Infezione da COVID 2019 e responsabilità della struttura sanitaria

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Stefania Giova, Ordinario di diritto privato, Università degli Studi del Molise. Correo electrónico: giova@unimol.it

1. Gli eventi imprevisti connessi alla pandemia da Coronavirus impongono al giurista di interrogarsi sulle risposte concrete che l’ordinamento è in grado di fornire alle controversie in materia di responsabilità sanitaria che possano insorgere a seguito di decisioni assunte e delle condotte tenute in occasione dell’emergenza.

In particolare, hanno destato molto clamore – richiamando l’attenzione di chi vi ha intravisto una volontà politica di proteggere i vertici amministrativi e gestionali delle strutture da eventuali azioni di responsabilità – alcuni emendamenti (poi ritirati e trasformati in ordine del giorno) presentati in sede di conversione in legge del d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (“Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per le famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID – 19” G.U. n. 70 del 17 marzo 2020, convertito, con modificazioni, in l. 24 aprile 2020, n. 27, G.U. n. 110 del 29 aprile 2020) cosiddetto Cura-Italia, con i quali si tentava di limitare la c.d. responsabilità medica civile, penale ed erariale dell’esercente la professione sanitaria e della struttura.

Di là dalle questioni etiche bisogna domandarsi se innanzi alla straordinarietà degli eventi, l’applicazione delle norme già esistenti sia di per sé sufficiente a dare una risposta adeguata sul piano della responsabilità civile ai danni subiti dai pazienti e dal personale che presta la propria opera presso le strutture sanitarie e sociosanitarie.

2. L’emergenza sanitaria che interessa l’intero pianeta ha avuto inizio con la comparsa in Cina, alla fine del 2019, di un virus respiratorio ad altissima infettività in grado di provocare nei casi più gravi una sindrome respiratoria acuta ad elevata letalità denominata COVID-19 – COronaVIrus Disease-2019 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, la quale il 30 gennaio 2020 dichiarava l’epidemia da COVID-19 “un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale” e il successivo 11 marzo “pandemia globale”(per gli approfondimenti cfr. www.iss.it, sito web dell’Istituto Superiore di Sanità).

I primi due casi di Coronavirus in Italia hanno riguardato una coppia di turisti cinesi, ricoverati in isolamento il 29 gennaio 2020 presso l’Istituto Nazionale per le malattie infettive Spallanzani di Roma.

Il primo caso di trasmissione secondaria (il paziente non era stato in Cina) si è verificato a Codogno, in Lombardia. Il 18 febbraio un uomo di trentotto anni veniva ricoverato presso il locale ospedale per una polmonite apparentemente non grave, ma resistente a ogni tipo di cura, che in poche ore faceva precipitare la situazione rendendo le sue condizioni molto gravi. Un’anestesista, resasi conto dell’inefficacia delle cure note in letteratura, decideva di sottoporlo alle indagini per il COVID e due giorni dopo, il 20 febbraio, ne veniva accertata la positività, divenendo il “paziente 1” per l’Italia.

Improvvisamente aumentavano i casi accertati in quell’ospedale e subito si registravano diversi focolai infettivi concentrati nelle comunità di piccoli centri del Nord Italia. A partire da Codogno e Vo’ Euganeo (i primi due comuni ad essere dichiarati “zona rossa”) in pochissimo tempo nascevano focolai disseminati in Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Marche.

Il Governo, preso atto della particolare diffusività del virus e del preoccupante incremento dei casi e dei decessi, emanava il d.l. 23 febbraio 2020, n. 6 recante “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il medesimo giorno. Il provvedimento consentiva alle autorità competenti di adottare misure di contenimento e gestione adeguate e proporzionate all’evolversi della situazione epidemiologica nei comuni e nelle aree nelle quali risultava positiva almeno una persona della quale non era possibile individuare la fonte di provenienza del contagio. Le misure, incentrate sul c.d. distanziamento sociale, consistevano essenzialmente nel divieto di accesso o di allontanamento dal territorio comunale, nella sospensione di manifestazioni e di eventi di qualunque natura (culturale, sportiva, ludica, religiosa ecc.), nella chiusura delle scuole di ogni ordine e grado e delle istituzioni di formazione superiore, comprese le Università, ferma la possibilità di svolgimento di attività formative a distanza, nella sospensione di viaggi di istruzione in Italia o all’estero, nella chiusura di tutte le attività commerciali che non fossero di pubblica utilità, nell’obbligo di accedere ai servizi pubblici essenziali e agli esercizi commerciali per l’acquisto di beni di prima necessità indossando dispositivi di protezione individuale o adottando particolari misure di cautela individuate dall’azienda sanitaria competente, nell’applicazione della misura della quarantena con sorveglianza attiva agli individui che avessero avuto contatti stretti con casi confermati della malattia.

In pari data, considerata la necessità di adottare tempestivamente le misure di contenimento contemplate nel decreto legge, un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri le applicava a dodici comuni, undici della Lombardia e uno del Veneto.

Con una serie di provvedimenti successivi della Presidenza le misure venivano inasprite ulteriormente e l’8 marzo applicate alla Regione Lombardia e a intere province di Veneto, Piemonte, Emilia Romagna e Marche. Solo ventiquattro ore dopo, con il dPCM 9 marzo 2020 le limitazioni venivano estese a tutto il territorio nazionale e veniva vietata qualsiasi forma di assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico (www.governo.it).

L’estrema contagiosità del virus e l’elevato numero di persone con sintomi che si recavano nei pronto soccorso ha trovato il Sistema Sanitario Nazionale italiano strutturalmente impreparato a fronteggiare l’improvviso e imprevisto numero elevatissimo di pazienti altamente infettivi e aventi spesso la necessità di ricovero e di assistenza nei reparti di terapia intensiva: carenza di posti letto, di apparecchiature per la ventilazione assistita, di idonei dispositivi per la protezione individuale del personale sanitario, insufficienza di personale specializzato dei reparti di terapia intensiva.

Per ovviare alla carenza di personale sanitario, e in particolare di quello da impiegare nei reparti specializzati, le strutture, nell’immediato, hanno fatto ricorso agli operatori sanitari di altri reparti disponibili nella struttura – a volte privi della necessaria specializzazione – e richiamato in servizio medici e infermieri in pensione.

Il 20 marzo il Governo ha poi avviato una procedura d’urgenza per la costituzione di una task force di 300 medici per supportare le strutture sanitarie regionali, soprattutto della Regione Lombardia, nell’attuazione delle misure necessarie al contenimento e contrasto dell’emergenza COVID-19.

L’assenza di posti letto è stata in alcuni casi colmata mediante la riconversione di interi reparti in “Reparti COVID”, in alcune regioni si è invece preferito realizzare ex novo “ospedali COVID”. Tale ricollocazione dei pazienti in alcuni casi ha riguardato anche le Residenze sanitarie assistenziali, dove abitualmente soggiornano le persone più anziane.

Per sopperire alla carenza di dispositivi di protezione individuale per gli operatori sanitari (mascherine, guanti, camici ecc.) e di apparecchiature per i reparti di terapia intensiva (ad es. apparecchi per la ventilazione polmonare), il cui approvvigionamento attraverso gli abituali canali di acquisto si era dimostrato insufficiente, è stato nominato un Commissario che attuasse e sovrintendesse a quanto necessario.

I limiti strutturali e di personale nel momento di massima emergenza hanno posto la questione relativa alle modalità di selezione dei pazienti che potessero accedere alle terapie intensive. Un documento della Società italiana di anestesia analgesia, rianimazione e terapia intensiva (“Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili”, 6 marzo 2020, www.siaarti.it) che, allo scopo di sollevare i clinici da una parte della responsabilità nelle scelte, che possono essere emotivamente gravose, compiute nei singoli casi e di rendere espliciti i criteri di allocazione delle risorse sanitarie in una condizione di una loro straordinaria scarsità, indicava come criterio di scelta “la maggiore speranza di vita”, ponendo un limite di età all’ingresso in terapia intensiva. Su una posizione condivisibilmente diversa il Comitato nazionale di bioetica, il quale, richiamando i principi sanciti negli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, punti di riferimento irrinunciabili per la relazione di cura, anche quando questa venga promossa in condizioni di estrema criticità, individuava il “criterio clinico” come il più adeguato alla scelta, reputando eticamente inaccettabile parametri di selezione basati su età, sesso, condizione e ruolo sociale, appartenenza etnica, disabilità, o anche sulla responsabilità rispetto a comportamenti che hanno indotto la patologia e sui costi. Ha ritenuto, pertanto, che “il triage in emergenza pandemica”, basato su preparedness, appropriatezza clinica e attualità (valutazione individuale del paziente fisicamente presente nel pronto soccorso) fosse lo strumento attraverso il quale soddisfare ragionevolmente, caso per caso, le richieste, contemperando il dovere di massima tutela del singolo paziente con gli obiettivi collettivi di salute pubblica (“COVID-19: La decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del “triage in emergenza pandemica”, 8 aprile 2020, www.governo.it; per gli approfondimenti si rimanda a Rotondo, V.:“La decisión clínica en una situación de pandemia”, in Actualidad Juridica Iberoamericana, núm. 12 bis, maggio 2020).

3. Nello scenario prospettato aspetti etici si intrecciano con quelli giuridici. In particolare, alcuni studi legali hanno effettuato discutibili operazioni pubblicitarie di promozione di offerte di assistenza nell’avvio di un contenzioso nei confronti degli operatori sanitari, i quali, invece, trovavano sempre più il sostegno e l’incoraggiamento da parte dell’opinione pubblica per gli sforzi compiuti nella loro attività, per essersi sottoposti a turni di lavoro massacranti, per aver operato a rischio della propria incolumità pur in assenza di dispositivi di protezione adeguati.

Il Consiglio nazionale forense, preso atto delle segnalazioni ricevute da alcune società scientifiche mediche, esprimeva la piena solidarietà nei confronti degli operatori sanitari e condannava ogni comportamento, in qualsiasi forma espresso che mirasse a profittare della situazione emergenziale, assicurando, al contempo, la vigilanza delle istituzioni forensi nell’individuare e sanzionare i comportamenti di quei pochi avvocati che intendessero speculare sul dolore e le difficoltà altrui in un momento di difficoltà per l’intero paese (www.consiglionazionaleforense.it).

Tale presa di posizione, condivisibile sotto il profilo etico, è anche servita a rassicurare il personale sanitario che, nella gestione di situazioni straordinarie e con risorse limitate, avrebbe potuto propendere per comportamenti di cautela improntati alla c.d. medicina difensiva negativa, scegliendo di intervenire soltanto in condizioni di rischio limitato e somministrando esclusivamente terapie già validate dagli organi competenti.

4. Riprendendo il quesito in premessa, bisogna verificare se a partire dal sistema tracciato dal legislatore in materia di responsabilità sanitaria, l’ordinamento contenga in sé soluzioni capaci di dare risposte adeguate e ragionevoli alle legittime pretese di chi ritenga di aver subito un danno, fino a che punto si possa cioè trasferire il rischio sulle strutture e sugli operatori sanitari e quanto debba invece rimanere sui danneggiati di fronte a quello che si è verificato nei momenti di maggiore emergenza di una situazione già di per sé imprevista e imprevedibile.

La responsabilità civile sanitaria trova il suo riferimento normativo nella l. 8 marzo 2017, n. 24 che, all’art. 7, prevede un c.d. sistema di responsabilità a doppio binario, laddove l’esercente la professione sanitaria risponde per i danni prodotti a titolo extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c. (salvo che abbia agito nell’adempimento di un’obbligazione contrattuale assunta con il paziente), mentre la struttura sanitaria e sociosanitaria, pubblica o privata, sul presupposto di un rapporto contrattuale atipico con l’assistito (c.d. di assistenza sanitaria o di spedalità) risponde dell’inadempimento dell’operatore di cui si avvale ai sensi dell’art. 1228 c.c.

Come già evidenziato, con l’incalzare della pandemia è mancata una proporzione tra risorse umane e risorse strutturali disponibili e numero di persone ammalate sulle quali intervenire. Bisogna domandarsi se tale situazione abbia posto anche “problemi tecnici di speciale difficoltà”, nel qual caso il prestatore d’opera risponde solo nei casi di dolo o colpa grave ai sensi dell’art. 2236 c.c. o se, invece, l’inadempimento sia dovuto a una causa esterna non imputabile al debitore, la pandemia appunto (art. 1218 c.c.). In tale seconda ipotesi il giudice, nel caso concreto, dovrà valutare se la struttura sanitaria non abbia operato con sufficiente diligenza (ex art. 1176 c.c.) per evitare le conseguenze derivanti dalla sproporzione tra risorse e numero di pazienti.

5. Nella situazione delineata si inserisce la problematica connessa ai danni derivanti da infezioni ospedaliere o nosocomiali, più correttamente definite infezioni correlate all’assistenza (ICA – nell’espressione anglosassone HAI, healthcare-associatedinfections) e, cioè, quelle che si verificano in una struttura sanitaria (ospedaliera o sociosanitaria, di lungodegenza, ambulatorio, residenza sanitaria assistenziale), non presenti o in incubazione nel paziente al momento del ricovero, che si manifestano durante la degenza o subito dopo le dimissioni. Vengono ritenute tali non solo quelle contratte dai pazienti già ricoverati nella struttura (i più esposti) o che vi accedono per ricevere assistenza o una prestazione sanitaria, ma anche quelle acquisite dal personale sanitario o dai visitatori (DUCEL, G., FABRY, J., NICOLLE, L.: “Prevention of hospital-acquired infections: a practical guide”, 2002, 2nd ed., World Health Organization, Geneva).

Il veicolo di trasmissione può essere il contatto fisico diretto tra la fonte di infezione e il paziente (contatto persona-persona), ad esempio con la palpazione addominale. L’infezione può verificarsi anche in modo indiretto, quando la trasmissione dalla fonte al paziente avviene passivamente, mediante un oggetto intermedio (di solito inanimato), ad esempio un endoscopio precedentemente utilizzato su una persona infetta. Il passaggio dell’agente infettivo può, infine, avvenire per via aerea quando la fonte e il paziente sono molto vicini, come nella trasmissione attraverso le goccioline (droplet) che vengono emesse starnutendo o tossendo.

L’insorgenza delle infezioni produce un rilevante impatto non solo sugli ammalati, ma anche sulle strutture sanitarie. I primi, dal punto di vista della salute, sono costretti a sopportare una patologia infettiva ulteriore rispetto a quella di base e a subire eventuali conseguenze in termini di stress emotivo o disabilità funzionale, quando addirittura non sopraggiunga la morte. Il prolungamento della malattia può anche avere conseguenze economiche per i pazienti e per le famiglie. Per le strutture di degenza, poi, si determina un carico economico aggiuntivo collegato al prolungamento dei ricoveri, agli interventi terapeutici, agli esami diagnostici e di laboratorio, ecc., per patologie potenzialmente evitabili. Nel sistema sanitario pubblico, in definitiva, si verifica uno squilibrio nell’allocazione delle risorse già di per sé scarse.

Il rischio di trasmissione, intimamente connesso all’attività di assistenza sanitaria, può essere minimizzato, prevenendo in molti casi l’insorgenza delle infezioni con l’adozione di misure preventive parametrate a una preliminare valutazione del rischio di contagio.

Sotto l’aspetto normativo i primi interventi in Italia sono risalenti nel tempo e sono costituiti da due circolari ministeriali del 1985 e del 1988.

La prima, la n. 52 del 1985, concernente le prime “… linee guida in tema di lotta contro le infezioni ospedaliere …”, individuava quale strumento di prevenzione la “… sorveglianza mirata …”, da condurre mediante “… la raccolta continua di informazioni, analisi dei dati, applicazione di misure di controllo e valutazione dell’efficacia delle stesse”. In particolare, indicava la necessità di istituire presso ogni presidio ospedaliero un “Comitato” multidisciplinare per la lotta contro le Infezioni, con il compito primario di definire programmi di sorveglianza e controllo. Fondamentale per la sorveglianza, l’individuazione di personale infermieristico specificamente dedicato al controllo delle infezioni. Determinante per la riduzione delle infezioni era considerata la formazione professionale del personale medico e di quello infermieristico. Alle Regioni, infine, spettava la gestione di propri programmi di controllo delle infezioni ospedaliere, il coordinamento delle attività dei “Comitati” e il potenziamento dei programmi di formazione professionale negli ospedali.

La circolare n. 8 del 1988 dedicava particolare attenzione alla attività di “sorveglianza”. Forniva, infatti, precise indicazioni sui criteri da seguire per la definizione delle infezioni, così da permettere il confronto dei dati raccolti in ciascun ospedale. Definiva, poi, i diversi “sistemi di sorveglianza” che ciascuna struttura ospedaliera poteva scegliere, adottando quello più consono alle risorse disponibili e agli obiettivi prefissati. Anch’essa coinvolgeva l’autorità sanitaria regionale affidandole la responsabilità dell’uniformità della raccolta ed elaborazione dei dati, al fine di poter predisporre i necessari interventi di prevenzione.

I due interventi hanno avuto l’effetto meritorio di sensibilizzare gli operatori sanitari e di consentire alle strutture ospedaliere di misurare le dimensioni del problema.

Dopo molti anni nei quali la questione non è stata affrontata dal punto di vista normativo, è intervenuta la legge n. 24 del 2017 che pone come uno dei pilastri a suo fondamento la “sicurezza delle cure”, da realizzarsi anche “mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie (c.d. rischio clinico, che può intendersi come la probabilità che un paziente sia vittima di un evento avverso, cioè patisca un “danno o disagio imputabile, anche se in modo involontario, alle cure mediche prestate durante il periodo di degenza, che causa un prolungamento del periodo di degenza, un peggioramento delle condizioni di salute o la morte (KOHN, L., CORRIGAN, J., DONALDSON, M.: “To Err is Human: building a Safer Health System, in National Academies Press (US), 2000) e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative” (art. 1).

Nella sicurezza delle cure si ritiene rientrino a pieno titolo la prevenzione e il controllo delle infezioni correlate all’assistenza sanitaria. A tale scopo la legge prevede, all’art. 2, che in ogni regione è istituito il Centro perla gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente, che raccoglie dalle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private i dati regionali sui rischi ed eventi avversi e sul contenzioso e li trasmette annualmente all’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità. L’Osservatorio, istituito presso l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (AGENAS), acquisisce i dati e individua idonee misure per la prevenzione e la gestione del rischio sanitario e il monitoraggio delle buone pratiche per la sicurezza delle cure, anche predisponendo con l’ausilio delle società scientifiche “linee di indirizzo”. Queste ultime, dal valore meramente indicativo, vanno tenute distinte dalle linee guida previste dall’art. 5, che vincolano i professionisti nell’esercizio delle professioni sanitarie, producendo specifici effetti ai fini della valutazione della responsabilità.

Nelle ipotesi di infezioni correlate all’assistenza appare, di regola, ravvisabile una responsabilità autonoma e indipendente della struttura sanitaria, rispetto alla condotta del singolo professionista. Tale responsabilità, non riconducibile all’atto professionale, riguarda più specificamente gli obblighi derivanti dal contratto atipico di assistenza sanitaria (o di spedalità).

La struttura, pertanto, potrà essere chiamata a rispondere per un deficit organizzativo, ai sensi dell’articolo 1218 c.c. e l’inadempimento sarà valutato dal giudice nel caso concreto tenendo conto di quello di un debitore che si uniformi ai parametri di diligenza dell’art. 1176 c.c.

Nell’infezione da COVID-19 sicuramente potrà essere chiamata a rispondere per inadempimento la struttura sanitaria o sociosanitaria, salvo che dimostri di aver osservato diligentemente le regole di condotta in quel momento accreditate dalla migliore scienza ed esperienza del settore (art. 43 c.p.). Nel caso specifico, il livello di diligenza esigibile può essere misurato in funzione delle regole cautelari acquisite in quel momento: ad esempio, aver individuato percorsi specifici per i pazienti da coronavirus o sospetti tali, aver isolato pazienti già ricoverati per altre comorbidità, aver utilizzato i dispositivi di protezione individuale adeguati.

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