Autor: Stefano Polidori, Ordinario di diritto privato, Università del Salento. Correo electrónico: stefano.polidori@unisalento.it
1. In data 6 aprile 2020, in piena emergenza Covid 19 e a misure di contenimento in corso su tutto il territorio nazionale, la Lega professionisti Serie A, che associa tutte le società calcistiche del massimo campionato italiano, emette un comunicato all’interno del quale figura un passaggio del seguente tenore: “Il contesto sopra descritto [ossia, quello creato dalla crisi generata dall’emergenza Coronavirus: ndr] richiama tutti ad un atto di forte responsabilità, con i Club pronti a fare la propria parte sostenendo ingenti perdite per garantire il futuro del calcio italiano. Le perdite necessariamente dovranno essere contenute incidendo sulla riduzione dei costi, la cui principale voce per le Società è rappresentata dal monte salari. In linea con le azioni volte a diminuire il costo lavoro adottate a livello nazionale e internazionale, la Lega Serie A ha deliberato oggi, all’unanimità con esclusione della Juventus che ha già raggiunto un accordo coi propri giocatori, una comune linea di indirizzo per contenere l’importo rappresentato dagli emolumenti di calciatori, allenatori e tesserati delle prime squadre. L’intervento è necessario per salvaguardare il futuro dell’intero sistema calcistico italiano e prevede una riduzione pari a 1/3 della retribuzione totale annua lorda (ovvero 4 mensilità medie onnicomprensive) nel caso non si possa riprendere l’attività sportiva, e una riduzione di 1/6 della retribuzione totale annua lorda (ovvero 2 mensilità medie onnicomprensive) qualora si possano disputare nei prossimi mesi le restanti partite della stagione 2019/2020. Resta inteso che i Club definiranno direttamente gli accordi con i propri tesserati”.
A stretto giro viene emesso un altro comunicato, questa volta dell’altra Lega professionistica, quella di serie B, che in relazione ai rapporti contrattuali delle società con i tesserati delibera: “una comune linea di indirizzo per contenere l’importo rappresentato dagli emolumenti dei tesserati, che si tradurrà nella:
– mancata corresponsione della retribuzione annua lorda omnicomprensiva (anche riguardo alla parte premiale e di incentivo all’esodo) corrispondente al periodo di inattività;
– valutazione, in caso invece di ripresa dell’attività sportiva relativa al campionato corrente, dell’impatto economico negativo derivante dalla gravissima contingente vicenda epidemiologica per determinare l’ammontare della riduzione di quanto dovuto dalla data di effettiva ripresa della competizione sino alla sua conclusione;
– in funzione dell’attuale situazione di crisi, le società hanno inoltre manifestato l’esigenza di procedere ad una profonda revisione dei costi, anche in ottica prospettica.
Il tutto sempre nell’ambito dell’autonomia di trattativa e di accordo che le Società hanno con i propri tesserati. Le iniziative sono state prese per porre un argine alle gravi conseguenze che questa emergenza certamente comporterà nel futuro al fine di preservare la sopravvivenza del sistema calcistico a tutela dei posti di lavoro, attesa la gravità della crisi che mina la stessa sopravvivenza di tutte le imprese legate al mondo del calcio”
Molto dura la reazione messa in campo dall’Associazione Italiana Calciatori: “Il Consiglio Direttivo AIC, riunito oggi nel consueto incontro settimanale, a cui ha fatto seguito una riunione con i rappresentanti delle squadre di Serie A, ha ritenuto irricevibile la proposta avanzata dalle Leghe di A e B giunta oggi. Il comportamento delle Leghe è incomprensibile in un momento come quello attuale. La volontà, neanche tanto implicita, di voler riversare sui calciatori, mettendoli in cattiva luce, l’eventuale danno economico derivante dalla situazione di crisi, è un fatto che fa riflettere sulla credibilità imprenditoriale di chi dovrebbe traghettare il sistema calcio in questo momento di difficoltà. Pensare che si debba ricorrere ad una delibera assembleare per decidere di non pagare più nessuno lascia senza parole. Gli stessi presidenti che vorrebbero decidere la sospensione degli emolumenti hanno mandato in campo le squadre fino al 9 marzo, fatto allenare i calciatori fino alla metà di marzo e tuttora monitorano e controllano gli allenamenti individuali svolti secondo le direttive dello staff tecnico. La discussione delle scorse settimane verteva sui termini di contestazione di mancati pagamenti da sospendere o posticipare, ma non si è mai andato oltre le brevi riunioni telefoniche. Ora capiamo perché non si voleva trovare un’intesa sulle modifiche tecniche all’Accordo Collettivo, la vera intenzione è non pagare. Il fatto lascia allibiti, inoltre, visto che parecchie squadre sono già sedute con i loro calciatori per discutere come aiutarsi in un momento come quello attuale”.
2. Il contesto nel quale maturano gli atti richiamati in premessa è quello degli effetti della pandemia sui rapporti contrattuali: questo non soltanto in àmbito sportivo, ma più in generale nel complessivo panorama delle dinamiche commerciali. Gli istituti più direttamente coinvolti, sul terreno civilistico, sono quelli della eccessiva onerosità e della impossibilità sopravvenuta (anche temporanea), che si arricchiscono di una casistica nuova e certamente inedita, quanto alla configurazione dei presupposti di concretizzazione.
Non c’è dubbio che l’emergenza Covid-19 e i suoi riflessi sull’economia costituiscano eventi straordinari e imprevedibili, dotati di impatto devastante sulle dinamiche aziendali e sulla possibilità per imprese e privati di onorare i rapporti contrattuali pendenti. Ciò è vero ancor più in Italia, uno dei paesi più colpiti dalla calamità sanitaria e, al contempo, fra quelli che ha adottato per un periodo più prolungato misure draconiane di lockdown. L’arresto improvviso della produzione, degli scambi, della stessa possibilità di fruire delle prestazioni da parte di un numero cospicuo di consociati, il tutto dovuto a ragioni oggettive ed impensabili fino a pochi mesi addietro, rappresenterebbe, là dove non si fosse realmente verificata, una paradigmatica ipotesi manualistica di sopravvenienza giuridicamente rilevante.
Non sorprende che in questa congiuntura riprenda linfa una questione giuridica consolidata nell’elaborazione ermeneutica, ma mai dipanata nella totalità dei riflessi pratici: quella concernente la possibilità di estendere l’apparato rimediale oltre il rimedio risolutorio, l’unico sancito a livello codicistico, per vedere accresciuto il rilievo delle tutele manutentive, capaci di ripristinare l’equilibrio contrattuale mediante la rinegoziazione. Correva l’anno 1996 quando vedeva la luce lo studio di Francesco Macario Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine. Ivi, come è noto, l’A. ipotizzava un vero e proprio obbligo giuridico, gravante sui contraenti, di predisporsi a ridiscutere le condizioni del vincolo in presenza di mutamenti oggettivi incidenti su un sinallagma immaginato come equo in una differente situazione congiunturale. Prendendo le mosse dall’esigenza di flessibilità insita nella durata del contratto, e nella connaturale esposizione al rischio tempo, l’analisi dei modelli convenzionali di gestione delle sopravvenienze (quali le clausole di hardship nei contratti del commercio internazionale) veniva proiettata nella chiave della possibile costruzione di obblighi di natura legale fondati sulla buona fede esecutiva. Per tale via, sembravano maturi i tempi per una visione dei rapporti incentrata sulla preferenza per la perequazione dei rapporti divenuti squilibrati, rispetto ai drastici rimedi di tipo risolutorio contemplati dal Codice civile.
La tesi ha avuto una certa fortuna, e già nell’immediato si giovò del parallelo fiorire degli studi sull’emersione del principio di proporzionalità (su tutti la storica relazione di Pietro Perlingieri “Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti” al Convegno svoltosi nel 2000 a San Marino su “Equilibrio delle posizioni contrattuali e autonomia privata”), oltre che di ulteriori ricerche sul tema della rinegoziazione, particolarmente vivaci nei primi anni del XX secolo.
La principale difficoltà incontrata dagli interpreti è stata quasi sempre quella di individuare con chiarezza le conseguenze del rifiuto a rinegoziare: ovverosia, le concrete forme di tutela a disposizione del contraente che abbia richiesto invano di ridiscutere le condizioni del vincolo in virtù del mutato quadro economico di riferimento. Assodato che non v’è obbligo di addivenire al nuovo accordo, non è semplice dare concretezza applicativa, specialmente in chiave patologica, al dovere di ricercare una modifica concordata delle condizioni contrattuali; di non arroccarsi, cioè, sul rispetto pedissequo di un impegno divenuto incompatibile con la sopravvenienza straordinaria e imprevedibile. Incerti permangono i confini tra legittimo rifiuto di proposte modificative reputate insoddisfacenti e violazione dell’obbligo di rinegoziare; né possono dirsi acclarati, a valle, gli effetti di siffatta violazione.
Le soluzioni ipotizzate dagli interpreti, fin quando restano confinate ai rimedi di tipo risarcitorio, non offrono una reale alternativa a quelli risolutori: se fosse tutto qui, la montagna avrebbe partorito un topolino. Il ricorso all’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre, acutamente ipotizzato in qualche studio, ha un campo di azione assai limitato, presupponendo una proposta, dettagliata e completa, che a priori possa dirsi equa e sulla quale si sarebbe appuntato un rifiuto irragionevole e ingiustificato. Resta invece in piedi la via – quasi sempre tenuta sullo sfondo e raramente esplicitata negli sviluppi ermeneutici – dell’intervento correttivo del giudice, cui demandare il riallineamento del rapporto che le parti non sono riuscite a disporre con la rinegoziazione. Nelle more della perequazione ope iudicis, non appare peregrino ipotizzare un potere di autotutela, che consenta alla parte che si sia adoperata nella direzione della ridiscussione dell’accordo, scontrandosi con una chiusura preconcetta, di sospendere l’esecuzione della propria prestazione fino a ridefinizione (convenzionale o giudiziale) dei termini del vincolo.
Si tratta di aspetti che proprio ora assumono drammatico rilievo. La realtà ha superato l’immaginazione e posto sul tappeto l’inattualità dell’adagio pacta sunt servanda, almeno nella sua versione più radicale. Se fino a oggi le dispute potevano svolgersi in prevalenza nelle sedi accademiche, ed atterrare solo in casi particolari nelle aule di giustizia, adesso servono risposte immediate e concrete all’emergenza. Lo sport che più di altri muove un volume di affari enorme costituirà terreno di elezione di questa sfida, la quale potrebbe giocarsi prima nei Collegi arbitrali sportivi che nei Tribunali ordinari. Non è escluso che proprio da quegli organismi possano provenire spunti applicativi coraggiosi e adeguati, a patto che le soluzioni restino aderenti, pur nelle specificità dei rapporti controversi, alle linee di principio dell’ordinamento nazionale ed europeo.
3. Dal calcio professionistico, come si è osservato in principio, provengono forti spinte verso la rinegoziazione degli accordi individuali conclusi con atleti e tesserati. Si tratta di uno dei settori dell’economia che la pandemia colpisce maggiormente al cuore, portandone a galla eccessi e contraddizioni ataviche.
Gli imprenditori che investono fortune nel calcio non hanno mai un utile economico diretto, ma sempre indiretto. Le uscite, costituite in misura preponderante dai ricchi emolumenti di atleti e tesserati, sono compensate solamente in parte dalle entrate per diritti televisivi, sponsorizzazioni, biglietti e abbonamenti, merchandising. Entrate per giunta aleatorie, variabili al variare dei risultati sportivi. La quota di perdita eccedente è solitamente coperta da ricapitalizzazioni dei gruppi proprietari: il ritorno si manifesta in termini di immagine, visibilità, talvolta aderenze politiche locali, e giova al core business delle imprese gestite al di fuori dell’àmbito sportivo. Tutto ciò, unito a una componente ludica e passionale, giustifica la destinazione di ingenti risorse al ramo calcistico della propria attività. Affinché il giocattolo non vada in frantumi, però, vi è una condizione imprescindibile: che lo spettacolo non si fermi mai. Proprio questa condizione è venuta meno per effetto del lockdown, che ha determinato fra i suoi effetti la sospensione di tutti i campionati e, di lì a poco, degli allenamenti di squadra: sospensione che, non casualmente, è intervenuta soltanto quando imposta dall’evidenza e dalla legge, dopo strenui e poco lungimiranti tentativi di proseguire le attività tamquam morbus non esset. Ne sono esempi eclatanti la trasferta dei supporters dell’Atalanta, lasciati giungere a Lecce il 1 marzo 2020 da città già all’epoca limitrofa alla zona rossa e che, successivamente, avrebbe fatto registrare un impressionante numero di vittime; o alla disputa della partita Juventus – Inter in data 8 marzo 2020, con le scuole già chiuse da giorni in tutta Italia. Infine, è storia di questi giorni, Federazione e Leghe (specialmente di serie A) stanno ininterrottamente spingendo verso la ripresa dei campionati, a costo di terminare la stagione ad agosto inoltrato ed eseguire tamponi a tappeto su tutti i tesserati. Questo, nonostante le autorità sanitarie esprimano ripetute perplessità e gli altri sport collettivi abbiano decretato la conclusione della stagione 2019/2020.
La ragione di questa ostinazione è chiarissima: dallo stop forzato i conti economici delle società sportive subiscono un contraccolpo enorme. Tutte le entrate cessano di colpo (diritti tv, sponsorizzazioni, biglietti dello stadio), mentre inalterati restano i costi, che già in condizioni normali sono eccedenti rispetto ad esse. In più, vengono meno i traguardi sportivi stagionali, che in alcuni casi erano a portata di mano ed avevano costituito la ragione degli investimenti. Si comprende, perciò, come al centro della strategia delle società, oltre alla spinta verso la ripresa delle competizioni interrotte, vi sia il contenimento delle spese e, fra queste, soprattutto quelle per emolumenti a tecnici e atleti.
Catturano la scena, perciò, gli istituti del diritto civile: innanzi tutto l’impossibilità temporanea della prestazione, di cui all’art. 1256 c.c., che sembra giustificare la sospensione dei pagamenti per tutta la durata del periodo in cui la prestazione non può essere erogata per cause di forza maggiore e forse, come si vedrà, apre spiragli verso lo scioglimento dei contratti più onerosi; in secondo luogo la rinegoziazione delle condizioni economiche, connotata da profili di doverosità alla luce della clausola generale di buona fede e del principio costituzionale di solidarietà, particolarmente stringente nella sua portata precettiva in tempo di emergenza epidemiologica.
I soggetti di questi rapporti non sembrano essersi fatti trovare pronti a questa sfida, e le cronache sportive narrano per ora di un «muro contro muro»; unico caso in controtendenza è quello della Juventus, probabilmente il club nazionale più all’avanguardia a livello organizzativo, che già a fine marzo, precorrendo i tempi, aveva concluso tutti gli accordi di revisione dei compensi con i propri atleti. Per il resto, le Leghe di serie A e B assumono una posizione unilaterale, convenendo fra loro, senza consultare le controparti o almeno le associazioni che le rappresentano, i dettagli numerici degli accordi da raggiungere. Le associazioni che esprimono il punto di vista dei tesserati, a loro volta, danno la sensazione di non avere compreso che in caso di sopravvenienze così gravi il consenso all’adeguamento dei contratti costituisce un vero e proprio dovere giuridico, e non soltanto un eventuale atto di buona volontà, da dispensare o negare secondo i binari in cui si direziona la trattativa con la società di appartenenza.
4. La palla passerà presto ai Collegi arbitrali, che saranno chiamati a dirimere non pochi conflitti, specialmente laddove la ripresa dei campionati professionistici tardasse o non si potesse concretizzare.
Il piano delle istanze contrapposte presenta un’ulteriore peculiarità che potrebbe influenzare posizioni e soluzioni processuali: difatti, l’interesse di una delle parti in diversi casi non è tanto (o soltanto) quello di riequilibrare le condizioni del rapporto in ragione dell’eccessiva onerosità sopravvenuta, ma di giungere alla sua interruzione. Uno dei problemi principali che, anche nella fisiologia e al di fuori di contesti emergenziali, la cronaca sportiva porta in evidenza attiene alle difficoltà che le società incontrano nel liberarsi di vincoli pluriennali piuttosto onerosi, incautamente assunti e rivelatisi ingiustificati alla luce del rendimento sul campo di gioco. Sovente si innesca un braccio di ferro nel quale il giocatore, privo di mercato per via dell’elevato ingaggio e delle ultime prestazioni non all’altezza, insiste per il rispetto degli accordi in essere, mentre la società, che non riesce a trovare acquirenti, giunge ad offrire ricche proposte di «buonuscita» pur di potersi liberare del contratto. In periodo di blocco per pandemia, situazioni come queste pesano sul bilancio in modo ancor più grave: le proposte di rinegoziazione potrebbero perciò tendere piuttosto a un commodus discessus che all’adeguamento dei termini economici del rapporto.
L’interrogativo si sposta sui poteri che potrebbero essere esercitati dai Collegi arbitrali, eventualmente aditi in esito al fallimento delle trattative individuali. Ora, se la rinegoziazione, di fronte a un evento straordinario quale quello pandemico, è un obbligo delle parti, fondato sul principio di solidarietà e sulla clausola generale di buona fede, e non una mera facoltà rimessa a scelte strategiche discrezionali; e se i protagonisti della trattativa lo contravvengono, irrigidendosi sull’ossequio a patti intervenuti in tempo di fisiologia; in presenza di questi presupposti, quali rimedi rientrano nelle prerogative dell’organo chiamato a dirimere il conflitto?
Astrattamente, le strade possibili sono la revisione del contenuto economico del contratto, ovvero il suo scioglimento, semmai ottenuto attraverso una abbreviazione della durata del vincolo e accompagnato da un equo indennizzo economico per il tesserato.
Nessuna delle suddette vie è piana ma, per quanto si dirà, tutte paiono praticabili a seconda del contesto: la scelta, di volta in volta, dipenderà dal concreto atteggiarsi degli interessi controversi, perché solo da questo emerge quale sia lo strumento giuridico capace, nel caso singolo, di meglio contemperarli socializzando le negatività della calamità sanitaria.
La perequazione ex officio del rapporto, divenuto eccessivamente squilibrato in virtù di eventi straordinari e imprevedibili, è già da tempo adombrata dalla dottrina civilistica quale concreta alternativa alle tutele risolutorie o invalidanti. Essa conferisce effettività ai doveri di rinegoziazione ipotizzati in capo ai privati, che per essere tali debbono presupporre una sanzione in caso di violazione; quanto meno, la possibilità di un intervento giudiziale che ponga rimedio all’ingiustificato rifiuto delle parti, o di una fra esse, di adoperarsi per una ridefinizione condivisa del rapporto. Le applicazioni concrete, nella prassi delle Corti, non sono state fin qui frequenti, anche per una sopravvalutazione dell’ostacolo codicistico: gli artt. 1467 ss. c.c. non contemplano alternative alla risoluzione, se non in caso di offerta di modificazione delle condizioni contrattuali da parte del contraente nei confronti del quale lo scioglimento è stato richiesto. Peraltro, non è affatto improbabile che una prima spinta all’innovazione possa venire proprio dagli organi arbitrali della Giustizia sportiva, che per la loro natura speciale si sentono più liberi, rispetto ai giudici ordinari, di esprimere flessibilità nell’adozione dei rimedi più adatti alle controversie loro sottoposte.
La soluzione dello scioglimento, sebbene si inscriva con maggiore agio nel solco del Codice civile, abbisogna di requisiti piuttosto stringenti. Il varco, più che nell’eccessiva onerosità, può essere rinvenuto nella disciplina dell’impossibilità sopravvenuta e, segnatamente, di quella temporanea, cui fa riferimento l’art. 1256, comma 2, c.c.: ivi è stabilito che per tutto il tempo in cui la prestazione non può essere erogata per cause di forza maggiore il debitore non è tenuto ad eseguirla. In base alla medesima previsione, laddove l’impossibilità dovesse protrarsi per un tempo oltre il quale non vi sia più interesse per il creditore a fruirne, l’obbligazione potrebbe estinguersi, e perciò il contratto a prestazioni corrispettive risolversi. Non è escluso che alcune società sportive possano provare a battere questa strategia per liberarsi di ingaggi onerosi che sono poco funzionali già nella fisiologia del rapporto, ed ancor più in una situazione di blocco ed incertezza sui tempi della ripresa.
La strada non è semplice, in quanto all’argomento così costruito potrebbe replicarsi che gli atleti, anche in tempo di fermo, devono obbligatoriamente seguire – specie fin quando la ripresa dei tornei sia evento configurato come possibile – prescrizioni (di allenamento e alimentari) che, comunque, rientrano nel concetto di esecuzione della prestazione, con contenuto relazionato al particolare momento. Ulteriore ostacolo potrebbe essere individuato sia negli accordi collettivi di categoria, che pongono rigidissime limitazioni ai casi di possibile licenziamento dei tesserati, sia – a livello di legislazione nazionale – nell’art. 46 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. Cura Italia), che vieta ai datori di lavoro, fino al 16 maggio 2020 (ma è da presumere che vi sarà proroga fin quando durerà l’emergenza), di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604. Norma certamente pensata per fattispecie collocate agli antipodi di quelle in esame, ma che a stretto rigore potrebbe anche ad esse considerarsi applicabile.
Infine, potrà influenzare la percorribilità dell’approdo il riscontro della correttezza dell’operato di chi lo invoca, anche alla luce della tempistica e del concreto svolgersi delle trattative: difficilmente troveranno accoglimento richieste strumentali, che malcelassero il pretesto del Covid 19 per azzerare totalmente ogni impegno assunto in precedenza. In effetti, allo scioglimento del rapporto si potrebbe semmai giungere in seconda istanza, se la società riuscisse a dimostrare di aver ricercato ripetutamente una soluzione concordata per la revisione del vincolo con il tesserato, constatando una chiusura pregiudiziale da parte di quest’ultimo e, dunque, l’impossibilità di rinegoziare il contenuto del contratto. In questa ipotesi, fra le alternative a disposizione dei Collegi giudicanti potrebbe esservi quella di disporre, a titolo di modificazione economica delle condizioni dell’accordo, non necessariamente la riduzione del compenso dovuto ma, per esempio, un ridimensionamento temporale del rapporto contrattuale, ove questo sia pluriennale.
Spesso, difatti, è proprio l’eccessiva durata del contratto, incautamente disposta in una fase in cui appariva economicamente sostenibile e foriera di ritorni tecnici che non si sono verificati, a strangolare i bilanci societari: oltre a pesare come costo superfluo e prolungato, quando non ripagata da prestazioni eccellenti, essa condiziona le strategie di rafforzamento tecnico, paralizzando nuovi investimenti per tutti gli anni in cui perdura il vincolo. Certamente, si tratta di contratti stipulati liberamente e mediante trattative paritarie, ma in un frangente diverso in cui la pandemia, il conseguente venir meno di cospicui introiti da tv e spettatori, il blocco più o meno prolungato delle competizioni, erano tutti eventi neanche lontanamente immaginabili. In casi simili la rinegoziazione può battere, alternativamente, le strade di una riduzione quantitativa dei compensi, ovvero di un accorciamento condiviso della durata del rapporto. La chiusura pregiudiziale, di una o entrambe le parti, potrebbe condurre, nel contenzioso sportivo, tanto a una decisione di revisione dei termini economici del contratto, quanto alla previsione di una interruzione anticipata del rapporto, semmai con una misura indennitaria di riequilibrio. In tempi emergenziali, ma fors’anche in senso assoluto, non è affatto da escludere che un Collegio arbitrale possa annoverare tale potere fra quelli rientranti nelle proprie prerogative atte a dirimere il conflitto tra le parti.
In fondo, si tratta si fare sapiente utilizzo del «giusto rimedio», attagliato al novero dei concreti interessi coinvolti, che già nell’ambito del processo ordinario la dottrina ha ricostruito quale bussola decisionale capace di ordinare la complessità delle fonti e delle tutele nell’ordinamento vigente (PERLINGIERI, P.: “Il «giusto rimedio» nel processo civile”, in Giusto processo civivile, 2011, p. 1 ss.). In quello sportivo, connotato da una connaturale componente di elasticità, potrebbe viepiù costituire occasione per garantire la sopravvivenza del movimento, nell’interesse di tutti coloro che ne sono protagonisti attivi e se ne giovano. Uno dei luoghi comuni più abusati, dal momento in cui questa tragedia ha sconvolto il mondo, è quello per il quale l’umanità dovrebbe uscirne migliore. Senza cedere a tanta retorica, può darsi che ne esca migliore almeno il calcio: più sostenibile e meno distante dalle difficoltà quotidiane della gente comune che, con la sua passione inesauribile, alimenta il giocattolo e fa sì che nonostante tutto non si rompa.