Autores: Federico Pascucci, Assegnista di ricerca Unicam. Correo electrónico: federico.pascucci@unicam.it; e e Roberto Garetto, Assegnista di ricerca Unicam. Correo electrónico: roberto.garetto@unicam.it
1. L’imprenditore alberghiero riveste una posizione atipica. Deve dirigere la “comunità” di persone che sono a lui legate da un contratto di lavoro, ma può gestire anche lavoratori di terzi che svolgono mansioni nei suoi locali aziendali.
Ne deriva un ambiente in cui i contatti tra persone sono stretti e dove il rischio da fattore biologico – specie se un agente patogeno altamente infettivo come quello responsabile del Covid-19 – è elevato. Ancora di più se si pensa che la chiusura delle attività produttive non essenziali prevista dal D.P.C.M. 22 marzo 2020 (e modificata dal D.P.C.M. 26 aprile 2020) non ha riguardato proprio i servizi alberghieri.
Già dalle disposizioni costituzionali (art. 2, 32 e 41 Cost.) emerge l’obbligo dell’albergatore di prendersi cura della salute psicofisica dell’altro, inteso come “persona” (PERLINGIERI, P.: Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, 3ª ed., Napoli, 2006, p. 435), a maggior ragione se poi detta persona entra in contatto con l’apparato produttivo che egli organizza, e la sua conseguente responsabilità ove tale obbligo rimanga inadempiuto. Ma che tipo di responsabilità? Perché se egli è obbligato contrattualmente a tutelare la salute e la sicurezza delle persone che lavorano per lui in base al d.lgs. n. 81 del 2008 (d’ora in poi TU) ed alla norma di chiusura dell’art. 2087 c.c., rimane da vedere il titolo che legittima colui che ha contratto la malattia Covid-19 al di fuori del contratto di lavoro a domandare il risarcimento all’albergatore.
Di quale tutela potranno disporre i lavoratori del terzo imprenditore che svolgono le loro mansioni presso i locali dell’albergatore? La loro pretesa sarà contrattuale oppure aquiliana?
La domanda non è oziosa, vista la differente disciplina – sia in tema di onere probatorio, sia in termini di prescrizione – che discende dall’applicazione della prima oppure della seconda opzione.
Se è pur vero che l’art. 2043 c.c. configura una clausola generale che punisce il “danno ingiusto”, non è men vero che l’obbligazione di risarcire detto danno deriva dal comportamento colpevole di un soggetto che, solitamente, non ha nessun altro collegamento con il danneggiato che non sia il fatto illecito (si parla di responsabilità del passante o quisque de populo; CASTRONOVO, C.: La nuova responsabilità civile, 2ª ed., Milano, 1997, p. 180).
Discorso diverso va fatto per chi, non avendo con taluno rapporti ex contractu, non potrebbe richiedere in termini strettamente contrattuali la tutela della sua integrità psicofisica, ma si trova comunque in contatto con la sfera giuridica di questi. Contatto che potrebbe rivelarsi dannoso (ROSSI, S.: “Contatto sociale (fonte di obbligazione)”, in Digesto delle discipline privatistiche, sezione civile, 2010, V, p. 349; FAVALE, R.: “Il rapporto obbligatorio e la dottrina degli obblighi di protezione nel modello tedesco”, in AA.VV.: L’obbligazione come rapporto complesso, Torino, 2016, p. 71). In tali casi prendere in considerazione solo il verificarsi del danno significherebbe non tenere conto dello svolgimento dell’intera vicenda (FLAMINI, A.: “La responsabilità medica tra «formanti» e «nuova legge»”, in Annali della Facoltà Giuridica dell’Università di Camerino, 2015, vol. 4, p. 7). Questa non inizia con l’evento dannoso, ma col “rapporto” tra soggetti che, pur non essendo legati da vincolo contrattuale, espongono a pericolo loro interessi meritevoli di tutela in occasione del “contatto sociale” che si instaura nell’esecuzione di altri contratti che uno o più di loro adempie (CASTRONOVO, C.: “Ritorno dell’obbligazione senza prestazione”, in Eur. dir. priv., 2009, III, p. 681). Sembra proprio quest’ultima la situazione che viene ad instaurarsi tra l’albergatore ed i lavoratori che interagiscono con l’organizzazione da lui predisposta ed i rischi che essa comporta. Specie poi quando uno di detti rischi è il Covid-19, che nei luoghi di concentrazione degli individui può mostrare tutto il suo deleterio potenziale per la salute umana.
Un’attività di lavoro rende sempre possibile che una malattia oppure un infortunio possa avere la sua causa esclusiva, o una concausa, nell’ambiente in cui essa avviene. Vi è perciò l’esigenza di prevenire gli eventi lesivi per la salute del lavoratore cercando di scongiurare o ridurre i rischi legati allo svolgimento delle mansioni o alla mera permanenza sul luogo di lavoro (DEL PUNTA, R.: Diritto del lavoro, 6ª ed., Milano, 2014, p. 523).
La norma chiave nella protezione della salute sul posto di lavoro è l’art. 2087 del codice civile, secondo cui “il datore di lavoro è tenuto ad adottare tutte le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. La norma addossa sul datore un obbligo di sicurezza della persona del lavoratore, obbligo che entra a far parte del contratto di lavoro ed al quale corrisponde un diritto soggettivo indisponibile (ALBI, P.: Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, 2008, p. 125). L’omessa o incompleta adozione delle misure di sicurezza, ed il loro inefficiente funzionamento, configurano un inadempimento contrattuale ed ingenerano, in capo al datore, una corrispondente responsabilità ex art. 1218 c.c. (Cass., 12 marzo 2018, n. 5957, in Dejure).
L’obbligo di protezione dei lavoratori è dinamico. Il datore ha sempre il dovere di adeguare i presidi protettivi ai progressi tecnologici in modo che la sicurezza dei dipendenti rimanga costante, e non può limitarsi ad adottare mezzi tecnici o procedure di protezione basandosi sul rapporto costi/benefici, dato che tale rapporto può essere ammesso solo nel caso di tutela di beni materiali, ma viene escluso riguardo la vita e l’integrità fisica della persona (Cass. pen., sez. IV, 27 gennaio 2016 n. 3616, inedita; PERLINGIERI, P.: Il diritto civile, cit., p. 101). Nello scegliere gli strumenti e le procedure di sicurezza più adatti, il datore dovrà sempre adottare (salvo impossibilità oggettiva) quelle che consentano di azzerare, o almeno di mitigare, il rischio al massimo livello (c.d. principio della “massima sicurezza tecnologicamente fattibile”; DEL PUNTA, R.: Diritto del lavoro, cit., p. 525).
Anche se può sembrare un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ossia una responsabilità del datore per il mero fatto dell’infortunio o della malattia del lavoratore per causa di lavoro, l’art. 2087 presuppone sempre la colpa (in eligendo oppure in vigilando). Dato che il “rischio zero” non esiste, il datore non ha un “obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare qualsiasi danno”, ovvero non deve predisporre qualsiasi procedura di protezione per qualsiasi rischio che riguardi i suoi lavoratori, ma solo quelli specifici che essi corrono hic et nunc, ossia in base ai fattori rilevabili nelle concrete condizioni di lavoro (Cass., 17 aprile 2012, n. 6002, in Mass. Giur. lav., 2013, p. 873).
La prova liberatoria del caso fortuito o della forza maggiore sarà comunque particolarmente difficoltosa per il datore (tanto che DEL PUNTA, R.: Diritto del lavoro, cit., pp. 525-526, parla di responsabilità tendente a divenire “di fatto, di natura quasi oggettiva”), in quanto essa corrisponderà solo al c.d. rischio elettivo, ossia ad un comportamento del lavoratore talmente abnorme ed imprevedibile da porsi al di fuori di qualsiasi possibilità di controllo.
L’art. 2087 non è la sola norma che il datore deve rispettare. In tema di sicurezza vi è anche il corposo TU del 2008, applicabile a tutti i lavoratori (subordinati, autonomi, parasubordinati ed atipici) che prevede regole sia generali, sia specifiche in base ai fattori di rischio. Tra le prime devono essere menzionate l’obbligo del datore di valutare i rischi generici e specifici della sua attività e redigere il conseguente Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) ex art. 28 TU, nonché l’onere di coinvolgere direttamente i lavoratori nel sistema di prevenzione mediante il loro diritto-dovere di ricevere un’informazione ed una formazione adeguata sui rischi generali e specifici e sulle misure di protezione (artt. 36-37 TU). Il datore non può fermarsi al mero rispetto della normativa settoriale di protezione, ma deve valutare il pericolo in base alle caratteristiche della prestazione lavorativa e degli ambienti di lavoro e adottare qualunque misura che “in concreto” si renda necessaria “per la tutela del lavoratore in base all’esperienza e alla tecnica” (Cass., 17 aprile 2012, n. 6002, cit.).
Potrebbero sotto quest’ultimo profilo venire in aiuto le linee guida emanate soprattutto dalle autorità sanitarie − quali le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) oppure il Protocollo “Accoglienza sicura” della Federalberghi − per eliminare o almeno contenere il rischio da infezione Covid-19? Tecnicamente detti strumenti, ove non recepiti in un atto legislativo, non avrebbero forza coercitiva, sia perché semplici “raccomandazioni” da applicare volontariamente, sia perché spesso di contenuto estremamente generico, quando non addirittura ovvio (vedi la raccomandazione prevista dal 3.1 del Protocollo “Accoglienza sicura”).
Ove però essi fossero utilizzati dall’albergatore per predisporre il DVR o inglobati nelle sue direttive, potrebbero divenire vincolanti e comunque andare a completare il principio della massima sicurezza tecnicamente fattibile ex 2087.
Questo quadro di responsabilità del datore rispetto ai suoi lavoratori può considerarsi valido anche in tempi di Covid-19. Sul punto a nulla rileva la novità del fattore patogeno. Esso non cambia in linea generale gli obblighi datoriali in ordine ai doveri di informazione e formazione nonché dotazione dei presidi di sicurezza, come ben dimostrato dal primo caso di infezione da Hiv nel marzo del 1987 nell’ospedale di Torino, ove venne riconosciuta la responsabilità del datore per omessa formazione e controllo sul corretto utilizzo dei macchinari e delle dotazioni protettive individuali al personale sanitario (Torino, 22 marzo 1989, in Foro it., 1990, II, p. 58).
Come si atteggia invece l’obbligo datoriale nei confronti di coloro che sono sì lavoratori, ma di un altro soggetto, e che entrano in contatto con la sua organizzazione imprenditoriale per adempiere alle loro mansioni nei confronti del loro datore di lavoro?
Ove due imprenditori stipulano un accordo in forza del quale il lavoratore di uno è chiamato a lavorare presso l’altro (tipici sono il contratto di appalto oppure il distacco), si viene a creare anche tra il lavoratore ed il soggetto nei cui luoghi aziendali egli lavora un rapporto da “contatto sociale qualificato” che obbliga quest’ultimo a tutelare l’integrità psicofisica del primo esattamente come egli farebbe con i suoi lavoratori.
Né l’ipotesi deve apparire peregrina. L’ambito di applicazione dell’art. 2087, già come visto molto ampio, è stato ancora più esteso dalla dottrina, che ha configurato l’obbligo di sicurezza non soltanto come dovere di tutelare i soggetti che si muovono all’interno dei locali dell’azienda, ma anche e soprattutto come obbligo di fornire un ambiente lavorativo salubre “per se” (LEPORE, M.: “La prestazione di sicurezza”, in AA.VV.: Contratto di lavoro e organizzazione (a cura di M. MARAZZA), in Trattato di diritto del lavoro (diretto da M. PERSIANI, F. CARINCI) vol. IV, t. II, Padova, 2012, p. 1761). Anche la giurisprudenza, specie quella penale, ha avuto modo di porsi sulla stessa linea, affermando che l’imprenditore “ha l’obbligo di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro per tutti i soggetti che prestano la loro opera nell’impresa, senza distinguere tra lavoratori subordinati e persone estranee all’ambito imprenditoriale e ricorre l’aggravante della violazione di norme antinfortunistiche anche quando la vittima è persona estranea all’impresa, in quanto l’imprenditore assume una posizione di garanzia in ordine alla sicurezza degli impianti non solo nei confronti dei lavoratori subordinati o dei soggetti a questi equiparati, ma altresì nei riguardi di tutti coloro che possono comunque venire a contatto o trovarsi ad operare nell’area della loro operatività” (cfr. Cass. pen., sez. IV, 21 gennaio 2016, n. 2525 in https://olympus.uniurb.it).
Se dunque quella dell’imprenditore è una posizione di garanzia nei confronti dei dipendenti (suoi o di altri) che si trovano “qualificatamene”, perché a vario titolo legittimati, all’interno dei suoi locali aziendali (posizione che la pandemia non affievolisce), questi si trova a dover rispondere anche dell’affidamento che detti dipendenti hanno nei suoi confronti riguardo al rispetto degli obblighi di sicurezza. Di questo affidamento egli risponderà sempre a titolo contrattuale, benché non vi sia nessun rapporto di lavoro che lo leghi a tali lavoratori (ROSSI, S.: “Contatto sociale”, cit., p. 351; CASTRONOVO, C.: La nuova responsabilità, cit., p. 252). In concreto, per evitare – o almeno minimizzare – il contagio da Covid-19 nei confronti dei lavoratori, l’albergatore dovrà sicuramente rispettare quanto previsto dal TU in tema di DVR e di informazione e formazione specifica sul rischio da coronavirus, nonché adempiere a tutte le incombenze che riguardano la prevenzione e protezione dagli agenti biologici (cfr. titolo X del TU).
Inoltre sarà tenuto all’applicazione di ciò che è disposto dal Protocollo di sicurezza sui luoghi di lavoro del 24 aprile del 2020 (all. 6 del D.P.C.M. 26 aprile 2020), siglato dal Governo e dalle parti sociali per la prevenzione e gestione del rischio Covid-19 negli ambienti lavorativi. In esso sono previsti − tra gli altri − la possibile misurazione della temperatura dei dipendenti all’entrata dei luoghi di lavoro, il rispetto della distanza di sicurezza, la possibilità di utilizzare telelavoro oppure lavoro agile, la dotazione di dispositivi di protezione individuali (DPI), tra cui guanti, mascherine ed eventualmente camici. Del rispetto di tali prescrizioni l’albergatore risponderà altresì nei confronti dei lavoratori non suoi, così come risponderà nei loro confronti delle disposizioni specifiche previste dal TU per gli appalti, i distacchi o le somministrazioni (artt. 3, comma 6 e 26 del d.lgs. 81/2008).
In ogni caso di inadempimento delle norme speciali o del principio della massima sicurezza tecnicamente fattibile ex art. 2087, l’imprenditore alberghiero sarà chiamato ex contractu sia verso i suoi dipendenti (T. Roma, 24 maggio 2011 in Ragiusan, 2011, fasc. 329, p. 129, riguardo alla responsabilità del Ministero delle finanze a seguito della morte per legionella di un suo dipendente), sia verso i dipendenti di terzi, ma che sono pur sempre legittimati a svolgere le loro mansioni all’interno dei suoi locali.
2. Il contratto d’albergo si connota come contratto d’impresa (D’ETTORE, F.M., MARASCIULO, D.: Il contratto d’albergo. Profili civilistici, Milano, 2008, p. 112). In relazione alle situazioni di emergenza sanitaria poste dalla pandemia da Covid-19, l’albergatore, quale imprenditore, è tenuto a garantire la fruizione di un ambiente sano e sicuro tanto ai lavoratori, quanto ai clienti. Il rischio che la trasmissione del virus sia favorita da condizioni ambientali sotto il suo diretto controllo è reale.
La polmonite atipica da SARS, diffusasi tra il 2002 e il 2003 in Cina, costituisce per il giurista un riferimento preciso per esaminare le implicazioni dell’attuale pandemia da Covid-19, che evidenzia con la precedente significativa analogia (DE LISLE, J.: “Atypical Pneumonia and Ambivalent Law and Politics: SARS and the Response to SARS in China”, in Temple Law Review, 2004, p. 193). Nel corso di tale epidemia si verificarono eventi di accelerazione del contagio (superspreading virale) tramite condizionatori d’aria (AA. VV.: “Sars and international legal preparedness”, in Temple Law Review, 2004, p. 157). Quello più grave riguardò il Blocco E dell’Amoy Gardens di Hong Kong, ove i condizionatori furono strumenti di trasmissione del virus attraverso diffusione del bioaerosol, con la contaminazione di più di 300 ospiti. È quindi accertato che, in presenza di situazioni non debitamente controllate, spazi chiusi ad elevata concentrazione abitativa, se dotati di condizionatori, possono diventare lo scenario di disastrosi eventi infettivi (AA.VV.: “Multi-zone modeling of probable SARS virus transmission by airflow between flats in Block E, Amoy Gardens”, in Indoor Air, 2004, p. 110). Poiché il Blocco E era costituito da unità abitative date in locazione, il contenzioso si limitò ad ipotesi di recesso dal contratto per giusta causa, ipotesi peraltro ritenuta non ravvisabile (cfr. Li Ching Wing v Xuan Yi Xiong [2003] HKDC 54). Il giudice ritenne infatti che l’epidemia da SARS, pur essendo evento imprevedibile, non fosse sufficiente ad alterare il rapporto obbligatorio di natura contrattuale; il locatario fu tenuto a corrispondere al locatore il canone anche per il periodo successivo all’abbandono dell’unità abitativa (JACOBS, L.A.: “Rights and Quarantine During the SARS Global Health Crisis: Differentiated Legal Consciousness in Hong Kong, Shanghai, and Toronto”, in Law & Society Review, 2007, p. 543).
È evidente tuttavia come la fattispecie descritta possa essere facilmente configurabile anche nel contesto di un albergo. Nell’ordinamento italiano l’albergatore, in questo caso, risponderebbe per i danni alla salute provocati ai clienti dalla diffusione del virus attraverso condizionatori ai sensi dell’art. 2051 c.c. Sul tema vi è ormai giurisprudenza consolidata (cfr. Cass. civ., sez. III, 8 febbraio 2012, n. 1769, in Giust. civ., 2012, I, p. 1723). Si configura una responsabilità da custodia nell’esercizio delle attività alberghiere; tale responsabilità ha natura oggettiva, in quanto si ritiene sufficiente che il danneggiato fornisca la prova della sussistenza del nesso causale tra la cosa che ha provocato l’incidente e l’evento dannoso, indipendentemente dalla diligente condotta dell’albergatore, sul quale incombe l’onere di provare il caso fortuito o la forza maggiore.
La responsabilità dell’albergatore ex art. 2051 ha una portata assai vasta, sino al limite della responsabilità assoluta, tanto da trasformarla, per cose in custodia, in una sorta di assicurazione delle vittime degli incidenti (CERCHIA, R.E.: “Art. 2051 c.c. e «stato dei luoghi». Ci si è dimenticati di qualcosa?”, in Danno resp., 2012, p. 1053). Tale portata si amplia ulteriormente allorchè si considera che l’attività alberghiera è oggi il risultato di una complessa sequenza di operazioni contrattuali (D’ETTORE, F.M., MARASCIULO, D.: Il contratto d’albergo, cit., p. 7). Oltre al contratto d’albergo in senso stretto, tale attività può ricomprendere servizi riferibili ai contratti di ristorazione, di trasporto (tramite l’utilizzo di mezzi messi a disposizione del cliente), di lavanderia, nonché servizi funzionali alla salute ed al benessere, riconducibili tutti a corrispondenti forme contrattuali atipiche. Queste attività, come sottolineato dalla Suprema Corte (Cass. civ., sez. III, 23 dicembre 2003, n. 19769 in Giust. civ., 2004, I, p. 1763), non assumono carattere accessorio sotto il profilo causale rispetto al contratto di albergo, inteso come locazione di alloggio, che conserva carattere preminente.
Da tale ventaglio di situazioni contrattuali correlate la questione della responsabilità dell’albergatore nei confronti dei clienti esce accresciuta per effetto dell’art. 2049 c.c., che grava l’imprenditore di una responsabilità indiretta per il fatto dannoso del dipendente.
L’articolo postula l’esistenza di un nesso di occasionalità necessaria (Cass., 6 aprile 2002, n. 4951 in Giust. civ., 2002, I, p. 1513) tra l’illecito e il rapporto che lega l’albergatore ed il suo dipendente, nel senso che le mansioni affidate abbiano reso possibile o comunque agevolato il comportamento produttivo del danno al cliente. Un simile aggravio di responsabilità è riconducibile all’applicazione del principio ubi commoda, ibi incommoda. È infatti posto a carico dell’imprenditore, come componente dei costi e dei rischi dell’attività economica, il risarcimento del danno cagionato dai soggetti della cui prestazione egli si avvale per perseguire il profitto (D’ADDA, A.: “Il nesso di occasionalità necessaria tra mansioni e condotta dannosa del preposto: ancora una discutibile pronuncia della Suprema Corte”, in Nuova giur. civ. comm., 2010, p. 188).
Quali strumenti avrà quindi l’albergatore per garantire alla comunità che fa capo alla sua attività, costituita da dipendenti, collaboratori esterni e clienti, condizioni di sicurezza sanitaria tali da minimizzare il rischio di infezione da Covid-19 contratta all’interno della sua struttura?
In ordine alle ipotesi di responsabilità previste ex art. 2049, l’albergatore potrà cautelarsi implementando le disposizioni del Protocollo di sicurezza sui luoghi di lavoro ed imponendo al dipendente l’uso di guanti monouso e di strumenti di protezione respiratoria, in particolare mascherine FFP2 o FFP3 (AA. VV.: “Surgery in COVID-19 patients: operational directives, in World Journal of Emergency Surgery”, 2020, p. 26), idonee a fornire totale protezione tanto alla sua salute, quanto a quella del cliente (purché la mascherina non abbia la valvola: in tal caso la protezione del cliente non sarebbe garantita).
Il Protocollo consente pure − come detto − la misurazione della temperatura corporea del dipendente. Tale pratica, già efficacemente adottata per regolare i flussi di accesso in strutture nelle aree colpite da SARS nel 2003 (AA.VV.: “Infrared Thermography to Mass-Screen Suspected Sars Patients with Fever”, in Asia-Pacific Journal of Public Health, 2005, p. 26), consente all’albergatore di prevenire eventuali danni alla salute sia dei dipendenti, sia dei clienti.
Le speciali misure di cautela che si impongono per ridurre al minimo il rischio di contagio da Covid-19 all’interno di una struttura alberghiera necessitano di un apporto collaborativo da parte del cliente. Mentre rispetto ai dipendenti l’albergatore, in virtù del rapporto di lavoro, può stabilire regole di condotta e vigilare sul loro rispetto, nei confronti del cliente è necessaria una sua specifica adesione a regole di sicurezza sanitaria.
Ciò pone due ordini di problemi: quali siano le regole da adottare e con quali modalità si possa richiedere al cliente l’adesione ad esse, prevedendo eventuali sanzioni contrattuali, ove non si uniformi.
Quanto al primo problema, oltre alla normativa interna, sarebbe opportuno per l’albergatore fare riferimento alle linee guida dell’OMS in materia di prevenzione della pandemia da Covid-19 nelle strutture ricettive (cfr. “Operational considerations for COVID-19 management in the accommodation sector”, 30 aprile 2020). Ad esse potranno aggiungersi indicazioni provenienti dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (cfr. “Disinfection of environments in healthcare and nonhealthcare settings potentially contaminated with SARS-CoV-2”, in www.ecdc.europa.eu, marzo 2020) dall’Organizzazione mondiale del turismo, nonché da organizzazioni di settore nazionali (vedi il già citato Protocollo “Accoglienza sicura”).
Inoltre l’albergatore potrà adottare standard di sicurezza più elevati al fine di tutelare la salute dell’intera comunità cui fa riferimento l’attività alberghiera, giacché rileva sotto tale profilo il valore della persona unitariamente inteso (PERLINGIERI, P.: Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., p. 730). Con l’intento di garantire a ciascuna delle persone che si trovino all’interno della struttura la tutela della salute (art. 32 Cost.), egli potrà richiedere anche al cliente una collaborazione attiva, in base ai presupposti solidaristici che caratterizzano il nostro ordinamento (art. 2 Cost.).
Nella fase precontrattuale dell’offerta al pubblico, ex art. 1336 c.c., l’albergatore potrà indicare le norme di comportamento richieste al cliente, quali l’utilizzo di dispositivi di protezione individuale forniti nella struttura alberghiera, come gel igienizzanti per le mani, mascherine, etc., allorché questi transita o staziona nelle aree comuni. L’accettazione espressa dell’offerta al pubblico, così come formulata, nel giungere all’albergatore determinerà la conclusione del contratto d’albergo (Cass. civ., III, 3 dicembre 2002, n. 17150, in Giust. Civ., 2003, I, p. 36) e vincolerà il cliente. L’albergatore potrà prevedere una clausola penale, ex art. 1382 c.c., ove il cliente non osservi le norme di comportamento espressamente indicate. Tale clausola avrà una funzione risarcitoria (in ordine ad esempio ad eventuali misure di sanificazione che dovessero ritenersi necessarie) e al tempo stesso deterrente, potendo coesistere entrambe le funzioni nella pattuizione privata (GALGANO, F.: “Art. 1382-1384”, in Comm. del cod. civ., a cura di A. SCIALOJ e G. BRANCA, Bologna-Roma, 1993, p. 165). La clausola penale, ai sensi dell’art. 1229 c.c., non esonera il cliente da responsabilità per dolo o colpa grave.
Poiché al contratto d’albergo è applicabile, ricorrendone i presupposti, la disciplina del Codice del consumo (d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206), graverà sull’albergatore provare, specie nell’ipotesi in cui l’offerta sia resa nota via internet (ponendo il cliente-consumatore nella posizione di ‘‘aderente’’ rispetto ad un contratto concluso mediante moduli o formulari) che la clausola pattizia sia stata comunque oggetto di specifica trattativa, ai sensi dell’art. 33, ult. comma, Codice del consumo (D’ETTORE, F.M., MARASCIULO, D.: Il contratto d’albergo, cit., pp. 160-161).
Le condizioni di salute del cliente al momento dell’accesso nell’albergo e durante la sua intera permanenza possono avere implicazioni complesse. È evidente che uno stato patologico per infezione da Covid-19 costituisce rischio tanto per gli altri clienti, quanto per i lavoratori. Significativo il caso verificatosi nel Metropole Hotel di Hong Kong nel 2003, ove un cliente ha infettato numerosi ospiti dell’albergo (vedi AA. VV.: “The role of the hotel industry in the response to emerging epidemics: a case study of SARS in 2003 and H1N1 swine flu in 2009 in Hong Kong”, in Globalization and health, 2018, p. 119).
L’albergatore potrebbe trovarsi a disporre di dati “ipersensibili” sulla salute del cliente. Di tali dati, in linea generale, è vietato il trattamento, salvo sussistano motivi di interesse pubblico nel settore della sanità. Questi motivi possono prescindere dal consenso dell’interessato solo qualora vi sia una norma specifica dell’Unione Europea o dello Stato Membro che autorizzi il trattamento, purché detta norma preveda misure specifiche ed appropriate per tutelare i suoi diritti e libertà, ai sensi dell’art. 9, § 2, lettera i), Reg. 679/2016 (GPDR).
L’OMS, al punto 4 delle sue linee guida, raccomanda all’albergatore, tenuti presenti gli aspetti connessi alla privacy, di monitorare le condizioni di salute dei clienti, tenendo anche conto delle loro richieste di prestazioni mediche, così da facilitare il rilevamento e la gestione di eventuali casi sospetti da parte delle autorità sanitarie locali. Ciò si potrebbe giustificare sul presupposto che “la sensibilità dell’informazione personale debba essere intesa in senso relativo e valutata caso per caso con riferimento al contesto ed alla natura intrinseca dell’informazione” (DI RESTA, F.: La nuova “Privacy europea”. I principali adempimenti del regolamento UE 2016/679 e profili risarcitori, Torino, 2018, pp. 16-17).
Sarebbe tuttavia necessario che tali linee guida fossero richiamate all’interno dell’atto normativo europeo o nazionale, in quanto da sole non avrebbero la forza di integrare la disciplina prevista dall’art. 9, § 2, lettera i), GDPR.
L’elevato rischio che l’albergatore deve fronteggiare nell’esercizio dell’attività d’impresa durante la pandemia da Covid-19 può in parte essere mitigato con la stipulazione di polizze assicurative. Tali polizze tuttavia dovrebbero essere predisposte ad hoc, giacché il risarcimento per danni da epidemia è escluso normalmente dalle polizze standard. Nel corso dell’epidemia SARS del 2003 il settore assicurativo in area asiatica ebbe una forte crescita proprio in relazione alla vendita di polizze per risarcimento di danni da contagio (DOMBEY, O.: “The effects of SARS on the Chinese tourism industry”, in Journal of Vacation Marketing, 2003, pp. 7-8). Questa possibilità potrebbe costituire un incentivo a proseguire l’attività alberghiera, di indubbia valenza sociale, anche laddove la valutazione del rischio potenziale potrebbe scoraggiare l’albergatore, inducendolo a comportamenti eccessivamente prudenziali.
Nota: Il paragrafo 1 è attribuibile a Federico Pascucci e il paragrafo 2 a Roberto Garetto.