Autora: Maria Rita Nuccio, Ricercatore t.d. diritto privato, Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. Correo electrónico: maria.nuccio@uniba.it
1. Le restrizioni imposte dall’emergenza Covid-19 hanno inciso profondamente sulla domanda di accesso ai patrimoni culturali e di partecipazione a manifestazioni d’arte. Scongiurata una sua totale contrazione, come dimostra il successo di iniziative supportate dal Mibact di virtualizzazione e condivisione via web di contenuti culturali, si ragiona su soluzioni da adottare per soddisfare un rinnovato bisogno di conoscenza, espresso da una collettività segnata dalla perdurante osservanza di limitazioni alle libertà personali. Lo sforzo in tale direzione è importante e vale la pena compierlo al fine di non sciupare gli ottimi risultati conseguiti con investimenti e interventi normativi per la promozione della cultura. A tale scopo va associato l’obiettivo del rilancio di attività produttive che soffrono gli effetti della pandemia e le cui dinamiche dipendono dalla gestione efficiente delle bellezze protette (CAMMELLI, M.: “Pandemia: the day after e i problemi del giorno prima”, in Aedon, 1, 2020). Si considerino le difficoltà che attualmente impensieriscono gli operatori del turismo. Queste, se non adeguatamente fronteggiate, rischiano di destabilizzare l’economia nazionale, costringendo a rivedere in negativo le stime di crescita già ampiamente ritoccate al ribasso in conseguenza del lockdown.
Sembra, dunque, imminente l’avvento di una rivoluzione nelle abitudini sociali, destinata a modificare radicalmente anche e modalità di godimento delle risorse di interesse artistico culturale. Incoraggiare lo sviluppo tecnologico a servizio dell’arte rappresenta una valida strategia per affrontarla.
Non si tratta di ripensare il sistema di fruizione, che da tempo ormai si avvale dell’impiego di nuove tecnologie. Si tratta piuttosto di percorrere con passo più deciso una strada in passato intrapresa e sfruttare i benefici delle sperimentate collaborazioni pubblico-privato a supporto dell’innovazione (VELANI, F.: Una finestra virtuale sul futuro dei beni culturali, Lucca, 2011, p. 90 ss.; BATTELLI, E.: “I soggetti privati e la valorizzazione del patrimonio culturale”, in AA.VV.: Patrimonio culturale. Profili giuridici e tecniche di tutela (a cura di E. BATTELLI, B. CORTESE, A. GEMMA, A. MUSSARO), Roma, 2017, p. 66 s.; NUCCIO, M.R.: “Innovazione e valorizzazione dei beni culturali: profili giuridici e prospettive di sviluppo”, in Foro nap., 2017, p. 443 ss.).
Nel circoscrivere l’attenzione ai beni culturali, si registra una consolidata tendenza ad avvalersi delle potenzialità del digitale nello svolgimento di attività di tutela e valorizzazione, oggetto di crescente interesse dell’autonomia privata (SBARBARO, E.: “Codice dei beni culturali e diritto d’autore: recenti evoluzioni nella valorizzazione e nella fruizione del patrimonio culturale”, in Riv. dir. ind., 2016, p. 63 ss.). Invero l’implementazione delle tecnologie nell’àmbito considerato ha molti pregi giacché: permette di coniugare tutela e valorizzazione, anacronisticamente pensate come finalità perseguibili in maniera indipendente, ossia escludendo che l’una possa concorrere alla realizzazione dell’altra; favorisce la cooperazione interistituzionale (es. tra organismi cui compete la gestione dei patrimoni e il mondo della ricerca scientifica); rafforza il partenariato, atteso che le spinte verso l’innovazione provengono spesso dal basso, da mercati in espansione (SAU, A.: “Le frontiere del turismo culturale”, in Aedon, 1, 2020; D’ANGELOSANTE, M.: “La ‘cura’ dei beni culturali come beni di interesse pubblico: opacità, tendenze e potenzialità del sistema”, in federalismi.it).
Quanto al primo aspetto, si costata che la valorizzazione virtuale oltre a rafforzare la capacità attrattiva dei beni incentiva la pianificazione di moderni interventi di tutela. Si esige, infatti, che il materiale sul quale operare sia trattato con tecniche di conservazione all’avanguardia, che consentano di perfezionare l’elaborazione di contenuti condivisi su piattaforme on line.
In questo contesto il disegno costituzionale, a favore di una democrazia culturale, trova concreti margini di realizzazione, potendo contare sull’impiego di efficienti mezzi di diffusione della conoscenza. Questi, nel facilitare l’accesso a entità materiali e immateriali rappresentative di valori identitari, aiutano a consolidare legami di solidarietà sociale (Corte cost., 9 marzo 1990, n. 118, in Giur cost., 1990, p. 660 ss. con nota di RIGANO, F.: “Tutela dei valori culturali e vincoli di destinazione d’uso dei beni materiali”). Spetta alla ‘Repubblica’ la promozione dello “sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”, alla “Nazione” “la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico” (MERUSI, F.: “Art. 9”, in AA. VV.: Commentario della Costituzione (diretto da G. BRANCA), 1, Bologna Roma, 1975, p. 434 ss.; CECCHETTI, M.: “Art. 9”, in AA.VV.: Commentario alla Costituzione (a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVIERI), I, Torino, 2006, p. 217 ss.; FLICK, G.M.: “L’articolo 9 della Costituzione: dall’economia di cultura all’economia della cultura. Una testimonianza del passato, una risorsa per il futuro”, in Rivista AIC, 2015; RIMOLI, F.: “La dimensione costituzionale del patrimonio culturale: spunti per una rilettura”, in Riv. giud. ed., 2016, p. 505 ss.). L’oculata selezione dei termini, operata dal legislatore costituente per la formulazione dell’art. 9 cost., non lascia dubbi su una responsabilità condivisa nell’attuazione della disciplina richiamata, egualmente ripartita tra istituzioni e cittadini. È compito dello Stato preservare le bellezze e le espressioni d’arte, degli Enti intervenire nel rispetto delle competenze definite dall’art. 117 cost. Potendo, poi, su questo fronte stimolare l’iniziativa negoziale, va sostenuta una sinergia rivolta, nel rispetto della sussidiarietà, all’adempimento diffuso di una funzione gestoria dei patrimoni protetti. Quando investe l’agire dei privati, questa condizione è realizzata dall’osservanza di restrizioni che qualificano il rapporto instaurato con beni assoggettabili a speciali regimi proprietari (LONGOBUCCO, F.: “Beni culturali e conformazione dei rapporti tra privati: quando la proprietà obbliga”, in AA.VV.: Patrimonio culturale, cit., p. 213. In merito all’incidenza del profilo funzionale sulla determinazione dello statuto normativo dei beni v. PERLINGIERI, P.: Introduzione alla problematica della «proprietà», Napoli, 1ª rist., 2011, p. 38; SCOZZAFAVA, O.T.: I beni e le forme giuridiche di appartenenza, Milano, 1982, p. 563 ss.; D’ADDINO SERRAVALLE, P.: I nuovi beni e il processo di oggettivazione giuridica: profili sistematici, Napoli, 1998, p. 18 ss.; NAZZARO, A.C.: Oggettività giuridica dei beni produttivi. Contributo allo studio dei rapporti di affitto, Napoli, 2002, pp. 50 e 88; CARAPEZZA FIGLIA, G.: Oggettivazione e godimento delle risorse idriche, Napoli, 2008, p. 164 ss.).
Recenti misure normative paiono sposare il fine della necessaria integrazione dei profili intorno ai quali si compone il quadro delle competenze, risultando improntate sulla logica della ‘valorizzazione per la tutela’ e ispirate dall’idea che la seconda costituisca un presupposto indefettibile della prima (Corte cost., 13 gennaio 2004, n. 9, in Giur cost., 2004, p. 185 (con nota di MARINI, F.S.: “La «tutela» e la «valorizzazione dei beni culturali» come «materie-attività» nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale”). Si osservi quanto disposto a favore del decentramento delle funzioni ai Musei, beneficiari di un riformato modello di organizzazione e funzionamento. La ridefinita ripartizione di competenze, a livello centrale (Stato-Mibact) e periferico, ha comportato un ampliamento del raggio di azione dei Poli Museali, i quali, risultando affidatari di funzioni di valorizzazione sono stati indotti a riformulare la propria offerta culturale con interessanti ricadute sul turismo. Nel farlo, essi hanno colto il valore della tecnologia che è stata sfruttata per avviare una massiccia opera di divulgazione di collezioni museali attraverso la rete, di cui si è goduto nei giorni di chiusura per il controllo del contagio da Covid-19.
Il ricorso alla TIC ha investito più fronti: quello della conservazione (e quindi tutela), a beneficio in particolare di beni sottratti all’esposizione fisica; della fruizione, con traghettamento della stessa nella dimensione virtuale; della riproduzione dell’immagine di beni custoditi, tramutatasi in una vera e propria attività di creazione di nuovi prodotti culturali (DE MEO, R.: “La riproduzione delle opere museali fra valorizzazione culturale ed economica”, in Dir. inf., 2019, p. 669 ss.). Ed è proprio nella fase più pesante della pandemia che sono stati apprezzati gli effetti positivi di un’azione così strutturata, della quale ha tratto vantaggio un’inaspettata (quanto a volumi rilevati) platea di fruitori. Si auspica, allora, che i problemi economici paventati, in ragione di un atteso e probabilmente inevitabile, abbattimento dei flussi finanziari pubblici, non inducano a ripensare politiche fruttuose di sostegno alla cultura – tra le quali, spicca proprio il riconoscimento dell’autonomia speciale degli enti museali (CAMMELLI, M.: “Pandemia: the day after e i problemi del giorno prima”, cit.) – nonché ad arrestare il confronto con gli operatori del mercato dell’innovazione.
2. Come premesso, molteplici sono le possibilità di impiego degli strumenti tecnologici acquisiti, o in fase di sperimentazione. Si spazia dalla virtualizzazione di opere con produzione di contenuti digitali, alla realizzazione di piattaforme per la condivisione dei risultati ottenuti, alla creazione di beni culturali per i quali invocare la protezione garantita dalle privative. È incontestabile che le TIC abbiano accresciuto le aspettative di fruizione pubblica dei patrimoni e in molti casi contribuito alla tutela e alla valorizzazione di quelli immateriali, ossia di privi di res tangibili eppure ricchi di testimonianze declinate in forma di tradizioni, abitudini di vita, espressioni coreutiche, canore e musicali in generale. A queste ultime si guarda con apprensione atteso che le occasioni di replica dipendono dalle performances degli artisti, attualmente impossibilitati a esercitare la loro professione. Il sostegno economico, loro riservato con il decreto “Cura Italia” (v. artt. 88-90, d.l. 17 marzo 2020, n. 18), rischia di costituire un mero palliativo se ad esso non segue un piano di rilancio delle arti e dello spettacolo con rideterminazione delle condizioni di fruizione, nel rispetto dei canoni sanitari di precauzione e sicurezza.
Salutato come volano di sviluppo sociale ed economico, il fenomeno osservato presenta criticità meritevoli di riflessione. L’impiego delle tecnologie se non adeguatamente presidiato, può determinare un’incontrollata diffusione di conoscenze, con l’effetto di azzerare il valore immateriale dei beni tutelati.
Risulta, infatti, illusorio pensare che l’apprezzamento di detto valore – sul quale si appunta l’interesse generale alla fruizione – costituisca un fine perseguibile “sempre” e “ad ogni costo” agevolando le occasioni di relazione con il bene o con la sua rappresentazione. La tecnologia asseconda questa tendenza ma può favorire usi abusivi dei contenuti culturali in assenza di uno specifico programma di valorizzazione da attuare. Si profila all’orizzonte il rischio di una “mercificazione”, correlato all’affermazione di comportamenti guidati dalla logica dell’affare che non risparmia il mondo dell’arte. Eppure, segnali incoraggianti provengono da note esperienze di sponsorizzazione sostenute da aziende titolari di famosi marchi, disposte a finanziare ingenti opere di recupero o restauro di monumenti. Le operazioni attengono a politiche di marketing che mirano a veicolare profili reputazionali costruiti su valori etici sacrificati dal consumo (FIDONE, F.: “Il ruolo dei privati nella valorizzazione dei beni culturali: dalle sponsorizzazioni alle forme di gestione”, in Aedon, 2012; BATTELLI, E.: “I soggetti privati e la valorizzazione”, cit., p. 72. Per un’ampia analisi del fenomeno v. DE GIORGI, M.V.: Sponsorizzazione e mecenatismo, Padova, 1998).
A ciò deve aggiungersi che il modello di società complessa e inclusiva, conformante l’attuale convivenza civica, ammette l’uso delle TIC a condizione che la relazione tra smart e utile sia praticamente sostenibile. Attività strutturate su prestazioni integrate attraverso il canale tecnologico, e basate sullo sfruttamento del valore non utilizzato di beni a godimento plurimo, potrebbero incontrare un interesse economico che mal si coniuga con quello collettivo all’accesso.
Per l’àmbito considerato, il pericolo di una disseminazione di conoscenze realizzata per mero profitto – come tale in grado di sminuire il valore della fruizione dei beni protetti – può essere agevolmente scongiurato. Un utile presidio si riscontra nelle discipline applicabili all’uso dei risultati dei processi di valorizzazione digitale, a partire da quelle contenute negli artt. 107 e 108 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.l.g. 22 gennaio 2004, n. 42) e nell’art. 11, comma 1 bis, d.lg. 36/2006. Lo sfruttamento dell’immateriale economico dei beni va sostenuto se accresce le opportunità di godimento: tanto basta per ritenere realizzato un fine socialmente apprezzabile. Sì che paiono infondati i dubbi sollevati sulla compatibilità con i principi costituzionali della copertura garantita dalla proprietà intellettuale alle immagini di bellezze, non sottoposte alla pubblica vista, suscettibili di riconduzione nella categoria dei beni comuni (BARBATI, C., CAMMELLI, M., CASINI, L., PIPERATA, G., SCIULLO, G.: Diritto del patrimonio culturale, Bologna, 2017, p. 52; cfr., in argomento, MADDALENA, P.: Il territorio come bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico, Roma, 2014. In tema di beni comuni v., ex multis, PERLINGIERI, P.: “Normazione per princípi: riflessioni intorno alla proposta della Commissione sui beni pubblici”, in Rass. dir. civ., 2009, p. 1184 ss.). In particolare, non convince la tesi sviluppata sulle licenze rilasciate dai musei per le attività di digitalizzazione con autorizzazione all’uso in esclusiva delle immagini elaborate. Si dubita, infatti, che le politiche di licensing policies ostacolino la circolazione di conoscenza e con essa la crescita culturale (DE MEO, R.: “La riproduzione digitale delle opere museali fra valorizzazione culturale ed economica”, cit., p. 670). La loro attuazione consente agli enti museali di finanziare l’attività di conservazione attraverso l’incasso delle royalties e ai licenziatari di ripagare l’investimento sostenuto traendo beneficio dal regime di esclusiva negoziato, scaduto il quale si ricostituisce un diritto di riuso che consente l’offerta in modalità open data dei contenuti digitali.
Orbene il più efficace incentivo all’innovazione proviene proprio dal riconoscimento di tutele basate sulla logica dell’esclusiva. Eliminare quest’effetto in un settore, quale quello dell’arte, che ha necessità di cogliere le sfide dell’evoluzione sociale comporta dover privare la collettività e le future generazioni di benefici più facilmente conseguibili attraverso l’investimento imprenditoriale in innovazione (ROSSI, M.A.: “Innovazione, conoscenza ed allocazione dei diritti di proprietà intellettuale nelle reti di imprese”, in AA.VV.: Reti di imprese tra regolazione e norme sociali. Nuove sfide per diritto ed economia, Bologna, 2004, p. 342). Per l’affidatario di servizi digitali esternalizzati, un ritorno economico che garantisca, oltre alla copertura dei costi, margini di profitto tali da consentire il rifinanziamento dell’attività esercitata, rappresenta una condizione irrinunciabile. Del resto, in un momento di grave crisi della finanza pubblica – acuito dagli effetti dell’epidemia in corso – la strada del sostegno al privato, anche attraverso l’espediente del riconoscimento dei diritti evocati – si noti, strutturalmente non aderenti allo schema proprietario classico – è percorribile; anche se la stessa incrocia i sentieri tracciati da discipline che dispongono particolari registri di fruizione in ragione della soddisfazione dell’interesse generale al godimento del valore culturale delle res.
È nell’ottica, dunque, della crescita condivisa – del pubblico che si avvale del privato per adeguare l’offerta di cultura alle dinamiche espresse da una società nel pieno del suo sviluppo informatico, e del privato che si approccia al pubblico sostenendo progetti innovativi pensati come proficue occasioni di espansione – che vanno analizzate le pratiche di: catalogazione e recupero digitale di opere, globalizzazione di contenuti, creazione di prodotti con mezzi che consentono di superare il limite della materialità e trattare la trasposizione digitale del bene come “testimonianza avente valore di civiltà”. L’approccio consigliato sembra, peraltro, incontrare lo spirito del codice dei beni culturali, che abbraccia una visione dinamica delle risorse da tutelare allorché, in punto di qualificazione, riserva centralità a utilità funzionali che permettono di scorgere in esse valori, strumenti di tradizione, simboli di un’identità da preservare.
3. Il successo della tecnologia applicata all’arte, nella sua accezione più ampia, ha radicato nella collettività l’idea che ciò che attualmente risulta inesplorato, in un futuro non lontano sarà largamente fruibile. Centrale, tal fine, è il ruolo svolto da internet che – come appurato nella fase più difficile della lotta al Covid-19 – già consente visite virtuali di musei o esplorazioni di siti archeologici. La rete si impone, peraltro, all’attenzione come laboratorio di creatività. Lo dimostra il recente fenomeno della Net art. Il valore delle manifestazioni d’arte che lo connotano lascia ipotizzare che la categoria dei nuovi beni culturali subirà un sostanzioso incremento. Tutto ciò a condizione che si accolga una nozione aperta di risorse da proteggere e valorizzare, e, dunque, si opti per una qualificazione non fondata su una concezione materialista ed estetizzante della res ma che esalti il valore culturale estratto dalla valutazione della componente immateriale (GIANNINI, M.S.: “I beni culturali”, in Riv. trim., 1976, p. 3 ss. Sulla concezione che ha ispirato la definizione di beni culturali contenuta nel c.b.c.p., v. in particolare AINIS, M., FIORILLO, M.: “I beni culturali”, in Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo speciale (a cura di S. CASSESE), II, Milano, 2003, p. 1463 ss. Sulla configurazione teorica dei beni culturali v. PASA, B.: “Beni culturali (Diritto dell’Unione europea)”, in Dig. disc. priv., Sez. civ., agg., V, Torino, 2010, p. 73 ss.; CASSESE, S.: “Il futuro della disciplina dei beni culturali”, in Giorn. dir. amm., 2012, p. 781 ss.; MORBIDELLI, G., “Il valore immateriale dei beni culturali”, in Aedon, 1, 2014; BARTOLINI, A.: “Il bene culturale e le sue plurime concezioni”, in Dir. amm., 2019, p. 223 ss.].
Giova, a questo punto, verificare se l’ordinamento dispone dei mezzi necessari per sostenere l’innovazione a favore dell’arte e, se del caso, fronteggiare l’uso abusivo delle tecnologie.
Come prima ipotesi di studio si considerino le esperienze della valorizzazione digitale. La più nota è la riproduzione, che può riguardare: materiale destinato a cataloghi di mostre; libri d’arte; merchandising museale; contenuti caricabili su siti web o su piattaforme virtuali, accessibili previa installazione di app.
Quando non è effettuata dalla Pubblica Amministrazione, la riproduzione sottostà al regime autorizzatorio. Il rilascio dell’autorizzazione è atto discrezionale, e segue valutazioni effettuate dall’Ente che ha in consegna i beni su oggetto e fine della riproduzione, sulla compatibilità dell’attività con la dignità storico-artistica delle risorse, nonché sulla metodica seguita. Ci si muove nel campo definito dall’art. 107 c.b.c.p. Il successivo art. 108 c.b.c.p. prevede il pagamento di corrispettivi di riproduzione e canoni di concessione.
Vi sono, poi, delle eccezioni alla regola dell’utilizzo per la riproduzione a titolo oneroso. Queste riguardano le iniziative dei privati, supportate da motivi di studio o intraprese per un uso personale, nonché quelle pubbliche e private di valorizzazione senza scopo di lucro (es. banche dati pubbliche on line; brochure informative o promozionali di un territorio).
Semmai qui è contemplato un rimborso per le spese sostenute dall’amministrazione concedente.
Il tutto deve armonizzarsi con quanto previsto dalla Direttiva 790/2019/UE diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale, che modifica le Direttive 96/9/CE e 2001/29/CE. L’art. 6, della citata fonte, limita l’eccezione alla disciplina europea sul copyright a vantaggio degli istituti di tutela del patrimonio culturale per la realizzazione di “copie di qualunque opera o altri materiali presente in maniera permanente nelle loro raccolte, in qualsiasi formato o su qualsiasi supporto”. L’eccezione è ammessa a fini conservativi e “nella misura necessaria [alla] conservazione”.
A seguito delle modifiche apportate dal decreto Artbonus (2014) si è realizzata una sostanziale liberalizzazione delle riproduzioni dei beni culturali, diversi da quelli bibliografici e archivistici, nonché delle divulgazioni di immagini legittimamente acquisite (v. visitatori di musei che caricano foto relative ad opere visitate su social networks). Ricorre, tuttavia, il limite dell’assenza dello scopo di lucro.
Quanto riportato induce ad affermare che la scelta di assecondare le spinte verso la liberalizzazione proviene da un legislatore accorto: avendo questi valutato l’impatto dirompente dei processi di innovazione tecnologica sulla valorizzazione ha incoraggiato, con una vistosa deroga al regime autorizzatorio, e al sistema delle eccezioni, nuove modalità di fruizione e l’offerta di prodotti culturali innovativi. In tal modo subordinando la finalità di conservazione alla soddisfazione di un diffuso interesse all’accesso.
Più problematica è la definizione del regime giuridico dei c.d. nuovi beni, ottenuti sfruttando al meglio l’innovazione, e sui quali prolifera il bisogno di fruizione. Il discorso investe nuovamente il rapporto tra ‘beni culturali’ e ‘diritti di proprietà intellettuale’.
È ben possibile che i beni in questione ricevano la qualifica di “opere dell’ingegno di carattere creativo” e, per ciò stesso, godano della tutela accordata dal diritto d’autore. Opzione, peraltro, non esclusa dallo stesso c.b.c.p. che, all’art. 107, fa salva l’eventuale applicazione delle norme riguardanti il regime di protezione richiamato. Si profila un “doppio binario di tutela”, da un lato basato sull’autorizzazione per la riproduzione o uso dell’Autorità preposta alla conservazione del bene, dall’altro fondato sull’esclusiva.
La riproduzione deve avvenire con il consenso del titolare del diritto autoriale, pur essendo l’opera custodita dall’autorità pubblica chiamata anch’essa a valutare se ricorrono le condizioni per il rilascio dell’autorizzazione. Si ricordi che il diritto alla concessione del bene è temporalmente limitato, giacché si estingue con il decorso dei termini che sottraggono l’opera al pubblico dominio.
Quanto all’utilizzazione economica della risorsa protetta, resta il vincolo posto dai c.d. diritti morali d’autore (alla paternità, all’integrità dell’opera). Diritti invocabili anche con riferimento ai beni culturali. Per questi, la protezione “morale” si risolve nella salvaguardia del «valore» di interesse artistico culturale veicolato. Sì che si ritiene perseguibile la lesione dell’immagine, procurata da usi che attentano al decoro dell’opera (costituisce ormai un caso di scuola la raffigurazione del David di Donatello armato). Va, dunque, ammesso, il ricorso ai mezzi di tutela inibitoria e risarcitoria.
La protezione accordata dal sistema dei diritti di proprietà individuale è messa in discussione con riferimento ai patrimoni culturali immateriali, trascurati dalle fonti nazionali, fortemente radicate a una concezione “reale” dell’oggetto della tutela. Si tratta, come innanzi ricordato, di manifestazioni d’arte, non afferenti alla dimensione materiale, e che trovano un espresso riconoscimento nella Convenzione Unesco per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale, del 2003.
In questa area si rileverebbe un effetto di “commodificazione”, con conseguente equiparazione delle espressioni culturali immateriali alle res tangibili, aventi un valore commerciale.
Il fenomeno della reificazione dell’immateriale culturale è, comunque, incoraggiato da quanti denunciano i rischi connessi all’utilizzo delle tecnologie, in particolare alla più volte evidenziata fruizione incontrollata di contenuti non adeguatamente tutelabili con diritti di proprietà intellettuale. Per i beni in parola una protezione reale appare ai più irrealizzabile per la difficoltà riscontrabili nell’individuare i possibili titolari dell’esclusiva, salvo ammettere una gestione collettiva del mezzo di tutela (FARAH, P.D.: “Diritti di proprietà intellettuale, diritti umani e patrimonio culturale immateriale”, in Dir. ind., 2014, p. 21 ss.).
In questa direzione, per esempio, si incoraggia la soluzione del riconoscimento ad Enti associativi di diritti di copyright, gestibili in forma partecipata dai rappresentanti della comunità cui appartiene la tradizione protetta. Tuttavia, stante l’impossibilità di attuare un simile disegno, la violazione perpetrata a beni non protetti va comunque perseguita. È risarcibile la lesione di diritti inviolabili (es: la riservatezza) del gruppo depositario di una cultura secolare. Se questa è inferta con l’utilizzo del canale virtuale ricorrono margini per un addebito di responsabilità ai provider ovvero ai gestori di piattaforme per l’utilizzo non consentito dei contenuti culturali trasposti in forma digitale (es: per finalità commerciali non autorizzate) da parte degli utenti.
4. Da ultimo è utile soffermarsi sulla collaborazione pubblico-privato fondata sullo sfruttamento delle conoscenze (sulla disciplina del fenomeno cooperativo nel settore dei beni culturali v. BARBATI, C., CAMMELLI, M., CASINI, L., PIPERATA, G., SCIULLO, G., “Diritto del patrimonio culturale”, cit., p. 25 ss.). Ampi studi hanno dimostrato il beneficio della condivisione di tecniche innovative o di competenze integrabili nella conservazione e gestione di beni valorizzati.
Questo scenario risalta il ruolo della ricerca universitaria (art. 9 cost.) e l’importanza del sostegno finanziario degli investitori istituzionali, che seguono processi di ideazione e sperimentazione sino a favorire la creazione di organismi societari (start up, incubatori) per l’implementazione di tecnologie, brevettabili o disponibili in modalità open source.
È ipotizzabile persino un coinvolgimento diretto degli operatori del mercato delle TIC nelle fasi esecutive di accordi di programma siglati da Stato, Regioni ed Enti territoriali, ai sensi dell’art. 112 c.b.c.p. Tale disposizione “non rappresenta solo uno strumento di composizione, armonizzazione ed integrazione delle competenze ascritte ai diversi livelli di governo ma getta le basi per la realizzazione di un’azione volta a favorire lo sviluppo economico […] con il contributo dei privati for e non profit” (SAU, A.: “Le frontiere del turismo culturale”, cit.)
A migliori risultati si potrebbe pervenire incentivando modelli contrattuali di aggregazione per la gestione condivisa delle conoscenze (CREA, C.: Reti contrattuali e organizzazione dell’attività imprenditoriale, Napoli, 2008, p. 303; AA.VV.: Le reti di imprese e i contratti di rete (a cura di P. IAMICELI), Torino, 2009). La rete di imprese dovrebbe porsi come unico partner negoziale della Pubblica Amministrazione. L’integrazione di competenze e professionalità, individuata come oggetto di rapporti regolati da un contratto di rete, rientrerebbe tra le finalità di tutela consentite dalla disciplina del peculiare strumento negoziale. L’innovazione per la fruizione di beni, ma prima ancora per la tutela degli stessi, legittima prestazioni collegate in funzione della diffusione dei risultati innovativi. Resta, comunque, ferma la possibilità della partecipazione alla gestione diretta del patrimonio culturale. In tal caso, per la regolamentazione del rapporto instaurato dal titolare della tecnologia con l’Ente gestore, è utile riferirsi ai protocolli di intesa che hanno orientato virtuose e, già, documentate iniziative di valorizzazione.
L’àmbito analizzato può, infine, interessare operatori del campo del non profit che, da sempre, promuovono l’arte contemplandola tra gli scopi ideali degli enti regolati dal libro I del codice civile. Di recente, si è persino riflettuto sull’utilità dell’impresa culturale, che incorpora prodotti innovativi (BOSI, G.: “Lo statuto giuridico dell’impresa culturale italiana”, in Aedon, 2014).
A fronte di tutto ciò, va nuovamente rimarcato il rischio insito in strategie imprenditoriali di “valorizzazione economica”, rappresentato dalla deriva consumeristica che travolge la “valorizzazione culturale”. È dalla sua ponderazione che occorre ripartire per perfezionare moderni modelli di fruizione, nella consapevolezza che il superamento dei limiti imposti dall’emergenza sanitaria dipende in gran parte dalla capacità di cogliere la sfida dell’innovazione. La sopravvivenza delle attività culturali è legata alla gestione multilivello dell’interesse all’accesso ai patrimoni protetti, espresso oggi da una comunità ferita, costretta ad affidare al mezzo tecnologico la realizzazione di bisogni essenziali; e tra questi anche, quello della “cura dell’anima”, che soltanto il godimento di risorse dall’inestimabile bellezza può garantire.