Autor: Antonio Magni. Ricercatore di Diritto Privato, Università degli Studi di Camerino. Correo electrónico: antonio.magni@unicam.it.
Resumen: A parere di una parte della comunità medico-scientifica internazionale, allo scopo di affrontare il disagio provocato al minore dalla c.d. “disforia di genere”, viene ritenuto utile l’impiego del farmaco contenente il principio attivo “triptorelina”, per arrestare, durante la fase puberale, lo sviluppo dei caratteri primari e secondari del sesso assegnato al momento della nascita. Ciò, al fine di consentire al minore di acquisire la piena consapevolezza circa la reale appartenenza al genere, che viene percepito come proprio, nonché di agevolare l’eventuale compimento del processo di transizione. L’arresto della pubertà causa, da un lato, la mancata verifica circa la probabile scomparsa della disforia di genere e, dall’altro, l’impedimento del completo sviluppo dei caratteri sessuali, implicando la lesione del diritto all’autodeterminazione del minore. Questo, sia in presenza di un’informazione adeguata e completa (quindi sufficiente) sia in assenza della stessa, nel contesto del consenso informato espresso dai genitori o dal tutore.
Palabras clave: disforia di genere, triptorelina, arresto della fase puberale, pubertà, diritto del minore all’autodeterminazione, consenso informato dei genitori o del tutore, persister, desister, detransitioner, responsabilità medica, trattamento sanitario inappropriato, illecito disciplinare.
Abstract: Administration of “triptorelin” results in suppression of puberty, by blocking the development of primary and secondary characteristics of the sex assigned at the time of birth. In this regard, part of international medical-scientific community argues that the aforementioned administration would eliminate the discomfort caused to the minor by the so-called “gender dysphoria”. This, in order to allow the minor to gain awareness of belonging to the gender with which he identified as well as to facilitate the completion of the transition process. However, the puberty suppression, on the one hand, involves the failure to verify the probable disappearance of gender dysphoria and, on the other hand, does not allow a complete development of sexual characteristics. In both cases, the puberty suppression implies the infringement of the minor’s right to self-determination.
This, both in the presence of adequate and complete information (therefore sufficient) and in the absence thereof, in the context of the informed consent given by the parents or guardian.
Key words: gender dysphoria, triptorelin, puberty suppression, puberty, minor’s right to self-determination, informed parental consent, informed consent of the guardian, persister, desister, detransitioner, medical liability, inappropriate medical treatment, disciplinary offense.
Sumario:
I. La C.D. “disforia di genere” e il diritto all’identità di genere.
II. La somministrazione al minore del farmaco contenente il principio attivo “triptorelina”, finalizzata ad arrestare la fase puberale.
III. La C.D. “disforia di genere” avvertita dal minore. l’autodeterminazione del minore e il consenso informato dei genitori o del tutore nell’ordinamento italo-europeo.
IV. Il consenso informato e l’impossibilità di prevedere se il minore, terminata la pubertà, diventerà “desister”, “persister” oppure “detransitioner”.
V. L’inadeguatezza dell’informazione. la responsabilità del medico ovvero della struttura sanitaria. l’inappropriatezza del trattamento sanitario e l’ipotesi dell’illecito disciplinare.
VI. Considerazioni conclusive.
Referencia: Actualidad Jurídica Iberoamericana Nº 14, febrero 2021, ISSN: 2386-4567, pp. 794-813.
Revista indexada en SCOPUS, REDIB, ANVUR, LATINDEX, CIRC, MIAR.
I. LA C.D. “DISFORIA DI GENERE” E IL DIRITTO ALL’IDENTITÀ DI GENERE.
Con l’espressione “disforia di genere” si indica la mancata corrispondenza tra il sesso assegnato alla persona, al momento della nascita, e il genere percepito dalla medesima.
In tale contesto, il termine “genere” si riferisce al vocabolo “gender”, internazionalmente impiegato per alludere alle caratteristiche sociali, culturali e psicologiche, che identificano il genere maschile e quello femminile. In questo senso, il “genere” si differenzia dal “sesso”, parola utilizzata soltanto per individuare l’aspetto anatomico. Al riguardo, si usa distinguere tra il c.d. “transgender uomo”, vale a dire una persona di sesso femminile ma con un’identità di genere maschile, e la c.d. “transgender donna”, cioè una persona di sesso maschile che presenta un’identità di genere femminile. Entrambe le categorie di individui differiscono dai c.dd. “cisgender”, ossia uomini o donne non “transgender”, come pure dai c.dd. “intersessuali”, vale a dire persone nel cui corpo coesistono caratteri sia maschili sia femminili.
Un possibile rimedio al disagio, causato dalla disforia di genere, può essere trovato nell’esercizio del diritto all’identità di genere, vale a dire nell’esercizio del diritto ad essere legalmente riconosciuti quali appartenenti al genere maschile, femminile oppure ad un ulteriore genere non specificato. Nel momento in cui si scrive, per poter invocare tale diritto, è necessario riferirsi, nell’ordinamento italo-europeo, al procedimento di rettificazione anagrafica di attribuzione del sesso. Quest’ultimo, stabilito dalla l. 19 aprile 1982, n. 164, non richiede più l’intevento chirurgico. Viene, infatti, ritenuto sufficiente, dalla giurisprudenza italiana ed europea, il compimento di un percorso di transizione, purché lo stesso sia comprovato da documentazione medica nonché accertato in sede giudiziale. Il percorso in questione è, dunque, finalizzato alla crescita dei caratteri secondari del sesso corrispondente al genere percepito.
II. LA SOMMINISTRAZIONE AL MINORE DEL FARMACO CONTENENTE IL PRINCIPIO ATTIVO “TRIPTORELINA”, FINALIZZATA AD ARRESTARE LA FASE PUBERALE.
A parere di una parte della comunità medico-scientifica internazionale, allo scopo di affrontare il disagio provocato dalla disforia di genere, viene ritenuto utile l’impiego del farmaco contenente il principio attivo “triptorelina”, per arrestare, durante la fase puberale, lo sviluppo dei caratteri primari e secondari del sesso assegnato al momento della nascita. Infatti, lo sviluppo in questione avviene nella fase della pubertà, vale a dire nel periodo nel quale le persone diventano sessualmente mature.
Ciò, al fine di consentire al minore di acquisire la piena consapevolezza circa la reale appartenenza al genere, che viene percepito come proprio, nonché di agevolare l’eventuale compimento del processo di transizione descritto nel paragrafo precedente.
III. LA C.D. “DISFORIA DI GENERE” AVVERTITA DAL MINORE. L’AUTODETERMINAZIONE DEL MINORE E IL CONSENSO INFORMATO DEI GENITORI O DEL TUTORE NELL’ORDINAMENTO ITALO-EUROPEO.
L’insorgenza di determinati problemi di salute o di disagi può essere comunicata al medico dal minore, direttamente, oppure attraverso la mediazione dei genitori o del rappresentante legale. Tali soggetti, in verità, sono nella posizione di riferire quanto a loro riportato o di notare comportamenti particolari. In questo scenario, il dialogo tra tutte le persone coinvolte deve condurre alla realizzazione del migliore interesse del minore. Per il conseguimento di tale risultato, occorre fornire un’informazione adeguata. Essa appartiene ai compiti del medico ed è necessaria, al fine di consentire al paziente di prestare altrettanto adeguatamente il consenso al trattamento.
Nell’ambito dell’ordinamento italo-europeo, infatti, il consenso informato viene ritenuto principio fondamentale, che svolge la funzione di sintesi del diritto all’autodeterminazione (art. 13, comma 1, della Costituzione italiana) e del diritto alla salute (art. 32 della Costituzione italiana nonché art. 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000). Con riguardo al primo, si può affermare che l’esercizio di tale diritto si traduce nella libertà di decidere di sottoporsi o meno a un’indagine diagnostica, a una terapia oppure a un intervento chirurgico. In relazione al secondo, è necessario ricordare che lo stesso diritto deve essere inteso quale diritto all’integrità fisica, al trattamento sanitario, all’accesso alle terapie, al raggiungimento di una condizione di equilibrio psico-fisico, che possa trovare espressione nella prospettiva sociale e ambientale. Inoltre, il consenso in parola è contemplato dagli artt. 1 e 3 della l. 22 dicembre 2017, n. 219, come pure dall’art. 35 del Codice di deontologia medica italiano del 2014; a livello europeo, dagli artt. 5 e 6 della Convenzione sui Diritti dell’Uomo e la biomedicina del 1997 (Convenzione di Oviedo) nonché dall’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000. Le regole appena citate prevedono la prestazione del consenso informato (peraltro revocabile in ogni momento), quale presupposto imprescindibile del trattamento sanitario, tranne nei casi di emergenza nei quali, ovviamente, esso non può essere manifestato; in aggiunta, viene stabilito che se l’indagine diagnostica, la terapia oppure l’intervento chirurgico riguardano il minore o l’incapace naturale, il consenso deve essere espresso dal rappresentante legale.
In relazione alla situazione del minore, il trattamento è subordinato al consenso libero ed informato dei genitori e, in loro assenza, del tutore (art. 3, comma 2, della l. n. 219 del 2017), in conformità, peraltro, a quanto stabilito dalla Convenzione sui Diritti dell’Uomo e la biomedicina del 1997 (Convenzione di Oviedo).
In questo senso, l’informazione viene offerta in maniera completa, soltanto quando il minore e le persone, autorizzate dalla legge a rappresentarlo, siano rese edotte circa la definizione della condizione, il possibile trattamento, la durata prevista, la procedura da seguire, i benefici e i rischi relativi alla salute. Ricorrendo tali condizioni, il minore può esercitare il diritto dell’autodeterminazione. Sul punto, è stato ritenuto sufficiente il raggiungimento della consapevolezza del valore e delle conseguenze delle scelte compiute dal minore medesimo, a prescindere dalla capacità di agire quale “sufficiente maturità di giudizio”. Allo stesso tempo – è asserito – le persone autorizzate sono tenute, dapprima, a svolgere approfondite valutazioni in relazione ai problemi esposti e alle intenzioni espresse dal minore e, successivamente, ad integrare la sua volontà attraverso la prestazione del consenso. Il riferimento è agli esercenti la responsabilità genitoriale e al tutore.
Comunque, richiedendo la questione il coinvolgimento di una pluralità di soggetti, sembrerebbe necessario addivenire ad una soluzione condivisa. Qualora tale risultato non fosse raggiunto, si potrebbe ricorrere al giudice tutelare. Ciò, in due ipotesi particolari, entrambe disciplinate dall’art. 3, comma 5, l. n. 219 del 2017.
Nella prima, allorché vi sia contrasto tra la decisione dei genitori oppure del tutore (da una parte) e quella del medico (dall’altra).
Nella seconda, qualora divergano le posizioni assunte da ciascun genitore.
IV. IL CONSENSO INFORMATO E L’IMPOSSIBILITÀ DI PREVEDERE SE IL MINORE, TERMINATA LA PUBERTÀ, DIVENTERÀ “DESISTER”, “PERSISTER” OPPURE “DETRANSITIONER”.
Il disagio provocato dalla “disforia di genere” (propria della persona, che percepisce di appartenere ad un determinato genere non corrispondente al sesso assegnato) può essere attenuato o eliminato – nell’intenzione di chi ne soffre – attraverso il compimento del processo di transizione menzionato nel primo paragrafo.
Tuttavia, la comunità scientifica internazionale rivela che, nella maggioranza dei casi, la disforia di genere non viene più avvertita una volta terminata la fase puberale.
A questo proposito, nella letteratura medica, si distingue tra i c.dd. “desisters”, vale a dire le persone che non avvertono tale incongruenza successivamente al completamento della pubertà, e i c.dd. “persisters”, cioè coloro i quali continuano a percepire la stessa al termine di questo periodo.
I persisters possono scegliere di intraprendere il percorso di transizione già illustrato nel primo paragrafo che, come osservato, conduce alla riassegnazione del sesso.
Tra gli individui che optano per siffatta soluzione si assiste, recentemente, all’emersione di un crescente numero di c.dd. “detransitioners”. Si tratta di soggetti che, dopo aver effettuato il percorso di transizione, esprimono la forte volontà di essere identificati con il genere corrispondente al sesso attribuito al momento della nascita. Ciò è possibile attraverso l’interruzione del trattamento ormonale (anteriormente o posteriormente all’ottenimento dell’identità di genere desiderata).
Sembra, dunque, opportuno procedere ad un’attenta valutazione delle conseguenze dell’arresto dello sviluppo puberale, finalizzato ad anticipare la transizione ovvero a maturare una piena consapevolezza circa l’effettiva sussistenza dell’incongruenza in parola.
Nel momento nel quale viene fornita l’informazione, da parte del medico al minore, non si può prevedere se questi sarà, in futuro, persister, desister (terminata la pubertà) oppure detransitioner (una volta effettuato il percorso di transizione o durante il medesimo).
V. L’INADEGUATEZZA DELL’INFORMAZIONE. LA RESPONSABILITÀ DEL MEDICO OVVERO DELLA STRUTTURA SANITARIA. L’INAPPROPRIATEZZA DEL TRATTAMENTO SANITARIO E L’IPOTESI DELL’ILLECITO DISCIPLINARE.
A tal proposito, si possono verificare due ipotesi.
La prima riguarda la circostanza che il medico non avverta il minore né gli esercenti la responsabilità genitoriale né il tutore dell’impossibilità di prevedere se il paziente sarà, in futuro, persister, desister oppure detransitioner. In questa eventualità, la somministrazione del farmaco contenente il principio attivo “triptorelina” avviene nel contesto dell’incompletezza dell’informazione. Pertanto, il medico o la struttura sanitaria potranno essere obbligati a risarcire il danno da lesione del diritto all’autodeterminazione del minore (rispettivamente ex art. 2043 c.c. ovvero ex art. 1218 c.c., nel primo caso, o soltanto ex artt. 1218 e 1228 c.c., nel secondo caso, ai sensi dell’art. 7 della l. 8 marzo 2017, n. 24).
Ciò, solamente qualora, secondo una recente sentenza della Corte di Cassazione, derivino “dalla omessa, inadeguata o insufficiente informazione” comunque “conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di sé stesso, psichicamente e fisicamente”. Orbene, l’arresto della fase puberale non consente di verificare se il completamento di essa comporti la scomparsa della disforia di genere (scomparsa che avviene, come già riportato, nella maggior parte dei casi).
Inoltre, l’arresto stesso impedisce lo sviluppo completo dei caratteri sessuali primari e secondari. A ben vedere, tali conseguenze sembrano potersi identificare con quelle indicate nella sentenza della Suprema Corte appena citata. Da un lato, infatti, la mancata verifica circa la probabile scomparsa della disforia di genere implica l’impossibilità di autodeterminarsi, provocando la “contrazione della libertà di disporre di sé stesso, psichicamente e fisicamente”. Dall’altro, l’impedimento del completo sviluppo dei caratteri sessuali primari e secondari può ingenerare nel minore (soprattutto nel momento del confronto con i suoi coetanei) una forte sensazione di disagio e, dunque, causare al medesimo notevoli sofferenze, suscettibili di corrispondere alle “conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva”.
La seconda concerne l’eventualità nella quale il medico fornisca, effettivamente, un’informazione adeguata e completa (quindi sufficiente). In tale situazione, i genitori o il tutore, sentito il minore interessato, prestano il consenso al trattamento in conformità all’ordinamento giuridico. A ben vedere, anche in questa ipotesi, il diritto all’autodeterminazione è suscettibile di venir leso per le stesse ragioni e con gli stessi effetti. Infatti, pur in costanza di notizie esaustive, l’impossibilità di verificare la scomparsa della disforia di genere, da un lato, e l’impedimento del completo sviluppo dei caratteri sessuali primari nonché secondari, dall’altro, permangono.
A parere di chi scrive, inoltre, queste conseguenze qualificano il trattamento in questione “inappropriato”, ai sensi dell’art. 16 del Codice di deontologia medica italiano del 2014.
Invero, il trattamento sanitario è definito “appropriato”, allorché esso sia giustificato da una reale necessità del paziente nonché dalla prevalenza dei benefici sui rischi per la salute e sui costi relativi. L’arresto della pubertà, alla luce delle considerazioni effettuate, induce a dubitare fortemente della presenza di particolari benefici e, perciò, della prevalenza di questi sui rischi per la salute. Pertanto, il medico che prescriva l’impiego del farmaco contenente il principio attivo “triptorelina”, a parere di chi scrive, commette, per le ragioni esposte e al di fuori dell’ipotesi della pubertà precoce (nella quale siffatta prescrizione è, generalmente, indicata), un illecito disciplinare ai sensi dell’art. 2 del medesimo Codice di deontologia medica. Dunque, egli può essere destinatario delle sanzioni previste dalle regole della deontologia professionale. Esse sono contenute nell’art. 40 del d.P.R. 5 aprile 1950, n. 221: avvertimento, censura, sospensione e radiazione. In aggiunta a quanto già affermato, sembra opportuno menzionare alcuni rischi per la salute del minore, che sono stati, recentemente, evidenziati dalla letteratura medica e che costituiscono un ulteriore motivo per considerare inappropriato un trattamento di questo genere. È stato, infatti, osservato che, durante la fase puberale, si ha il rimodellamento dei circuiti corticali e limbici, che conduce “all’acquisizione del comportamento adulto, delle strategie decisionali e dei comportamenti sociali”. L’arresto della fase puberale – viene dichiarato – può pregiudicare seriamente l’esito dello sviluppo suddetto. Inoltre, il medesimo arresto – è asserito – è suscettibile di aumentare il rischio di subire fratture nell’età adulta, giacché il picco di massa ossea (la quantità di osso acquisita nel momento in cui è stato raggiunto uno stato scheletrico stabile) si ha entro la fine della seconda o l’inizio della terza decade di vita. Da ciò deriva l’importanza della crescita ossea durante la fase puberale; impedire il regolare decorso di questa fase può compromettere la mineralizzazione ossea.
VI. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE.
In questa sede, non si discute l’efficacia della terapia farmacologica avente ad oggetto la somministrazione del farmaco contenente il principio attivo “triptorelina”, il cui risultato è stato già dimostrato: l’arresto della pubertà. In proposito, si ritiene utile ribadire che tale utilizzo è, generalmente, consigliato nella circostanza della pubertà precoce, allorché si ritenga necessario contrastare uno sviluppo anticipato della pubertà.
Si dubita fortemente, invece, dell’opportunità di sottoporre il minore in età puberale ad un trattamento, la cui presunta utilità potrà essere vanificata da una percezione diversa, vale a dire da una percezione che è suscettibile di mutare nel tempo.
Inoltre, la mancata verifica circa la probabile scomparsa della disforia di genere, da un lato, e l’impedimento del completo sviluppo dei caratteri sessuali, dall’altro, implicano la lesione del diritto all’autodeterminazione. Questo, sia in presenza di un’informazione adeguata e completa (quindi sufficiente) sia in assenza della stessa.
In conseguenza di ciò, si può ben ipotizzare, come già osservato, l’insorgere della responsabilità contrattuale o extracontrattuale oppure dell’illecito disciplinare (in quest’ultimo caso, a causa dell’inappropriatezza del trattamento sanitario).
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