Autor: Mauro Grondona, Associato di diritto privato, Università di Genova. Correo electrónico: mauro.grondona@unige.it
1. La premessa di queste mie considerazioni è che l’emergenza sanitaria (da cui la riflessione sullo stato di salute dello stesso diritto dei contratti era precipitosamente partita: BENEDETTI, A.M., NATOLI, R.: “Coronavirus, emergenza sanitaria e diritto dei contratti: spunti per un dibattito”, in dirittobancario.it, 25 marzo 2020) è, ormai, sufficientemente sotto controllo per pensare a un immediato futuro largamente e gravemente caratterizzato dalla necessità di far fronte alle conseguenze economiche dell’emergenza. Conseguenze che è verosimile andranno a colpire soprattutto i rapporti contrattuali di impresa, cui dunque occorre prestare primaria attenzione anche nella prospettiva della tenuta economica nazionale (mossi da questa specifica preoccupazione, tanto l’Accademia Nazionale dei Lincei, in un documento intitolato ‘Covid e contratti’, https://www.lincei.it/it/article/covid-e-contratti, quanto GAMBARO, A.: “La necessità di una regolamentazione che permetta l’adeguamento dei contratti di durata business-to-business a circostanze eccezionali come l’epidemia Covid”, https://www.huffingtonpost.it/entry/regolamentare-i-contratti-a-circostanze-eccezionali-come-covid-19_it_5eb152c5c5b60a92778203ec, hanno espressamente sostenuto che è urgente introdurre strumenti normativi che consentano la modifica dei contratti B2B, sì che essi possano continuare a vivere).
Se non è dubbio che occorra favorire in ogni modo la ripresa economica, di fronte a questa esigenza le strade naturalmente si biforcano, dato che la prima va ricondotta a un solidarismo paternalistico ostile e sospettoso nei confronti del mercato, laddove la seconda guarda invece con piena fiducia al mercato (e a un contratto saldamente ancorato al mercato) quale principale strumento di progressivo avanzamento tanto economico quanto sociale, tanto dell’individuo quanto della collettività.
A seconda che si segua la prima o la seconda alternativa, il quadro normativo sarà arricchito di disposizioni normative che andranno, o nella direzione di interventi in chiave redistributiva, come tali ricondotti sotto il troppo largo ombrello dell’equità sociale, ovvero nella opposta direzione di espandere quella libertà economica, che, appunto grazie al contratto, consentirà la ripresa apparentemente da tutti auspicata, ma, a veder bene, poi avversata da chi è indotto a sfruttare il momento di incertezza (per molti anche esistenziale) per proporre nuovi modelli di sviluppo alternativo, che in realtà è un non-sviluppo.
Al di là, dunque, di ogni considerazione spiccatamente ideologica (intorno alla quale, però, dovrà pur incardinarsi l’indispensabile riflessione politica), come giuristi e come civilisti, uno dei principali aspetti sul quale la nostra attenzione dovrebbe in particolare concentrarsi, in ambito contrattuale, non riguarderà tanto la possibilità giuridica di tornare a svolgere attività imprenditoriali (perché è ciò che sta già progressivamente avvenendo, come è del tutto ragionevole in fase di normalizzazione della vita e di ogni attività), ma riguarderà soprattutto il contesto normativo-regolatorio all’interno del quale le attività di impresa, oggetto dei prossimi provvedimenti tanto governativi quanto parlamentari (per restare sul versante interno), già del resto ampiamente annunciati e discussi, verranno a trovarsi (cfr. IRTI N.: “Il diritto pubblico e privato in un’epoca che fa eccezione”, in Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2020, p. 20).
Si potrebbe allora subito rilevare, forse in controtendenza, che prima ancora di un intervento sul codice civile orientato a introdurre un obbligo di rinegoziazione (obiettivo, a mio avviso, già conseguibile oggi, e ciò grazie alle potenzialità di una buona fede non già intesa né quale strumento solidarista, né quale strumento antagonista dell’autonomia privata, ma semplicemente quale strumento cooperativo e ausiliario dell’autonomia privata, a tutela di un vincolo contrattuale la cui ratio va individuata nell’operazione economica realizzata dalle parti e che esprime quel fondamentale tertium comparationis cui ricondurre ogni circostanza sopravvenuta e incidente sull’assetto negoziale, al di là del fatto che la sopravvenienza sia tipica o atipica: D’ANGELO, A., MONATERI, P.G., SOMMA, A.: Buona fede e giustizia contrattuale. Modelli cooperativi e modelli conflittuali a confronto, Torino, 2005), o comunque prima ancora di ogni intervento in materia contrattuale, sarebbe opportuno fare in modo che il contenzioso civile, innanzitutto contrattuale, non solo non esploda ma anzi possa essere significativamente ridotto, cogliendo dunque l’opportunità del coniugare il ‘fare presto’ col ‘fare bene’ (cfr. GUERRINI, L.: “Coronavirus, legislazione emergenziale, e contratto: una fotografia”, in giustiziacivile.com, Articolo del 7 maggio 2020, p. 14: “Il monitoraggio del Ministero della Giustizia riporta che il numero di controversie civili pendenti al 31 settembre 2019 è pari a 3.329.436. Perché non facilitare sensibilmente la conciliazione di ogni controversia di ogni ordine e grado instaurata prima del 1° gennaio 2020? Perché non prevedere, nello specifico, che ai clienti degli avvocati che transigono una di queste controversie entro i prossimi 12 mesi sia riconosciuto un credito d’imposta pari ai valori medi della fase di studio della controversia (da identificarsi in base al grado di giudizio in cui il procedimento si trova) e di assistenza stragiudiziale prevista alla voce 25 del d.m. 55/2014 (da identificarsi in base all’importo pagato con la transazione)?”.
In questa chiave, l’intervento legislativo risulterebbe verosimilmente indispensabile onde evitare una sostanziale esplosione del contenzioso contrattuale, che del resto potrebbe favorire eccessi e abusi, sulla base di un indiscriminato ricorso al troppo evanescente criterio di giustizia contrattuale ancorata all’art. 2 Cost. e poi concretizzata a partire da un utilizzo della buona fede che, come è stato da tempo notato, è soltanto retorico, restando così la buona fede operante pressoché esclusivamente sul piano etico-morale, senza portare alcun contributo di conoscenza in termini di analisi economica della pattuizione.
Con l’effetto, tutt’altro che paradossale, per cui anche studiosi aperti e fiduciosi vero l’opera ermeneutica del giudice e verso le clausole generali non possono oggi non mostrare timore e scetticismo di fronte alle ormai numerose proposte, se non veri e propri appelli alla giustizia contrattuale, dirette in sostanza ad affidare alla buona fede solidarista, quando non radicalmente antagonista, le sorti dei contratti interessati, direttamente o indirettamente, dalla pandemia (per una posizione assai equilibrata v. SCOGNAMIGLIO, C.: “L’emergenza Covid 19: quale ruolo per il civilista?”, in giustiziacivile.com, 15 aprile 2020).
2. Orbene, l’urgenza non pare essere quella di riformare il diritto dei contratti (nello stesso senso cfr. LEÓN HILARIO, L.: “Covid-19, crisis sanitaria y retos del Derecho Civil. Entre la fuerza vinculante y la adecuación de los pactos contractuales”, in Gaceta Civil & Procesal Civil, 82/2020, p. 11 ss.), ma, a mio avviso, e in alternativa: o calibrare l’operatività della buona fede quale rimedio conservativo dell’operazione economica (BESSONE, M.: Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1969), come tale fedele ai valori del contratto (D’ANGELO, A.: Contratto e operazione economica, Torino, 1992; D’ANGELO, A.: “Discrezionalità del giudice e valori di riferimento nella risoluzione di controversie contrattuali”, in Contr. impr., 2000, p. 340 ss.; D’ANGELO, A.: La buona fede, nel Tratt. dir. priv. (diretto da M. BESSONE), Torino, 2004), mettendo pertanto a frutto l’ampia elaborazione dottrinale; oppure pensare a specifici e circoscritti interventi legislativi sul solo versante della rinegoziazione (in questo senso può essere richiamata la recentissima proposta, tuttora in via di affinamento, dell’Associazione Civilisti Italiani).
Entrambe le opzioni – ma chi scrive è portato a propendere per la prima alternativa, appunto perché guarda con fiducia a una buona fede contrattuale che sia concretizzata sulla base di una stringente analisi economica dell’assetto negoziale, come esemplarmente mostrato, in particolare, da BESSONE, M.: Adempimento, cit. – si muovono lungo la linea per cui il contratto va salvato attraverso, e non già contro, il contatto. Il contratto può dunque salvare se stesso. Il rischio, che induce molti alla prudenza, in effetti esiste, ed è quello di distruggere il contratto per un malinteso solidarismo sociale (il quale, prima di essere ostile al contratto, è ostile al mercato, affondando le sue radici in quel tenace e diffuso corporativismo italiano dai molteplici volti ideologici; molteplici sì, ma tutti accomunati da una preconcetta ostilità rivolta al contratto e soprattutto al mercato, invocandosi espressamente un modello alternativo di sviluppo economico (ampie considerazioni si leggono ora in MATTEI, U., QUARTA, A.: “Tre tipi di solidarietà. Oltre la crisi nel diritto dei contratti”, in giustiziacivile.com, 7 maggio 2020, spec. p. 9).
Per le ragioni accennate, non mi propongo di riflettere sulla assai probabile riforma codicistica in materia di sopravvenienze contrattuali e di rinegoziazione (fa ora il punto MACARIO, F.: “Dalla risoluzione all’adeguamento del contratto. Appunti sul progetto di riforma del codice civile in tema di sopravvenienze”, in Foro it., 2020, V, c. 102 ss.; ma v. altresì MACARIO, F.: “Per un diritto dei contratti più solidale in epoca di «coronavirus»”, in giustiziacivile.com, 17 marzo 2020, nonché SIRENA, P.: “Eccessiva onerosità sopravvenuta e rinegoziazione del contratto: verso una riforma del codice civile?”, paper presentato al Seminario Bocconi on line il 10 aprile 2020), materia che, del resto, rappresenta uno dei temi più impegnativi e più interessanti degli ultimi anni, sul quale si potrà tornare a riflettere nel momento in cui l’emergenza sanitaria possa dirsi effettivamente alle nostre spalle, affinché la riforma delle sopravvenienze possa essere effettivamente armonizzata con la generale esigenza di dare un nuovo volto al contratto, al di là di interventi di settore per ragioni contingenti.
C’è un ulteriore aspetto da sottolineare. Con riferimento al rapporto obbligatorio e alla responsabilità del debitore, l’art. 3 del d.l. 23 febbraio 2020, n. 6 (convertito con modificazioni dalla l. 5 marzo 2020, 13) contiene un comma 6-bis (inserito dall’art. 91, c. 1, del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni dalla l. 24 aprile 2020, n. 27), il quale dispone che il rispetto delle misure di contenimento di cui al decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti. Ciò significa, mi pare, che la maggior parte dei problemi (se non tutti) di funzionamento contrattuale che sorgeranno nei prossimi mesi deriverà non tanto dall’emergenza sanitaria come tale, destinata infatti a risultare sempre più lontana, soprattutto grazie alla progressiva ripresa delle attività economiche, ma, in particolare, dalla scelta (verosimilmente obbligata, e comunque ragionevole e opportuna) del governo italiano di predisporre una serie di misure di contenimento che naturalmente incidono sulla possibilità giuridica di adempiere. Di qui la regola appena richiamata.
Va allora sottolineato il seguente aspetto: riflettere oggi sul contratto significa riflettere sulla sorte di contratti i quali hanno subito, in sostanza, due ordini di sopravvenienze: la prima è quella sanitaria, che a rigore non avrebbe potuto comportare, di per sé e tendenzialmente, lo sconvolgimento dell’equilibrio contrattuale; la seconda è quella strettamente economica, direttamente discendente dall’intervento governativo, e dalla quale è derivata l’alterazione del sinallagma.
È dunque del tutto evidente che, da un lato, occorrerà nel più breve tempo possibile consentire il ritorno a una situazione economica il più possibile prossima alla normalità, sì che tanto la creazione quanto la circolazione della ricchezza non solo riprendano ma aumentino; in questa prospettiva è auspicabile che la progressiva ripartenza economica operi anche quale strumento di disincentivazione del contenzioso, scoraggiando le parti a portare in giudizio conflitti contrattuali che invece ben potranno ricevere spontanea riparazione: e infatti, tali rapporti contrattuali, tornando a funzionare, riusciranno a superare il momento di difficoltà, e dunque il rimedio risolutorio non sarebbe ragionevole, tanto più che, lo si ribadisce, l’emergenza sanitaria ha operato solo quale causa remota dello squilibrio, dovendosi invece individuare nelle misure di contenimento di cui al comma 6-bis la causa prossima dell’intervenuta alterazione dello squilibrio originario.
3. Il codice civile italiano regola il rimedio della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta negli artt. 1467-1469.
A noi qui interessa la prima delle richiamate disposizioni, la quale letteralmente prevede, al c. 1: «Nei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari o imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall’art. 1458».
Fin qui il rimedio distruttivo del contratto; ma il c. 3 della disposizione in parola recita: «La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto».
È allora opportuno interrogarsi sinteticamente sui seguenti aspetti: i) quando possa parlarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili; ii) in che senso il rimedio in parola è applicabile alla presente emergenza; iii) in che modo, al di là di una opportuna riforma in tema di sopravvenienze contrattuali, da un lato, la buona fede in executivis e, dall’altro, la reductio ad aequitatem consentano la sopravvivenza del contratto conseguita sulla base di un modificazione contrattuale che potrà essere imposta dal giudice appunto a partire dal dovere di cooperazione tra le parti fondato innanzitutto nell’art. 1175 e poi nell’art. 1375; in questo senso, allora, la mancata offerta di ricondurre a equità il contratto non sfocia necessariamente alla risoluzione del contratto, appunto in virtù dell’impulso cooperativo connotante la buona fede.
Partiamo quindi dal primo aspetto, che per evidenti ragioni è il più semplice.
Con il conforto della migliore dottrina (TRIMARCHI, P.: Il contratto: inadempimento e rimedi, Milano, 2010, p. 230) può dirsi che l’avvenimento è straordinario e imprevedibile per gli effetti di cui all’art. 1467 quando colpisce tutta la società, o grandi settori di essa, come senza dubbio è accaduto con la pandemia da Covid-19. Poiché sono eventi sottratti al controllo dei singoli, il rimedio risolutorio appare a prima vista non solo giustificato ma anche l’unico efficace, appunto per cancellare un contratto ormai solo forma giuridica di una sostanza economica, se non distrutta, gravemente alterata e compromessa a danno di una parte incolpevole.
Bisogna però allora domandarsi se e in che misura il rimedio in parola potrà essere effettivamente impiegato. Altrimenti detto: fino al momento in cui rimarranno in vigore le misure di contenimento, da cui l’impossibilità giuridica di adempiere, non si porrà un problema di eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, semplicemente perché il rapporto contrattuale è sospeso (BENEDETTI, A.M.: “Stato di emergenza, immunità del debitore e sospensione del contratto”, in giustiziacivile.com, 29 aprile 2020; BENEDETTI, A.M.: “Il rapporto obbligatorio al tempo dell’isolamento: brevi note sul Decreto «cura Italia»”, in Contratti, 2/2020, p. 213 ss.).
Si tratterà di capire, allora, come il rimedio risolutorio possa operare nel momento della progressiva normalizzazione delle attività economiche.
Sarebbe inopportuno, nonché economicamente inefficiente, che si verificasse un massiccio ricorso alla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, peraltro prodotta da una scelta politica più che dalla pandemia come tale (in questo senso si è anche parlato di crisi ‘intenzionale’, che naturalmente non è un modo poco trasparente per qualificare come ingiustificate le misure adottate, ma è efficace, mi pare, onde far emergere come la prospettiva rimediale debba essere puntualmente costruita a partire dalle esigenze e del mercato e del contratto rispetto al quale venga domandata la risoluzione).
Ciò consente di riprendere il cenno iniziale: il rimedio contrattuale preferibile non potrà che essere interno alla stessa economia di mercato, da liberare nella misura massima possibile, al di là e contro quelle tentazioni già emerse di ricorrere alle virtù di un Stato imprenditore, che certamente può fare, e molto, per l’economia, soprattutto consentendo che la capacità di inventiva degli imprenditori possa ampliarsi. E ciò tanto più oggi, grazie a una globalizzazione che, verosimilmente e sperabilmente, sarà portata a crescere, nella logica di una pluralità di reti di imprese mondialmente interconnesse o comunque interconnesse in ragione del settore di mercato e della collocazione geografica del prodotto e della distribuzione di esso.
Il tema risulta particolarmente rilevante per l’Italia, caratterizzata da un alto numero di piccole imprese spesso portate non solo a non cooperare ma a guardare con sospetto operazioni di acquisizione. Ciò ovviamente indebolisce lo stesso tessuto economico, che, invece, proprio attraverso il ricorso alla rete di imprese, potrebbe anche meglio affrontare e superare la temporanea difficoltà economica rispetto ai rapporti contrattuali già in essere.
Ad esempio, le insistenti e ricorrenti doglianze provenienti dai piccoli editori, nonché dalle librerie indipendenti, potrebbero confluire nella proposta di dar vita a strutture contrattuali utili non solo in chiave di organizzazione economica, ma anche per consentire alle parti di tale complessa operazione, che connette piccoli editori e librerie indipendenti, di trovare proprio in essa il temporaneo sostegno di fronte alle attuali difficoltà. Quello ipotizzato è dunque un rimedio contrattuale di mercato, per così dire, che cioè tutela il contratto tramite il contratto, con l’obiettivo per cui lo squilibrio economico sopravvenuto sarà contrastato non già attraverso la distruzione del vincolo contrattuale, ma attraverso una serie di interventi attuati nel segno di una cooperazione operante, oltre che rispetto al singolo rapporto negoziale, anche rispetto all’intera operazione economica.
In base alla dinamica della pandemia e in base alle iniziative adottate, dunque, il rimedio della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta sembrerebbe dover avere un ambito di applicazione abbastanza ristretto.
Va del resto precisato che, di fronte a squilibri contrattuali che hanno alterato il sinallagma originario, ben potrà pensarsi anche a specifici interventi normativi di settore, i quali, però, limitino al massimo carattere e portata meramente assistenziali (che invece assumeranno rilevanza nelle ipotesi di contratti P2P, P2B, B2C: ma se pensiamo all’enorme mole di contratti B2B, il rimedio preferibile sarà quello volto alla massima espansione di ogni attività economica, anche nella prospettiva della disciplina dei contratti di lavoro).
All’interno del quadro qui brevemente tracciato, il rimedio principale del contratto è naturalmente la massima efficienza del mercato. Contratto e mercato, dunque, quali essenziali elementi di uno sviluppo economico come tale inarrestabile, e che proprio nelle crisi trova strade alternative da percorrere, esattamente come già sta accadendo e ancora di più accadrà in un prossimo futuro. In questo senso mercato e contratto ben possono essere aiutati dallo Stato attraverso una forte apertura del mercato, da cui un potenziamento del contratto e quindi un’espansione dell’economia, sì che l’iniziativa privata possa trovare un contesto ideologico-politico il più possibile favorevole, e dunque senza alcun dubbio in controtendenza rispetto al diffuso scetticismo anticapitalistico e soprattutto anti-mercato che contraddistingue, per ben note ragioni, l’economia del nostro paese.
Ebbe del resto a notare Schumpeter che, per sviluppo economico, devono intendersi quei mutamenti della vita economica che non sono a essa imposti dall’esterno, ma scaturiscono dall’interno e cioè dalla iniziativa propria di essa (SCHUMPETER, J.A.: Teoria dello sviluppo economico, Milano, 2002, p. 65).
Concludendo su questo primo aspetto, a mio avviso, se, da un lato, il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta è astrattamente invocabile, tenuto conto che la pandemia senza dubbio va qualificata come evento straordinario e imprevedibile ex art. 1467, c. 1, dall’altro laro, se si presta attenzione all’efficienza economica del rimedio, è altamente probabile che l’operatività del rimedio risolutorio porterebbe con sé effetti largamente pregiudizievoli per un settore economico di primaria importanza.
A ciò si può aggiungere che, a ben vedere, l’eventuale ricorso all’eccessiva onerosità sopravvenuta, nel momento in cui l’adempimento, possibile senza essere eccessivamente oneroso, è stato vietato nella piana logica del factum principis, impone, in chiave rimediale, due conseguenze: la prima si traduce nell’auspicio che il problema dello squilibrio contrattuale possa essere risolto attraverso un massiccio favor oeconomiae, che ben potrà richiedere specifici interventi normativi nel segno di una più o meno intensa deregolamentazione. Da questo punto di vista si può altresì precisare che la fiducia nel mercato è la fiducia nella forza salvifica di cui in potenza è dotato ogni essere umano; e il consueto riferimento alla solidarietà costituzionale potrà essere ribaltato nel senso di favorire un mercato che come tale esprima un ambiente solidale verso gli operatori economici (v. infra); la seconda è che il rimedio distruttivo sia disincentivano, altrimenti la sua estesa applicazione ben potrà rivelarsi di ostacolo tanto al contratto quanto al mercato, distruggendo appunto quei rapporti contrattuali che sarebbe invece opportuno far sopravvivere, tranne nelle ipotesi in cui sussista la concorde volontà delle parti di estinguere il contratto.
4. Le brevi osservazioni finora svolte ci portano così alla questione successiva, che riguarda il ruolo conservativo della buona fede: una buona fede che può e anzi deve essere messa a frutto dal giudice in tutti i casi in cui si apra un giudizio di risoluzione fondato sull’eccessiva onerosità sopravvenuta.
A mio avviso, e tenuto conto che, dal punto di vista della funzione del rimedio, si tratta di consentire la sopravvivenza dei rapporti contrattuali nel massimo grado possibile, un sapiente impiego della buona fede da parte del giudice potrà operare un recupero del contratto sulla base di interventi di integrazione riequilibratrice, strettamente aderenti alla ratio economica della pattuizione.
In dottrina è stato fatto del resto notare come la disciplina dell’eccessiva onerosità sopravvenuta abbia natura dispositiva, e dunque le parti potranno regolare diversamente le conseguenze della sopravvenienza. Ma – come si è subito precisato – gli eventi cui si riferisce l’istituto in parola sono così sporadici e improbabili che il rischio è normalmente ignorato nella contrattazione, e infatti le parti non dettano regole per amministrarlo, onde evitare costi di transazione che statisticamente non avrebbe alcun senso sobbarcarsi (TRIMARCHI, P.: Il contratto, cit., p. 233).
Il carattere dispositivo del rimedio, unitamente alla necessità di intervenire di fronte a una situazione di oggettivo squilibrio, apre uno spazio all’operatività della buona fede, tanto come dovere di cooperazione tra le parti, quanto come criterio attraverso il quale valutare il loro contegno, nonché quale autonomo criterio integrativo della pattuizione in assenza di una cooperazione soddisfacente onde ricostruire un ragionevole equilibrio. È stato infatti osservato (MESSINEO, F.: Il contratto in generale, I, nel Tratt. dir. civ. comm., Milano, 1968, p. 48) che, alla parità giuridica delle parti, la quale dà luogo al contratto paritetico, corrisponde, di regola, la parità economica, da intendere nel senso che, quando il contratto sia oneroso, il sacrificio dell’un contraente deve tendenzialmente pareggiare quello dell’altro; pertanto, nel principio della parità economica fra i contraenti è implicito il principio dell’equilibrio contrattuale, che si fonda sulla seguente ratio: il contenuto del contratto deve essere tale da rispecchiare in concreto quella parità, con la conseguenza che l’eventuale squilibrio contrattuale dovuto a ragioni di disparità non giustificabili è illegittimo, e va corretto con i mezzi che l’ordinamento mette a disposizione del contraente che ne abbia subito le sfavorevoli conseguenze.
Lo stesso Autore, sul tema ‘contratto e Costituzione’, ha poi sottolineato – e il rilievo si rivela oggi assai opportuno – che, se il contratto è il principale strumento giuridico dell’iniziativa privata, tale centralità non va vista in opposizione con i limiti di cui, in primo luogo, all’art. 41 Cost., e, più in generale, con i principi dell’economia sociale di mercato (e oggi potremmo dire principi ordoliberali) che permeano la Costituzione italiana, onde soddisfare la condivisibile esigenza che il contratto possa diventare sempre più il mezzo per l’attuazione di un giusto ordine sociale, ossia di una giusta circolazione dei beni all’interno di un sistema economico di mercato (MESSINEO, F.: Il contratto in generale, cit., p. 56).
Orbene, se l’autonomia privata trova un fondamento, quantomeno indiretto, nell’art. 41 Cost., possiamo ricondurre alla libertà di impresa e quindi all’autonomia privata tanto l’art. 42 quanto gli artt. 2 e 3 Cost., letti abitualmente in senso solidaristico anti-mercato, ma che ben potrebbero (e questa occasione invero oggi si offre pienamente) essere ripensati al fine di un ‘irrobustimento ordinamentale’ del contratto alla luce di una più salda tutela del mercato. In questo modo potremmo trovarci di fronte a un’economia di mercato che, sfruttando ogni spazio di libertà e quindi di inventiva, diverrebbe il principale rimedio da impiegare contro quegli stessi fallimenti del mercato genericamente (ma non del tutto correttamente) riconducibili alla pandemia.
5. Concludiamo. È proprio di fronte a questa emergenza ormai assai più economica che non sanitaria che si può ragionare nei termini di una buona fede in executivis avente uno spiccato carattere rimediale.
Naturalmente non si sta affermando che la soluzione preferibile sia quella di affidarsi a un potere taumaturgico del giudice, che utilizzi la buona fede sulla base di ragioni che stanno a cavallo tra l’etica e la morale; ma se ragioniamo in chiave economica, anche in assenza di un obbligo di rinegoziazione avente fonte nella legge, tale obbligo può fondarsi sulla buona fede contrattuale.
Ciò, in particolare, per due ragioni, strettamente connesse: la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta è derogabile dalle parti, e allora non si vede perché non si possa ricorrere alla buona fede non già per attribuire al giudice un generico potere di riequilibrare il contratto (che allora potrebbe addirittura indurre le parti medesime a tentare di recuperare utilità cui esse avevano rinunciato al momento della conclusione del contratto, ma che potrebbero paradossalmente rientrare in gioco sulla base dell’esigenza di approdare a un generico riequilibrio contrattuale affidato al giudice per ragioni di giustizia sostanziale), quanto piuttosto per indurre le parti, coinvolte in quel giudizio, a pervenire a una spontanea modificazione del regolamento contrattuale nel rispetto dell’economia della pattuizione e dunque dell’operazione economica.
Tanto la spontanea modificazione del contenuto contrattuale quanto la modificazione ope iudicis operata ex fide bona sono modalità attuative della ratio dell’operazione economica, a tutela dell’assetto di interessi che i contraenti hanno costruito