Responsabilità medica e COVID-19: prime impressioni

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Autor: Luca Oliveri, Dottorando di ricerca in Diritto Privato Università di Genova. Correo electrónico: luca.oliveri@edu.unige.it

1. “Sanno tutti le condizioni del povero spirito umano, il quale non riesce a mettere in moto le sue forze di riflessione, se l’esperienza con le sue prove non colpisce dolorosamente la vita, privandola di qualche cosa che le è necessaria” (CAPOGRASSI, G.: “Il diritto dopo la catastrofe”, in Jus, 1950, p. 177).

Con queste parole, l’Autore – nell’immediato secondo dopoguerra – inizia un’analisi profonda (a tratti così diretta e tagliente da apparire addirittura sconcertante per chi legge) e del tutto priva di retorica (invero, inutile e perniciosa in tali contesti) che lo spinge ad interrogarsi su cosa il mondo, e il mondo del diritto in particolare, abbiano imparato (e dovessero ancora imparare) dalla tristissima esperienza appena vissuta. Parole mai così attuali, specie in considerazione del costante paragone (prettamente giornalistico, ma non solo) tra il nostro tempo di pandemia e quello “di guerra”: la privazione di un “qualcosa di necessario” ci aiuta a riflettere e pensare al futuro alla luce di quanto appena accaduto.

Orbene, questo paragone – che potremmo definire come un dato di fatto di tipo spiccatamente narrativo – costituisce l’utile punto di avvio della breve riflessione che si vuole qui offrire: le restrizioni alla libertà di circolazione, a causa del “confinamento” che ne deriva, pongono tutti i soggetti nelle condizioni di interrogarsi su come affrontare al meglio tutte quelle particolari situazioni sulle quali la crisi ha inciso in maniera più o meno intensa.

Il giurista, ovviamente, non può sottrarsi a tale compito (da ultimo, si veda IRTI, N.: “Il diritto pubblico e privato in un’epoca che fa eccezione”, in Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2020, p. 20: “Il diritto non è uno spettatore inerte della tempesta che infuria sul mondo. In tutti gli Stati, orientali e occidentali, il coronavirus ha determinato un’intensa e assidua produzione di norme. Questo è, per così dire, il «diritto di guerra»”) e dovrà, quindi, pensare – fin dai momenti iniziali dell’emergenza – ai nuovi problemi applicativi e alle soluzioni da predisporre: bisogna capire, dunque, se gli strumenti già a disposizione del giurista (quel famoso “strumentario giuridico”) possano risultare idonei ad affrontare la nuova, imprevista (e imprevedibile) e straordinaria contingenza e, cosa ancor più importante, tutte le sue possibili conseguenze; in caso contrario, e cioè ove si riscontri la necessità di un più puntuale intervento normativo derivante – ad avviso di chi scrive – da una assoluta impossibilità di adattamento delle norme già disponibili (o anche solo dal prevedibile esito pratico-applicativo che, nell’ottica del legislatore, non paia conforme alle sue valutazioni discrezionali, che possono essere volte a favorire un più equo e “giusto” assetto della realtà post-pandemica), si potrà allora procedere in tal senso.

A questo punto, prima di procedere oltre, penso siano necessarie due brevi premesse, una di carattere metodologico (oltre che ermeneutico), l’altra di carattere sociologico.

La prima. L’estrema rapidità di diffusione del morbo ha colto tutti di sorpresa e ha inciso in maniera profonda sulle situazioni economiche, finanziarie e produttive. Tralasciando gli interventi di ordine pubblicistico volti a minimizzare tale impatto negativo, c’è da domandarsi come il civilista abbia accolto le prime (scarne, ma apprezzabili) indicazioni legislative contenute nei provvedimenti governativi (si veda l’art. 91 del d.l. n. 18/2020, convertito, con modificazioni, nella legge n. 27/2020). Alcuni Autori (BENEDETTI, A.M.: “Il «rapporto» obbligatorio al tempo dell’isolamento: una causa (transitoria) di giustificazione?”, in Giustiziacivile.com, 3 aprile 2020) hanno prospettato, in questo peculiare frangente, la possibilità di far diventare il rapporto obbligatorio “il luogo in cui i doveri di solidarietà devono prevalere su ogni altro interesse” (p. 8). Le clausole generali, dunque, vengono viste quale strumento idoneo a favorire l’“adattamento all’emergenza”, pur “evitando automatismi eccessivi” (ibidem). Tuttavia, occorre a mio avviso riflettere sul fatto che le clausole generali sono uno strumento straordinario da utilizzare in tempi di ordinarietà, e non viceversa: esse garantiscono non soltanto l’“apertura dell’ordinamento giuridico verso la società, ma pure la capacità di far fronte alle discontinuità che possono prodursi nel futuro” (RODOTÀ, S.: “Il tempo delle clausole generali”, in Riv. crit. dir. priv., 1987, p. 715), in assenza di una disciplina positiva soddisfacente.

Le clausole generali, nei cui confronti la dottrina “si è quasi sempre riferita con giudizi altamente elogiativi”, servono come “valvola o […] polmone dell’ordinamento” (PROTO PISANI, A.: “Brevi note in tema di regole e principi”, in Foro it., 2015, V, c. 456): la loro funzione sembra quindi essere quella di garantire un rimedio eccezionale a nuovi e straordinari episodi “problematici” in cui le norme di dettaglio esistenti finirebbero per produrre risultati contrari a quella evoluzione interpretativa favorita, invece, dalle clausole generali; evoluzione capace di tener conto di una molteplicità di fattori culturali, sociali e, non da ultimo, economici. Tale evoluzione, come si è accennato, deve però godere – in considerazione della formulazione generale delle clausole – di un solido retroterra che si sia sedimentato progressivamente e significativamente nel tempo, che sia quanto più diffusamente accettato e accettabile e, quindi, idoneo a rafforzare l’interpretazione della clausola stessa in un determinato senso: essa deve essere in grado di garantire il flessibile adattamento dell’ordinamento ai nuovi tempi, senza sacrificarne – di contro – l’intrinseca coerenza e corrispondenza con il contesto. È per questo che una situazione come quella che stiamo vivendo non può – per la sua eccezionalità e, si spera, anche per la sua limitazione temporale – rappresentare quel punto di svolta interpretativa incidente sulle clausole generali (mi riferisco, naturalmente, alla solidarietà di cui all’art. 2 Cost.): se così non fosse, si rischierebbe di far deviare in maniera repentina (e, almeno potenzialmente, incontrollabile) l’attività interpretativa in una direzione che, nell’immediato, potrebbe forse sembrare quella maggiormente idonea ai tempi di crisi, ma che non è detto risulti essere, ad emergenza cessata, conforme a quello sviluppo – logicamente coerente – che l’ordinamento avrebbe avuto in mancanza dell’evento eccezionale. Di contro, e cioè qualora i postumi emergenziali (da intendersi, ovviamente, in senso stretto) dovessero essere così intensi e duraturi, di tale fattore si terrà conto nel procedimento interpretativo della clausola generale, il tutto però in un arco temporale decisamente più ampio e con l’intervento – fisiologico in tale campo – di tutti i formanti dell’ordinamento (così SCOGNAMIGLIO C.: “L’emergenza Covid 19: quale ruolo per il civilista?”, in Giustiziacivile.com, 15 aprile 2020, p. 5: la concretizzazione della clausola generale – nella specie buona fede – “richiede un approccio, per così dire, multilivello che interpella, allo stesso modo, oltre che il giudice, il legislatore ed il giurista teorico”).

La seconda. Dal momento in cui si è posta l’attenzione sulla reale e catastrofica portata degli effetti che il dilagare del virus stava producendo, i diversi mezzi di comunicazione – encomiabilmente – hanno dato il più ampio risalto alla meritoria e indefessa dedizione (che va ben oltre il semplice adempimento dei doveri lavorativi) con cui tutti gli operatori sanitari si sono prodigati nel far fronte all’emergenza. Tuttavia, bisogna evitare che il momento di riflessione a cui si è fatto riferimento in apertura tenda – una volta che l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica si sia volta altrove – a non tenere in considerazione questa (attuale) euforica e lodante gratitudine, per sfociare, in definitiva, nella ricerca di un colpevole “a qualsiasi costo”. A tal proposito, seppur in ambito penalistico (ma alcuni aspetti non possono non essere condivisi pure dal civilista), risulta assai utile la lucida riflessione svolta in un agile volumetto di recente pubblicazione (SGUBBI, F.: Il diritto penale totale, Bologna, 2019), in cui si evidenzia senza timore la sempre maggiore propensione ad attribuire grande rilevanza alle “fonti socialmente diffuse” (p. 28) al fine dell’individuazione e della punizione di un colpevole. In siffatto contesto, “i diritti della vittima sono potenzialmente infiniti e il credito morale di cui la vittima gode rende sempre giusta la sua causa” (pp. 29-30). Una precisazione. In tal modo, non si vuole affatto predicare (ma lo si vedrà meglio in seguito) il riconoscimento – a livello generale – di una causa di non punibilità, ma si vuol solo esternare la preoccupazione per i potenziali (rischiosi) esiti di un andamento ondivago («emozionale e compassionevole» direbbe il nostro Autore) di quella che – con un’espressione assai utilizzata, ma dal contenuto alquanto indefinito e fors’anco indefinibile – si suole chiamare “opinione pubblica”.

In conclusione, penso si possa notare la stretta connessione tra le due premesse e gli aspetti fortemente problematici che potrebbero scaturirne: il mutamento della disposizione d’animo nei confronti di certi soggetti, unito alla libertà interpretativa del giudice giustificata dall’emergenzialità in relazione alle clausole generali, potrebbe finire col provocare un cortocircuito del sistema, cosa da evitare in maggior misura proprio in questi momenti “particolari”. Infatti, si può “effettivamente dubitare se non sia proprio l’eccezionalità del momento a richiedere che la solidarietà sia, in questo caso, quanto più possibile governata dal legislatore” (SCOGNAMIGLIO, C.: “L’emergenza Covid 19”, cit., p. 6).

2. A questo punto, e alla luce di quanto appena detto, pare opportuno riallacciarsi alla questione iniziale, e cioè analizzare se – all’esito del giudizio di adeguatezza degli strumenti legislativi già presenti – paia o meno necessario un intervento del legislatore in via eccezionale.

L’apparato normativo a disposizione del giurista, nel campo oggetto della presente indagine, è costituito – come noto – dalla legge c.d. Gelli-Bianco (l. n. 24/2017), pacificamente applicabile alle fattispecie concrete verificatesi in questo periodo (cfr. Cass. n. 28994/2019, in Responsabilità sanitaria in Cassazione: il nuovo corso tra razionalizzazione e consolidamento. Gli speciali del Foro italiano, n. 1/2020, c. 377).

Quest’ultima nacque con il preciso obiettivo di riportare ordine all’interno di quel particolare “sottosistema” della responsabilità civile “dotato di un’intrinseca razionalità” (DE MATTEIS, R.: La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile, Padova, 1995, p. IX), stabilendo – in contrasto con quella giurisprudenza di legittimità fondata sulla teoria del “contatto sociale” (cfr. Cass. n. 589/1999, in Foro it., 1999, I, c. 3332) – la responsabilità aquiliana del medico dipendente della struttura sanitaria (art. 7, c. 3), al fine di canalizzare la “responsabilità civile in capo alle strutture” e contenere i “guasti e [gli] sprechi della medicina difensiva” (PARDOLESI, R.: “Chi (vince e chi) perde nella riforma della responsabilità sanitaria”, in AAVV.: La nuova responsabilità sanitaria dopo la riforma Gelli-Bianco (legge n. 24/2017) (a cura di F. VOLPE), Bologna, 2018, p. 42) e mantenendo, invece, il regime della responsabilità contrattuale per la struttura sanitaria (art. 7, c. 1).

Tenendo conto di questa precisa (e, si spera, non giurisprudenzialmente sovvertibile in maniera surrettizia) scelta di campo e del relativo nuovo assetto degli oneri probatori tra medico e paziente, si proverà a formulare qualche considerazione su come le problematiche legate alla diffusione del virus possano incidere su questo sistema “riformato”. Inoltre, prima di procedere, va evidenziato come – sempre nell’ottica di adeguatezza testé menzionata – l’attuale situazione possa offrire un utile “banco di prova” (quasi una sorta di stress test) per capire – a livello più generale – se la riforma della responsabilità sanitaria – arricchita da alcuni orientamenti della giurisprudenza – sia adatta a regolare, se non proprio tutte le fattispecie caratterizzate dall’emergenzialità (e, quindi, non solo quelle legate ad un singolo e peculiare evento), almeno una buona parte di esse (ancorché, allo stato, non prefigurabili compiutamente nel loro concreto sviluppo): il grado di elasticità, dunque, è il parametro da utilizzare per il giudizio (immediato) a cui si cerca qui di dare risposta, giudizio i cui esiti possono però ritenersi suscettibili di influenzare fin d’ora anche le future valutazioni, il tutto con l’indubbio vantaggio di non dover ricorrere alle già menzionate clausole generali.

Come detto, la responsabilità del medico è qualificata come extracontrattuale, stante l’esplicito richiamo all’art. 2043 c.c. operato dall’art. 7, comma 3. Di conseguenza, per poter ravvisare una sua responsabilità, si dovrà fare riferimento a tutti gli elementi previsti dalla norma richiamata e procedere ad una puntuale verifica della loro sussistenza. Non si vuole in questa sede ripercorrere l’evoluzione giurisprudenziale sul tema e, pertanto, ci si soffermerà su di un singolo aspetto, e cioè quello relativo all’imputabilità al medico del fatto dannoso subito dal paziente.

Preliminarmente, non può non segnalarsi come, oggigiorno, il paziente che scelga di agire in giudizio contro il medico (sul tema dell’azione nel nuovo sistema si veda TURCI M.: “L’azione diretta del soggetto danneggiato nel quadro della nuova responsabilità sanitaria”, in Responsabilità medica, 2019, p. 455 ss.) e debba sottostare al più rigido regime probatorio sembri quasi mosso da un odium medici: tale atteggiamento può forse spiegarsi alla luce di quanto si è appena esposto nel paragrafo precedente, e cioè la necessità di trovare un soggetto “persona fisica” a cui addossare la “colpa” (da intendersi non in senso proprio) di quanto accaduto, come se non bastasse – eventualmente – vedere condannata una struttura “impersonale”.

Differenza probatoria sull’imputabilità, si è detto. Come noto, in ambito extracontrattuale i criteri previsti dal codice civile (e qui fruibili) sono la colpa o il dolo: si ritiene maggiormente interessante analizzare il primo criterio, anche per la sua intrinseca maggiore complessità rispetto al secondo. I primi tre elementi richiamati dall’art. 43 c.p. per la descrizione della colpa sono la negligenza, l’imprudenza e l’imperizia, ed è in relazione a tali parametri che devono essere valutate le diverse possibili condotte del medico causative di un danno alla persona, condotte che paiono essere – “grosso modo” – sussumibili in tre grandi (e classiche) macro-categorie: a) danni per omessa o tardiva diagnosi; b) danni da contagio e c) danni per cure non appropriate.
3. La tempestiva diagnosi (per una più completa trattazione dell’errore diagnostico si rinvia a ZENO-ZENCOVICH, V.: La sorte del paziente. La responsabilità del medico per l’errore diagnostico, Padova, 1994 e, per la casistica esaminata, GRIBAUDI, M.N.: “Il danno da perdita di chance”, in La responsabilità medica (a cura di N. TODESCHINI), Milano, 2016) di un virus che è stato fin da subito connotato da un altissimo indice di contagiosità (in un’analisi condotta da numerosi studiosi – tra cui molti dell’Istituto Superiore di Sanità –, apparsa sul sito medrxiv.org l’11 aprile 2020 e successivamente menzionata dal sito istituzionale del Ministero della Salute italiano, dal titolo “Epidemiological characteristics of COVID-19 cases in Italy and estimates of the reproductive numbers one month into the epidemic”, si può leggere, a p. 2: “The COVID-19 infection in Italy emerged with a clustering onset similar to the one described in Wuhan […]. Initial R0 at 2·96 in Lombardia, explains the high case-load and rapid geographical spread observed”) pare essere un fattore assai rilevante con riguardo alla necessità di prestare, altrettanto rapidamente, i primi soccorsi (per le cure si rimanda a quanto si dirà infra) e, di conseguenza, diminuire il rischio di complicanze “severe” e, almeno potenzialmente, l’esito letale della patologia.

Sulla base di queste prime – e, dunque, parziali – evidenze scientifiche potrebbe affermarsi la sussistenza in capo al medico di una responsabilità per omessa diagnosi ove lo stesso non abbia riconosciuto i sintomi del morbo, in quanto sembrerebbe riscontrabile un nesso di causalità (materiale) tra la condotta del medico e l’esito infausto (in generale, sul nesso di causalità in relazione alla legge Gelli-Bianco, si veda DI CIOMMO, F.: “Casualità verso causalità: scienza e natura, determinazione e destino nella (nuova?) responsabilità medica”, in La nuova responsabilità sanitaria, cit., p. 85 ss.). Sennonché, alcuni elementi di fatto finiscono con l’incidere sull’imputabilità a titolo colposo della condotta di omessa o tardiva diagnosi. Il primo è costituito dalla “poca specificità dei sintomi comuni dell’infezione da coronavirus” (dalla pagina “Sintomi e diagnosi” del sito dell’Istituto Superiore di Sanità): fin dai primi momenti di manifestazione della malattia gli esperti hanno evidenziato non solo la presenza (numericamente non affatto trascurabile) dei soggetti cc.dd. asintomatici (i quali, non manifestando effetti empiricamente riscontrabili del contagio, possono essere ritenuti meno a rischio di esiti critici o fatali e, pertanto, in tal caso, verrebbe a mancare l’elemento finale del “danno” nel giudizio di responsabilità per omessa diagnosi), ma anche la possibilità che i primi sintomi siano confusi vuoi dal paziente vuoi dal medico quale manifestazione di un’altra patologia (quale, ad esempio, l’influenza stagionale).

È per questo motivo (ed ecco il secondo elemento di fatto) che lo strumento maggiormente raccomandato a fini diagnostici era (o è ancora? Il dibattito sull’utilizzo del mezzo dell’analisi sierologica entra ora nel vivo) costituito dagli ormai noti “tamponi”, ma pure tali strumenti hanno presentato – in un numero non indifferente – una non totale affidabilità (“However, due to intrinsic limitations […], sensitivity of RT-PCR at initial presentation ranges between 60% and 71%”, “Chest CT Features of COVID-19 in Rome, Italy”, reperito sulla pagina internet della Rivista Radiology, 3 aprile 2020, p. 3). Inoltre, sempre con riguardo ai mezzi diagnostici, va doverosamente notato come la tomografia computerizzata (CT) al torace presenti un grado di sensibilità maggiore (“the diagnostic performance of chest CT in this study was in accordance with recently published data. Using RT-PCR as reference, we report a high sensitivity of 97%, moderate specificity of 56% and accuracy of 72%”, p. 8), ma si consenta di dubitare della concreta praticabilità di una soluzione diagnostica diffusa in tal senso orientata: l’enorme ed improvviso afflusso di pazienti con esito positivo del “tampone” avrebbe comportato la necessità di sottoporre tutti (o quasi) a questo ulteriore esame ospedaliero (siccome non si potrebbe escludere, perfino in presenza di sintomi lievi dovuti forse ad una prima forma di manifestazione del morbo, una successiva degenerazione della patologia, e questo rileverebbe dal punto di vista del nesso causale, sub specie della causa produttiva dell’effetto finale), soluzione decisamente non percorribile per la sproporzione tra numero di prestazioni richieste e macchinari disponibili.

Quanto appena esposto non deve far credere – ma lo si è già detto – che chi scrive auspichi l’introduzione di una nuova causa di non imputabilità, e ciò in quanto i criteri di valutazione della colpa sono sufficientemente elastici da poter tenere in debito conto tutte queste peculiari situazioni di fatto: la perizia dovrà essere valutata alla luce non tanto delle conoscenze mediche già in possesso di ciascun sanitario (le quali – ovviamente – non possono essere ancora possedute in relazione alla presente patologia virale in ragione della novità della stessa), ma di quelle che saranno fornite dalla comunità scientifica sulla base delle evidenze progressivamente ottenute dai diversi studi (in generale, sulla inaccettabile pretesa di “onniscienza” del medico e sulla necessaria valutazione «di tutti gli elementi del fatto concreto», si vedano le puntuali osservazioni di MARCHISIO E.: “Evoluzione della responsabilità civile medica e medicina “difensiva””, in Riv. dir. civ., 2020, p. 209). In tal caso, dunque, non sembrano sussistere particolari problemi nell’applicazione della regola di cui all’art. 2236 c.c., siccome tale norma “introduce un criterio di valutazione dell’operato professionale da fondarsi su parametri oggettivi” (così DE MATTEIS, R.: Le responsabilità in ambito sanitario. Il regime binario: dal modello teorico ai risvolti applicativi, Milano, 2017, p. 345).

I dati di fatto (e, dunque, elementi oggettivi) sopra menzionati paiono ben adatti, invero, ad entrare nel giudizio circa la perizia dell’operato del medico (contra, sul punto, FACCIOLI M.: “Il ruolo dell’art. 2236 c.c. nella responsabilità sanitaria per danni da COVID-19”, in rivistaresponsabilitamedica.it, p. 4), con l’indubbio vantaggio, inoltre, di essere facilmente dimostrabili da quest’ultimo (soggetto su cui grava, per costante orientamento giurisprudenziale, l’onere di provare gli elementi integranti il regime di prova maggiormente favorevole di cui vuole giovarsi).

Tuttavia, il medico, nello svolgimento delle sue prestazioni, dovrà mantenere dei livelli adeguati di diligenza e prudenza, onde evitare di incappare nel giudizio di responsabilità per non aver rispettato questi due ulteriori criteri, criteri che però dovranno essere apprezzati dal giudice – specie in sede di merito – in relazione alle concrete modalità in cui i soggetti hanno prestato le loro attività (sono noti i ritmi di lavoro estenuanti a cui i medici e, più in generale, gli operatori sanitari sono sottoposti in tale contesto e omettere tale incontrovertibile risultanza dal processo costituirebbe non solo una patente ingiustizia, ma anche una scelta del tutto illogica).

In definitiva, per quanto concerne questo primo aspetto di possibile responsabilità degli operatori sanitari, non può che rilevarsi come il ruolo del giudice sia particolarmente importante e delicato, ma non sprovvisto degli strumenti normativi per poter valutare compiutamente le vicende concrete sottoposte alla sua attenzione.

4. La seconda macro-categoria di danni presa in esame è quella “da contagio”. Con tale espressione, si intende qui fare riferimento a tutti quegli ipotizzabili comportamenti per cui il medico o è diretto vettore del virus (perché malato) o utilizza sul paziente strumenti non igienizzati (o non sterili). Ebbene, la prospettiva rispetto al punto precedente sembra ora capovolgersi, in virtù del fatto che la perizia richiesta per utilizzare i dispositivi tipici della professione e per la loro disinfezione non richiede significative modificazioni dovute alla peculiare contingenza: riacquisiranno pertanto maggiore rilievo la diligenza e la prudenza.

Sul primo punto, emerge un altro elemento che ha caratterizzato l’intera vicenda, costituito dalla necessità di mantenere in servizio, a causa del numero non sufficiente di personale, quei medici che – pur infettati – fossero ancora in grado di espletare le loro mansioni. In questo caso, al medico è richiesto, mediante l’utilizzo di dispositivi di protezione, il rispetto di uno standard di diligenza nel non contagiare altri soggetti che è da quest’ultimo facilmente osservabile grazie alle competenze precedentemente acquisite; ove, invece, il medico malato – seppur diligente e prudente – abbia contagiato (sempre nell’esercizio delle mansioni, giova ricordarlo) altri soggetti a causa della mancanza di dispositivi di protezione individuali, la responsabilità andrà posta in capo ad altri soggetti, in particolar modo a coloro che ricoprono ruoli organizzativi e gestionali (il tema meriterebbe un’analisi approfondita che non può qui essere svolta. Ci si limita a rinviare a FACCIOLI, M.: La responsabilità civile per difetto di organizzazione delle strutture sanitarie, Pisa, 2018, in particolare pp. 62-64 e alla dottrina citata).

Sul secondo punto, invece, si ritiene non applicabile all’attività di disinfezione degli strumenti (riconducibile al più generale tema delle infezioni nosocomiali, per il quale si rimanda a DE MATTEIS, R.: Le responsabilità in ambito sanitario, cit., p. 250 ss.) l’art. 2236 c.c., in virtù del “carattere del tutto ordinario d[elle] operazioni” (FACCIOLI M.: “Il ruolo dell’art. 2236 c.c.”, cit., p. 4): di conseguenza, il medico e gli operatori sanitari dovranno tenere una condotta diligente e prudente onde evitare di utilizzare strumenti infetti su pazienti sani (la problematica, invero, potrebbe essere limitata dalla predisposizione – come è stato fatto – di appositi percorsi per i soggetti infetti o potenzialmente infetti, così da limitare tanto il contatto tra pazienti transitanti nella struttura per altre patologie, quanto la promiscuità di ambienti e personale dedicati ai differenti ambienti). In ogni caso, va altresì rilevato, come – in sede processuale – debba essere dimostrato – con qualsiasi mezzo di prova – un nesso di causalità materiale tra il singolo comportamento del medico e l’evento “contagio”: le circostanze concrete finiscono (nuovamente) col costituire l’elemento essenziale della valutazione giudiziale, senza che si debba inutilmente generalizzare.

5. Come accade in relazione a tutte le nuove patologie, le cure da prestare ai malati rappresentano un aspetto molto problematico, in quanto basate su studi parziali e non confortate da un consolidamento temporalmente esteso (specie per quanto riguarda le possibili controindicazioni dei farmaci somministrati, spesso prodotti per la cura di malattie differenti). Siffatta problematica si è presentata in maniera ancor più complessa in riferimento al COVID-19. Infatti, in base ai dati pubblicati l’8 maggio dall’ISS (pagina internet istituzionale), è possibile rilevare come l’età media dei deceduti (80 anni) aumenti sensibilmente rispetto a quella media dei contagiati (62 anni): la popolazione colpita con esito letale è particolarmente anziana ed è ulteriormente caratterizzata da un pregresso stato di commorbosità non irrilevante (il 59,9% dei deceduti presentava 3 o più patologie, il 21,3% presentava 2 patologie; le più frequenti sono, nell’ordine: ipertensione arteriosa, diabete di tipo 2 e cardiopatia ischemica). Il medico chiamato a curare questa particolare tipologia di pazienti ha un compito non facile già in condizioni di normalità (sul rapporto tra linee guida e polifarmacoterapia, si veda l’esempio contenuto in FRANZONI, M.: “Colpa e linee guida nella nuova legge”, in Danno e resp., 2017, pp. 277-278), compito che si complica ancor di più laddove – come nel caso di specie – deve essere valutata attentamente l’opportunità di somministrare farmaci che, oltre ai loro (possibili) effetti collaterali, rischiano anche di interferire con quelli necessari per la cura delle patologie pregresse (sul sito dell’AIFA è presente una ricca pagina di suggerimenti e avvertenze per quanto concerne diversi medicinali).

Questo dato di fatto deve essere tenuto in debito conto nell’eventuale giudizio di responsabilità nei confronti del medico; di contro, la rilevanza di quest’ultimo potrà ridursi (ma mai azzerarsi a causa di quanto si è detto poco sopra) qualora il paziente che si ritiene leso per aver ricevuto farmaci non appropriati non presentasse patologie preesistenti oltre al COVID-19. Pertanto, torna in risalto la necessità di una scrupolosa analisi del fatto nelle sue specificità concrete, specificità sempre diverse da caso a caso e, quindi, non suscettibili di aprioristica trattazione unitaria.

6. In queste brevi – e, perciò, frammentarie e incomplete – riflessioni, si spera di essere riusciti a far emergere tanto i principali aspetti problematici della responsabilità del medico, quanto l’adeguatezza degli strumenti che il giudice avrà a disposizione in ipotetici (e si spera non numerosi) procedimenti. La precisa scelta di campo del legislatore del 2017 in favore della responsabilità di tipo aquiliano del medico (scelta che si colloca all’interno di un movimento “oscillatorio” nel tempo tra i diversi regimi di responsabilità del medico e il rispettivo rigore probatorio, come evidenziato da MARCHISIO, E.: “Evoluzione della responsabilità civile medica”, cit., pp. 189-191) è dunque assai utile e pienamente opportuna in questo preciso contesto, e ciò in ragione della intrinseca elasticità delle norme codicistiche che regolano la materia, norme che sembrano idonee a disciplinare anche situazioni “emergenziali”.

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