Pandemia e contratto. Alcune proposte per il contenimento dell’incertezza

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Autor: Edoardo Ferrante, Associato di diritto privato dell’Università di Torino. Correo electrónico: edoardo.ferrante@unito.it

1. L’emergenza in atto sembra rendere ogni domanda più scoperta, spogliare ogni problema dei suoi filtri, parlare direttamente allo spirito dell’interprete. Alle prese con una realtà naturale e sociale improvvisamente mutata, egli è nudo dinanzi all’enormità del fatto. La pandemia è pur sempre un fatto, ma assai diverso da tutti gli altri per quantità e qualità, una repentina e radicale metamorfosi dell’io e del noi: sospensione, paura, abbandono. La vita è sospesa perché la pandemia ha creato un non-tempo e un non-luogo, sicché il “dopo”, a volerlo immaginare, pare più un ritorno al passato che non un procedere verso il futuro; paura perché il nemico è invisibile e sconosciuto, terrore del contagio ma anche delle conseguenze economico-sociali, ancora incalcolabili ma sicuramente gravi; abbandono perché sembra che ognuno debba salvarsi da solo, che la politica, il welfare, il prossimo possano troppo poco (e cade l’illusione “di rimanere sempre sani in un mondo malato”: così Papa Francesco il 27 marzo 2020, https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2020-03/papa-francesco-omelia-testo-integrale-preghiera-pandemia.html). Il distanziamento sociale imposto dalle misure di prevenzione dà riscontro visivo a queste sensazioni negative e le ingigantisce (CARDINI, F.: “Il potere e l’emergenza”, in https://www.ariannaeditrice.it/articoli/il-potere-e-l-emergenza), anche se non mancano sorprendenti appelli alla normalità o alla normalizzazione (come la recente “Lettera aperta al Presidente del Consiglio”, https://generazionifuture.org/bacheca/lettera_aperta.php).

Tutto ciò parla all’interprete senza fronzoli né tecnicismi, lo interroga perché dia risposte altrettanto scoperte, lo mette faccia a faccia con l’enormità naturale e sociale della pandemia.

Ecco che la sua reazione dev’essere proporzionata, i suoi arnesi numerosi ed incisivi, il metodo perfettamente commisurato alla materia (per tutti, PERLINGIERI, P.: “Colloquio su [Scienza del] Diritto e Legalità costituzionale. Intervista a Pietro Perlingieri [Napoli, 27 giugno 2017]”, in Rass. dir. civ., 2017, pp. 1130 ss., in particolare pp. 1172-1173). Se quest’esigenza è condivisa, si conceda alla pandemia il rango che le spetta, vale a dire quello di fonte-fatto, muta sì ed informale, ma pur sempre fonte (ORLANDI, M.: “Forza normativa della descrizione”, in AAVV.: Giurisprudenza per principi e autonomia privata (a cura di S. MAZZAMUTO e L. NIVARRA), Torino, 2016, pp. 176-177 e 179 ss.; tema sterminato: SACCO, R.: “Il processo ermeneutico”, in ALPA, G., GUARNERI, A., MONATERI, P.G., PASCUZZI, G. e SACCO, R., Le fonti del diritto italiano. 2. Le fonti non scritte e l’interpretazione, in Tratt. dir. civ. diretto da Sacco, Torino, 1999, pp. 243 ss.). A meno di non ripetere, col “legismo” tramontato del secolo scorso, che fonte è solo ciò che compare nella gerarchia istituzionale degli atti normativi o che non c’è fonte senza scrittura o senza mediazione politica (approccio desueto, come denuncia PERLINGIERI, G.: Portalis e i «miti» della certezza del diritto e della c.d. «crisi» della fattispecie, Napoli, 2018, p. 23 ss.).

La pandemia è fonte perché attraverso la lente dell’interprete induce omissio medio alla costruzione di norme, che devono amalgamarsi col resto ma non mancano per questo d’innovare l’ordinamento. Ebbene, che cosa deve restituire la lente dell’interprete una volta posata sulla fonte-pandemia? Regole capaci di governare la transizione riempiendo il tempo sospeso, attutendo la (possibile) degenerazione del vivere associato e dell’economia, avvicinando i soggetti malgrado il distanziamento sociale. E qui spicca il diritto privato, custode della continuità dei rapporti, che vivono e crescono comunque, anche nella catastrofe, anche nella pandemia.

Le pagine che seguono sono dedicate a qualche proposta in tema di contratto. Per ragioni di brevità il discorso punterà alla parte generale, dove la fonte-pandemia può dispiegarsi in tutta la sua ampiezza e profondità. Un primo gruppo di proposte attiene al contratto stipulato nel corso dell’emergenza, altro gruppo al contratto preesistente ma destinato ad essere eseguito durante la crisi.

Per l’attuale emergenza sanitaria da Covid-19 questa linea di demarcazione può coincidere con la dichiarazione ufficiale di pandemia resa dal Direttore Generale dell’OMS il giorno 11 marzo 2020 (https://www.who.int/dg/speeches/detail/who-director-general-s-opening-remarks-at-the-media-briefing-on-covid-19—11-march-2020). Altrettanto stipulativamente l’emergenza potrà dirsi conclusa quando l’OMS riterrà di pronunciare una contro-dichiarazione di esaurimento del fenomeno. Inizio e fine della pandemia segnano come una parentesi entro cui collocare le proposte, le quali non hanno alcuna pretesa di valere per il “dopo”.

2. È quasi scontato muovere dalla buona fede oggettiva e trarvi qualche spunto utile alla ricucitura dello strappo. Meglio di qualsiasi altra norma la clausola generale mette in comunicazione diritto scritto e diritto “vivo”, ordine formale e ordine ancora informe (AA.VV.: Principi, clausole generali, argomentazione e fonti del diritto (a cura di F. RICCI), Milano, 2018). Guardando all’art. 1337 c.c., si provi a divaricare il ragionamento lungo i due distinti profili del negoziato e del procedimento di conclusione del contratto.

Quanto alla conclusione, la pandemia fa entrare nell’itinerario dell’accordo occasioni più numerose ed iniezioni più massicce di buona fede. Solo qualche esempio.

La proposta dovrebbe stimarsi in linea di principio irrevocabile, per lo meno quando caratterizzata dall’assegnazione di un termine per accettare. In tempi ordinari il dato non è predicabile ed anzi la lettera di legge lascia intendere il contrario: l’irrevocabilità è subordinata dall’art. 1329, comma 1, c.c. ad un’espressa rinuncia alla facoltà di revoca, anche in forma non sacramentale – rectius all’obbligo di “mantenere ferma la proposta per un certo tempo” –, mentre la pura fissazione di un termine è resa compatibile dall’art. 1326, comma 2, c.c. con la revocabilità della proposta (Cass. 11 gennaio 1990 n. 41, in Corr. giur., 1990, pp. 842 ss.). Se dunque occorre un termine perché la proposta divenga irrevocabile – ma non è pacifico (BENEDETTI, A.M.: Autonomia privata procedimentale, Torino, 2002, pp. 120 ss.) –, non tutte le proposte a termine potrebbero dirsi, per ciò stesso, irrevocabili. Regole dibattute già in linea generale, ma che divengono irragionevoli in caso di contratto perfezionato durante la pandemia.

L’aspirazione alla maggiore sicurezza del traffico, alla rafforzata comprensione reciproca, al più saldo affidamento in contesti comunicativi ed emotivi disagiati, in poche parole alla buona fede, depongono a favore di un délai moral, per lo meno quando la proposta contenga un termine per l’accettazione o abbia altrimenti indotto l’oblato a confidare senza colpa nella sua stabilità (e i modelli non mancano, come l’art. 16, § 2, della Convenzione di Vienna e l’art. 32, comma 3, lett. b e c, CESL: già HENRICH, D.: “Unwiderrufliches Angebot und Optionsvertrag.

Eine rechtsvergleichende Betrachtung”, AA.VV.: Rechtsgeschichte und Privatrechtsdogmatik (a cura di ZIMMERMANN, KNÜTEL, MEINCKE), Heidelberg, 1999, pp. 210 ss.; e poi FERRANTE, E.: La vendita nell’unità del sistema ordinamentale, Napoli, 2018, pp. 171 ss.).

Detto altrimenti in tempo di pandemia la proposta si presume negozio di configurazione, anche quando occorra forzare moderatamente la volontà del proponente per salvaguardare appieno l’affidamento dell’oblato. D’altro canto l’emergenza sanitaria ha fatto esplodere il commercio elettronico, ove la revoca della proposta (così come dell’accettazione) è senz’altro “vietata” per ragioni tecniche – ancora dominanza della τέχνη (IRTI, N.: “Destino di Nomos”, in CACCIARI, M. e IRTI, N.: Elogio del diritto, Milano, 2019, pp. 126-129) –, un contrarre inibito da assetti materiali inconciliabili col mutamento di vedute.

Come noto se la proposta è a termine e l’accettazione tardiva, il contratto non è concluso, a meno che il proponente non ritenga efficace pure l’accettazione tardiva e ne dia immediato avviso a controparte (art. 1326, comma 3, c.c.). Ora, posto che in temperie pandemica la proposta a termine deve sempre stimarsi irrevocabile, buona fede vuole che la tardività dell’accettazione sia sempre seguìta da un avviso del proponente: o per comunicare all’oblato che il contratto è concluso malgrado il ritardo; o per confermare che il ritardo ha impedito al contratto di formarsi.

Il dialogo, l’interazione, lo scambio informativo fra le parti si fanno disagevoli, l’indugio nel dichiarare può facilmente dipendere da circostanze impellenti ed ingovernabili, dal cattivo funzionamento dei mezzi di comunicazione e trasporto ma ancor prima dal caos organizzativo che investe l’impresa e la persona. La fonte-pandemia, mediata dalla buona fede in contrahendo, ìncita il proponente a “parlar chiaro”, sia quando voglia fare propria l’accettazione tardiva, sia quando preferisca confermarne il definitivo rigetto.

Discorso analogo varrà per l’asimmetria della forma, cui allude l’art. 1326, comma 4, c.c. Se la proposta richiede una forma determinata per l’accettazione e questa giunge al proponente in una forma diversa, il proponente medesimo dovrà comunque esprimersi, sia quando reputi di fare propria l’accettazione carente di forma, cosa che non può rimanere sottaciuta (per analogia a quanto prescritto dall’art. 1326, comma 3, c.c.), sia quando occorra attestare a controparte l’inconcludenza dell’accettazione per ragioni di forma. La pandemia esige una parola in più, in un senso o nell’altro, per rimuovere dubbi che in contesti fisiologici possono tollerarsi ma che nell’emergenza devono sparire una volta per tutte.

Qualche esempio può riguardare anche i metodi semplificati di conclusione, vale a dire l’esecuzione prima della risposta dell’accettante ex art. 1327 c.c. ed il silenzio-assenso impersonato dall’art. 1333 c.c.

I presupposti alternativi dell’accettazione semplificata, vale a dire richiesta del proponente, natura dell’affare ed usi, dovrebbero ridursi a due: per ovviare alla loro caratteristica indeterminatezza, la richiesta del proponente dovrebbe ammettersi soltanto quando in linea con la natura dell’affare o con gli usi (in tale direzione, cautamente, SACCO, R.: in SACCO R. e DE NOVA, G.: Il contratto, Milano, 2016, pp. 306-307); detto diversamente, la fonte-pandemia sconsiglia richieste “a sorpresa”, formulate quando natura dell’affare ed usi non legittimino già a priori l’applicazione dell’art. 1327 c.c. La richiesta servirebbe allora a garantire che il contratto può realmente concludersi in forma semplificata, non ad includere ipotesi estranee. Resta fermo che quando l’oblato, anziché eseguire senza preventiva risposta, renda un’accettazione espressa, il contratto dovrà dirsi comunque concluso, se non in forza dell’art. 1327 c.c., certamente in forza dell’art. 1326 c.c. (e questo varrà a maggior ragione quando non vi sia stata alcuna richiesta: Cass., 9 giugno 1997, n. 5139; ROPPO, V.: Il contratto, in Trattato di diritto privato a cura di IUDICA e ZATTI, Milano, 1a ed., 2001, p. 122). Comportamenti cavillosi e di comodo in tempo di pandemia sono ancor meno accettabili.

Infine – ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi – un apporto chiarificatore deve cadere sull’art. 1333 c.c. È ben vero che nei contratti unilaterali alla chiusura dell’itinerario basta l’inerzia dell’oblato, ma la fonte-pandemia consiglia che questi rompa quanto prima l’indugio esplicitando la sua volontà di non rifiutare. Nell’ipotesi corrente della fideiussione bancaria la banca ha un onere positivo di reagire, per evitare che l’instaurazione del rapporto resti sospesa come sospeso è il non-tempo dell’emergenza: non un’accettazione tecnicamente intesa, che renderebbe lo schema indistinguibile da quello base ex art. 1326, comma 1, c.c., ma un obbligo di pronto avviso, simile a quello disposto dall’art. 1327, comma 2, c.c.

Queste dosi aggiuntive di correttezza nella formazione del vincolo presidiano l’interesse bilaterale ad una maggiore certezza sull’an e sul quomodo dell’accordo, in risposta all’incertezza recata dall’emergenza sanitaria; regole minute che da sole non bastano, ma che coadiuvano la pratica degli affari agevolando e definendo il buon esito del negoziato. Nell’ipotesi di loro violazione, segnatamente quando il contratto si riveli non concluso, si profilerà una responsabilità da mancato avviso riconducibile allo schema dell’art. 1327, comma 2, c.c.; una responsabilità non tanto “pre-” quanto piuttosto “trans-contrattuale”, perché chiamata a coprire fatti collocabili a monte e a valle della stipulazione.

D’altro canto un sensibile alleggerimento meriterebbe, su di un piano più trasversale, la regola di specularità perfetta tra proposta ed accettazione ex art. 1326, comma 5, c.c.: il contratto dovrebbe darsi per concluso quando la conformità copra il nucleo centrale delle dichiarazioni, rimanendo ininfluenti discrepanze marginali o virtuali, spesso fatte valere a bella posta in epoca successiva alla stipulazione o persino dopo l’esecuzione (e i modelli non mancano, come l’art. 19 della Convenzione di Vienna e l’art. 38, comma 3, CESL: BAYERN, S.J.: “The Nature and Timing of Contract Formation”, in AA.VV.: Comparative Contract Law: British and American Perspectives (a cura di L. DI MATTEO e M. HOGG), Oxford, 2015, in particolare pp. 77 ss.; qualche apertura in Cass., 8 febbraio 2006, n. 2676). Sennonché l’attenuazione della regola di conformità piena è desiderabile a prescindere dall’emergenza, sicché pare fuorviante trattarne ora.

3. Quanto invece al negoziato – ovviamente per quei contratti che lo richiedano – la pandemia impone un obbligo di trasparenza assoluta. Si prescinda in questa sede dai doveri informativi previsti in gran copia dalla legislazione speciale e dai codici di settore (GALLO, P.: “Il contratto”, in GALLO, P.: Trattato di diritto civile, V, Torino, 2017, pp. 304 ss. e 320 ss.), e si prenda in carico la sola parte generale incardinata nell’art. 1337 c.c.

Evidentemente le informazioni che una parte deve all’altra secondo correttezza, perché anche l’altra giunga ad un consenso pieno e maturo, dipendono dalla concretizzazione della clausola generale, dalla separazione di ciò che in buona fede occorre dire da ciò che in buona fede è lecito tacere (SACCO, R.: Il contratto, cit., pp. 545 ss.; BETTI, E: Teoria generale del negozio giuridico, Napoli, 1994 [rist.], pp. 447-448; e BIGIAVI, W.: “Dolo e «sorpresa» nell’imputazione dei pagamenti”, in Riv. dir. civ., 1970, I, pp. 81 ss. e in particolare pp. 89 ss.): si tratta cioè di selezionare informazioni dovute e non, sulla base di un precetto elastico, consegnato all’interprete perché giunga a soluzioni equidistanti. Non tutto si deve dire, non tutto si può tacere (in questi termini GALGANO, F.: Diritto civile e commerciale, vol. II, Le obbligazioni e i contratti, t. 1°, Obbligazioni in generale. Contratti in generale, Padova, 2004, pp. 400-401, sulla scia di VISINTINI, G.: La reticenza nella formazione dei contratti, Padova, 1972, pp. 97-98 e 133 ss.; di recente GALLO, P.: “Il contratto”, cit., pp. 289-291; e COPPO, L.: Contract As a Tool for Getting-To-Yes: A Civil Law Perspective, Napoli, 2018, in particolare pp. 73 ss.).

Nel regolamento di questo confine entrano in gioco valutazioni di medio-lungo periodo (PERLINGIERI P.: “L’informazione come bene giuridico”, in Rass. dir. civ., 1990, pp. 326 ss.; AA.VV.: Information Rights and Ob¬li¬¬gations (a cura di G. HOWELLS, A. JANSSEN, SCHULZE), London, 2005): l’informazione è davvero essenziale per i progetti imprenditoriali o personali di chi ne è privo? La sua rivelazione frustra investimenti specifici di chi la possiede, al punto da disincentivarne, in prospettiva, la stessa ricerca? Comunicare il dato può segnare il fallimento della trattativa? Pare che questi scrupoli – comprensibili (celebre KRONMAN, A.T.: “Mistake, Duty of Disclosure, Information and Law of Contracts”, in J. of Leg. Stud., 1978, pp. 4 ss.; e WOLF, M.: “Party Autonomy and Information in the Unfair Contract Terms Directive”, in AA.VV.: Party Autonomy and the Role of Information in the Internal Market (a cura di S. GRUNDMANN, W. KERBER e S. WEATHERILL), Berlin-New York, 2001, in particolare pp. 319-324) – perdano qualsiasi rilievo nella fase pandemica. Con la sua dote di non-tempo e non-luogo, essa non lascia spazio a proiezioni, anche quando esse, in tempi normali, promettano risultati negativi. È invece il momento della disclosure, che sola contrasta sospensione, paura, abbandono.

Dunque, quand’anche una data informazione non sia esplicitamente richiesta, rientri nel pubblico dominio o presenti dubbia attinenza secondo le stime di parte – circostanze altrove rilevanti (PIRAINO, F.: La buona fede in senso oggettivo, Torino, 2015, pp. 333-334; e SACCO, R.: Il contratto, cit., pp. 551 ss.) –, in tempo di pandemia i contraenti devono scambiarsi il loro intero patrimonio informativo, sebbene questo in chiave macro-economica possa precostituire esiti subottimali (contraria, in genere, la giurisprudenza: Cass., 20 aprile 2006, n. 9253, in Giust. civ., 2007, I, pp. 1454 ss.; ma ci sono fermenti di segno diverso: Cass., 5 febbraio 2007, n. 2479, in Mass. Giur. it., 2007, c. 166, commentata da FERRANTE, E.: “Il dolo omissivo nella giurisprudenza: fine dell’esilio?”, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2008, pp. 317 ss.; e Cass., 26 aprile 2012, n. 6526, in Contratti, 2013, pp. 173 ss., con nota di DELLA NEGRA). La fonte-pandemia, integrativa del precetto di buona fede negoziale, esaspera la trasparenza perché all’incertezza del momento non si sommi l’incertezza del rapporto, il suo sottendere valutazioni imperfette perché viziate dall’ignoto (paternalismo forse, ma ragionevole: CATERINA, R.: “Paternalismo e antipaternalismo nel diritto privato”, in Riv. dir. civ., 2005, II, pp. 771 ss.).

Se poi a dispetto degli auspici permanga un’area d’opacità, fatti intenzionalmente taciuti, meglio un annullamento per dolo omissivo determinante (art. 1439 c.c.) od un risarcimento per dolo omissivo incidente (art. 1440 c.c.), che non un vincolo non voluto o non voluto nella conformazione data (Cass., 23 marzo 2016, n. 5762, in Nuova giur. civ. comm., 2016, I, pp. 1063 ss., con nota di SCAGLIONE; Cass., 29 marzo 1999, n. 2956, in Giur. it., 2000, pp. 1192 ss.; nella soft law significativo l’art. 3.2.5 dei Principi-Unidroit 2016; in dottrina AA.VV.: Informationspflichten und Vertragsschluss im Acquis communautaire (a cura di R. SCHULZE, M. EBERS e H.C. GRIGOLEIT), Tübingen, 2003, in particolare pp. 49-84 e pp. 245-290). Nel contratto concluso in tempo di pandemia nessun dolo può essere bonus.

Nei contratti per adesione invece, dove la buona fede nelle trattative neppure viene in rilievo e l’asimmetria cognitiva è la regola (RAKOFF, T.D.: “Contracts of adhesion: an essay in reconstruction”, in 96 Harvard L. Rev., 1983, pp. 1173 ss.), la trasparenza è già stata elevata ad elemento irrinunciabile e “sconfinato” (GRUNEWALD, B.: “Aufklärungspflichten ohne Grenzen?”, in AcP, 1990, pp. 609 ss.), sicché il pieno disvelarsi informativo non subisce particolari incrementi in caso di pandemia. Qui il rimedio prediletto non è l’annullamento per dolo omissivo, ma l’interpretazione contra proferentem dell’art. 1370 c.c. (o dell’art. 35, comma 2, c. cons.), tecnica che, se ben governata, rende superflua la ricerca d’altri percorsi (basti pensare alle recenti Corte di Giustizia UE, 26 febbraio 2015, causa C-143/13, Matei & Matei c. Volksbank, e Corte di Giustizia UE, 23 aprile 2015, causa C-96/14, van Hove c. CNP Assurances, a proposito delle quali FERRANTE, E.: “Transparency of Standard Terms as a Fundamental Right of European Law”, in AA.VV.: EU-Grundrechte und Privatrecht (a cura di C. HEIDERHOFF, S. LOHSSE, R. SCHULZE), Baden-Baden, 2016, pp. 115 ss.).

4. L’annullamento del contratto può dipendere più in radice da violenza morale, “anche se esercitata da un terzo”, precisa l’art. 1434 c.c. Ma qui la controparte o il terzo non agisce in circostanze abituali bensì nell’èra dell’allarme sociale, quasi uno stato di minaccia ambientale permanente, che esige una valutazione rigorosa del comportamento tenuto a scapito del minacciato. Quest’ultimo dev’essere sì “persona sensata”, ma avuto riguardo “all’età, al sesso e alla condizione”, dice l’art. 1435 c.c. Con pochi tratti il codice del ’42 ritaglia le categorie o stagioni della vulnerabilità, norme che tornano inaspettatamente in auge (cfr. già ALLARA, M.: “Dolo ed errore inescusabile” [nota ad App. Milano, 24 settembre 1930], in Foro Lombardia, 1931, cc. 875 ss. e in particolare c. 882): i caratteri della violenza pandemica sono diversi per l’anziano prima vittima del virus (la malattia fa più paura e più danni), per la donna prima vittima della crisi economico-sociale (il lavoro è meno sicuro e peggio retribuito, con l’aggravio dato dalla saturazione dello stato sociale) e anzitutto per il malato di Covid-19, la cui condizione di sofferenza psico-fisica e di forzato isolamento è stata finora tralasciata dall’opinione pubblica e dalla letteratura giuridica.

Insomma, la fonte-pandemia favorisce un pronto ricorso all’annullamento per violenza, quando il contratto sia stato stipulato dopo la dichiarazione dell’OMS sotto l’influsso della minaccia emergenziale sfruttata da controparte (anche involontariamente: MENGONI, L.: “«Metus causam dans» e «metus incidens»”, in Riv. dir. comm., 1952, I, pp. 26 ss.; d’altro canto MESSINEO, F.: Il contratto in genere, t. 2°, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu-Messineo, Milano, 1972, p. 367, personifica la “pressione politica” scaturente dall’occupazione bellica o dall’agire di un governo autoritario).

Nel soppesare l’influsso pandemico il codice invita a costruire sotto-categorie di soggetti compulsati dal morbo e dalle sue conseguenze, per differenziarne la tutela in base al grado di vulnerabilità (“secondo un criterio oggettivo ponderato, avuto riguardo cioè non alle reazioni che ha suscitate in concreto nella vittima, ma a quelle che era atta a suscitare in una persona normale, che si fosse trovata […] nelle stesse condizioni della vittima”: così SANTORO-PASSARELLI, F.: Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1966 [rist. 2012], p. 167; il punto tornerà centrale in prosieguo: infra, par. 6).

Nella stessa ottica la fonte-pandemia rivitalizza la rescissione, altro rimedio genetico che ben s’attaglia al contratto consentito durante l’emergenza (in tema, di recente, NAPOLI, G.: La rinnovata fisionomia della rescissione per lesione, Napoli, 2018, in particolare pp. 59 ss.); ed anche qui il “pericolo attuale”, il “danno grave alla persona” (art. 1447 c.c.) o lo “stato di bisogno” (art. 1448 c.c.) devono incontrare una rilettura orientata all’enormità del fatto. Se ne ricorrono gli ulteriori presupposti, la lesione sarà ultra dimidium a mente dell’art. 1448, comma 2, c.c. anche quando monetariamente inferiore alla soglia, perché a varcare questa soglia cospira l’inasprirsi del bisogno e la maggior spregevolezza etico-sociale di chi ne profitti. E ovviamente la lesione dovrà perdurare non “fino al tempo in cui la domanda è proposta” ex art. 1448, comma 3, c.c., bensì fino alla dichiarazione dell’OMS di chiusura della pandemia.

Deviazioni che si giustificano finché perduri l’emergenza e non un minuto di più (poiché l’emergenza deve rimanere tale, e non può costituire occasione per ripensare il sistema, come auspica MACARIO, F.: “Sopravvenienze e rimedi al tempo del ‘coronavirus’: interesse individuale e solidarietà”, in Contratti, 2020, pp. 130-131).

5. Molto altro vi sarebbe (e vi sarà) da dire sul contratto stipulato nel corso dell’emergenza. È tempo però di dedicare qualche breve nota all’altro ordine di problemi, non meno scottante, vale a dire al contratto stipulato prima ma destinato ad essere eseguito dopo la dichiarazione dell’OMS. L’indagine prende una torsione diversa perché non è più in discussione la genesi, che si dà per regolare, ma l’attuazione, che improvvisamente entra nel cono d’ombra dell’emergenza. E per sgombrare subito il campo dagli equivoci occorre mettere in chiaro che il contrasto alla pandemia, la capacità delle norme di dare continuità e forza ai rapporti in essere, non passa attraverso un allentamento o smantellamento del vincolo. Esattamente l’opposto: c’è bisogno di stabilità e di fiducia, non di vie brevi per alterare o demolire quanto sapientemente costruito, in tempi normali, dall’autonomia delle parti. La ricetta non può essere cioè una correzione “facile” del contratto e men che meno una “facile” risoluzione, tenuto conto che l’anormalità è tale per entrambe le parti ed entrambe devono, per quanto possibile, continuare a produrre, distribuire e consumare.

Ora, non c’è bisogno di molta dottrina per riconoscere che la miglior risposta è sempre la rinegoziazione. Le parti tornano sul loro accordo per rettificarlo, aggiornarlo, ripensarlo, con un nuovo atto d’esercizio della loro autonomia che rispecchia una rivalutazione dei rispettivi interessi; e nessun terzo potrà mai avere la stessa virtù nel riportare in equilibrio il rapporto, pur dopo e nonostante la pandemia. Ovviamente questa rinegoziazione sarà soggetta al medesimo statuto valido per tutti i patti della crisi: le linee-guida di contenimento dell’incertezza, poc’anzi proposte (parr. 1-4), dovrebbero estendersi alle rinegoziazioni, poiché anch’esse alterate dalle circostanze.

Che invece una rinegoziazione possa essere imposta, è lecito dubitare; per lo meno è lecito dubitare che una supposta condanna a rinegoziare, al momento priva di fondamento positivo, serva davvero a qualcosa. La parte restìa, ipoteticamente condannata a questo fare infungibile, dovrebbe eseguire un provvedimento a contenuto aperto, la condanna a rinegoziare, ove proprio in ragione di quest’indeterminatezza sarebbe arduo verificare a posteriori se abbia adempiuto oppure no; a meno di non affermare che la parte debba rinegoziare purchessìa, non importa a quali condizioni e con quali esiti.

Si potrebbe allora pensare ad una coercizione indiretta ex art. 614-bis c.p.c., ma nuovamente interverrebbe la necessità di dettagliare che cosa il condannato debba esattamente fare per adempiere, non essendo bastevole una formula riassuntiva o di rinvio (sul punto, MAZZAMUTO, S.: Esecuzione forzata, in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2020, in via di pubblicazione). Quando invece la condanna a rinegoziare contenga una descrizione analitica del procedimento e dei contenuti della rinegoziazione, al punto da prefigurare come e “quanto” il contratto debba essere modificato, ed alla condanna si coniughi per giunta un’astreinte, si tratterebbe non tanto di una rinegoziazione (indirettamente coartata) ma di un emendamento autoritativo; una sorta di correzione in forma obbligatoria, mediata dal dovere del condannato di provvedervi sotto la scure dell’astreinte. A questo punto tanto varrebbe rompere ogni indugio e discorrere senz’altro di correzione giudiziale (come fa il DDL Senato n. 1151).

Sennonché pure su quest’ultimo profilo non mancherebbero ragioni di perplessità. Il discorso di principio è difficile da sintetizzare in poche battute. Ma posto che l’adeguamento giudiziale imporrebbe l’ennesima innovazione legislativa – assai delicata, per il rapporto tormentato che lega e divide autonomia e controllo –, le esperienze fatte all’estero, in tempi ordinari, non hanno dato prova incoraggiante. Si citi un solo esempio: il “nuovo” § 313 BGB in tema di turbamento (e caduta) del fondamento negoziale, sbocco della riforma del 2001 ma rimasto pressoché sulla carta, a quanto è dato sapere (per tutti, KÖTZ, H.: Vertragsrecht, Tübingen, 2009, pp. 412 ss.). Che sia dipeso dai suoi stretti requisiti d’accesso – ma non possono essere larghi, pena la negazione dell’autonomia contrattuale – o dal suo ostico ambientamento nella pratica, che pur già lo conosceva, sta di fatto che in Germania l’Anpassung continua ad essere rimedio del tutto eccezionale (da ultimo, KUMKAR, L.K. e VOß, W.: “COVID-19 und das Institut der Geschäftsgrundlage”, in ZIP, 2020, pp. 893 ss.). E lo stesso dicasi per le limitrofe eccezioni codificate nel 2001, come l’hardship di cui al § 275, comma 2, BGB o l’inesigibilità personale ex § 275, comma 3, BGB, anch’esse pressoché ignote al diritto vivente (a ben vedere sottospecie più larghe d’impossibilità: FERRANTE, E: “L’impossibilità della prestazione: alcune variazioni sul tema della concordanza fra BGB e codice civile italiano”, in Contr. impr./Europa, 2004, pp. 745 ss.).

Vero è che la pandemia cambia le carte in tavola, inasprisce l’urgenza dei rimedi, ìncita a battere tutte le strade. Ma v’è da dubitare che la risposta possa consistere nell’obbligo di rinegoziare, più o meno definito con sentenza, nella correzione giudiziale o nell’hardship (al contrario “possibilisti”, WELLER, M.P., LIEBERKNECHT, M. e HABRICH, V.: “Virulente Leistungsstörungen – Auswirkungen der Corona-Krise auf die Vertragsdurchführung”, in NJW, 2020, pp. 1017 ss.). De jure condendo, ad una riscrittura della nostra risoluzione per onerosità (art. 1467 ss. c.c.), da sempre criticata per le conseguenze troppo drastiche ed i margini troppo esigui, sembra doversi preferire una sua abrogazione.

6. L’ordinamento italiano conosce già la risposta. La prestazione contratta prima ma da eseguirsi durante la pandemia può senz’altro risultare impossibile, temporaneamente o definitivamente (art. 1256 c.c.), in tutto o in parte (art. 1258 c.c.), come sempre. Anzi no: non come sempre, ma con un metro di giudizio “pandemico”. Qui entra in scena la fonte-pandemia per rivisitare ed abbassare la soglia di rilevanza dell’impedimento, e adattarlo così a tempi straordinari, ove l’interprete è chiamato a combattere sospensione, paura, abbandono; senza distruggere o manipolare l’accordo ed anzi preferendo la dilazione alla liberazione, la liberazione parziale a quella totale, ed anche la conferma inalterata del dovere, quando, ad un esame ponderato, l’emergenza si riveli ininfluente od un mero pretesto per non adempiere.

Sono considerazioni ancora immature, ma al centro del dibattito promosso da Actualidad. Numerosi studi della sezione Obligaciones y contratos vertono infatti sull’impossibilità da pandemia, sui suoi requisiti e sulle sue conseguenze, sicché a questi studi può riannodarsi il presente contributo. Con una proposta di metodo, utile forse a ricalibrare i caratteri dell’impedimento (in sintonia con quanto stabilito, di recente, dall’art. 3, comma 6-bis, D.L. 6/2020, introdotto dall’art. 91 D.L. 18/2020: BENEDETTI, A.M.: “Il rapporto obbligatorio al tempo dell’isolamento: brevi note sul Decreto ‘cura Italia’”, in Contratti, 2020, pp. 213 ss.).

Il metro pandemico dell’impossibilità è mediamente estensivo, nel senso che, rispetto ai tempi ordinari, dovranno crescere le ipotesi di dilazione ed esonero dall’obbligo di prestare; ed in questa crescita è giusto, anzi indispensabile personalizzare il responso, renderlo prossimo ai casi umani con le loro peculiarità. Ma sarebbe invece illusorio ed anzi controproducente frammentare il giudizio fino a renderlo individuale, soggettivizzare il verdetto fino a renderlo irriconoscibile al di fuori del rapporto in esame. La risposta è invece forte e chiara se comprensibile e riproducibile su vasta scala. Si pensi al debitore di fare che al momento dell’esecuzione sia affetto da Covid-19 conclamato, dunque in stato non solo di sofferenza psico-fisica, ma anche d’isolamento ospedaliero o domiciliare. Si pensi al conduttore di immobile non abitativo cui per provvedimento dell’autorità sia vietato esercitare l’impresa. Ma si pensi anche al genitore richiamato al lavoro da un giorno all’altro, malgrado la perdurante chiusura delle scuole e degli asili. Sono Fallgruppen drammaticamente “chiare”. Certo le particolarità del caso potrebbero rendere il metro impreciso, ma proprio la pandemia-fonte chiede semplicità, approssimazione e ripetibilità del giudizio. Dunque ben venga il cliché.

Anche così si contiene l’incertezza, facilitando la sospensione dell’obbligo di prestare o l’esonero, ma per categorie di casi anziché per casi singoli (con un ritorno alla dimensione “istituzionalizzata” delle situazioni protette: POLETTI, D.: Soggetti deboli, in Enc. dir., Annali VII, Milano, 2014, in particolare pp. 974-975). Così affrontata, la pandemia non retrocede a fatto minùto da sussumere, ma sussume essa stessa le fattispecie entro insiemi omogenei, che agevolano il procedimento applicativo; insiemi che rispondono a percezioni differenziate ma standard degli impedimenti, come differenziata (e al contempo standard) è la società attraversata dal virus. Ecco, in ordine sparso, la prospettiva degli studi di genere, che valorizzano diversità e gender gap, o quella femminista, che denuncia l’imperante maschilismo nella moderna teoria dell’impossibilità (FRUG, M.J.: “Rescuing impossibility doctrine: a postmodern feminist analysis of contract law”, in 140 Univ. Pennsylvania Law Rev., 1992, pp. 1029 ss.); ecco il vaglio di debolezza soggettiva e quasi “emotiva” della persona-debitore, ad esempio dell’anziano (WEDEMANN, F.: “Ältere Menschen im Zivilrecht”, in AcP, 2014, pp. 664 ss.), l’idea marxiana che fa leva sul lavoratore o proletario e ne rilegge in chiave classista gli impedimenti ad adempiere, o ancora quella di matrice cattolico-giusnaturalista che bada all’armonia trascendente fra uomo e creato e su queste basi traccia il confine fra debito e non-debito (fra i molti, BIXIO, A.: “Riflessioni sul diritto naturale e sulla naturalità del diritto”, in AA.VV.: Cultura giuridica per un nuovo umanesimo (a cura di E. BILOTTI, D. FARACE e M.C. MALAGUTI), Città del Vaticano, 2015, pp. 9 ss.; ed è giusto, ora ancor più, aprire al non-patrimoniale: CLARIZIA, O.: Sopravvenienze non patrimoniali e inesigibilità nelle obbligazioni, Napoli, 2012, in particolare pp. 31 ss. e 141 ss.). Una gamma di stimoli per declinare l’impossibilità a contatto della pandemia ed allargarne gli effetti dilatori e liberatori, ragionando per stereòtipi meritevoli, anziché caso per caso.

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