionato alla situazione di fatto nella quale si trovano.
Autor: Giovanni Berti de Marinis
Ricercatore di Diritto privato, Università degli Studi di Perugia, Italia
Accedere alla Sentenza 10 maggio 2017, n. 11504