Autora: Cinzia Di Miele, Laureata in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Perugia e specializzata della Scuola di specializzazione per le professioni legali presso l’Università degli Studi di Perugia.
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Resumen: Il presente lavoro analizza alcune questioni inerenti le condizioni per l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita previste dalla l. n. 40 del 2004. In particolare la ricerca evidenzia le problematiche connesse al divieto di diagnosi genetica preimpianto per le coppie fertili affette da malattie trasmissibili geneticamente alla luce dei recenti interventi della giurisprudenza.
1. La ricerca scientifica in ambito procreativo ha cercato di fornire una soluzione a due tra i problemi più sentiti e diffusi della nostra società: la sterilità e l’infertilità della coppia. Invero si è assistito, sempre con maggiore frequenza, ad una rottura dell’endiadi procreazione e sessualità; ed infatti la procreazione, da atto naturale strettamente connesso alla sessualità, è divenuta possibile anche al fuori del corpo femminile, potendo essere generato un essere umano anche tramite l’ausilio di strumenti medico-farmaceutici.
In tale contesto si inserisce la l. 19 febbraio 2004, n. 40, recante norme in materia di procreazione medicalmente assistita, la quale ha avuto il pregio di dotare l’ordinamento italiano di una regolamentazione specifica in materia di fecondazione assistita.
Ebbene, sin dalla entrata in vigore della l. n. 40 del 2004 l’attenzione dell’interprete si è concentrata sulle ambiguità interpretative della normativa, le quali hanno provocato un acceso dibattito giurisprudenziale in materia.
In questa sede, non potendosi soffermare analiticamente su tutte le complesse problematiche connesse al tema della procreazione medicalmente assistita [sulle quali, in generale, si rinvia a De Verda y Beamonte, J.R., “Reproducción humana asistida”, in Revista Boliviana de Derecho (2009), p. 192 ss.; Id., Filiación derivada del uso de las técnicas de reproducción asistida, in Id. (Coord.), Derecho civil IV, Valencia (2013): Tirant lo Blanch, p. 293 ss.], si intende dare atto delle recenti questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Roma, prima, e di Milano, poi, rispetto al divieto opposto alle coppie fertili portatrici di malattie geneticamente trasmissibili di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita e, di conseguenza, alla diagnosi genetica preimpianto, di cui all’art. 1, commi 1 e 2, e all’art. 4, comma 1, l. n. 40 del 2004 (Trib. Roma, 15 gennaio 2014, in Foro it., 2014, c. 574, con nota di G. Casaburi, G.; Trib. Roma, 28 febbraio 2014, in www.biodiritto.org; Trib. Milano, 4 marzo 2015, in www.dirittocivilecontemporaneo.com).
In dettaglio i ricorrenti, i quali chiedevano, pur se fertili, di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita poiché portatori di una patologia geneticamente trasmissibile al nascituro e di potersi, pertanto, avvalere della diagnosi preimpianto in modo da poter conoscere lo stato di salute dell’embrione prima dell’impianto nell’utero della donna, si vedevano negare la loro richiesta stante l’esclusione prevista dalla l. n. 40 del 2004 per le coppie fertili di accedere ai trattamenti di procreazione assistita.
Difatti per tali coppie l’accesso alle tecniche mediche di procreazione medicalmente assistita si pone quale condizione preliminare per potere effettuare la diagnosi preimpianto e per poter, quindi, essere sicuri di far nascere un figlio non affetto dalla malattia di cui i genitori sono portatori.
In realtà tale problematica era stata già affrontata dalla giurisprudenza di merito, pur se con una pronuncia rimasta per un lungo periodo isolata, con la quale i giudici, con una interpretazione “originale” e costituzionalmente orientata della l. n. 40 del 2004, avevano ammesso il ricorso alle tecniche di PMA anche per le coppie fertili e portatrici di una patologia trasmissibile al feto (Trib. Salerno, 9 gennaio 2010, in Fam. dir., 2010, p. 476).
2. In primo luogo occorre precisare che la diagnosi genetica preimpianto consiste in un esame genetico diretto ad accertare, attraverso il prelievo di una o più cellule dall’embrione prima del suo impianto nell’utero materno, se l’embrione sia portatore o meno di determinate gravi patologie e, quindi, di conoscerne prima dell’impianto lo stato di salute.
Si osserva che all’interno della l. n. 40 del 2004 non vi è una disposizione che sancisce espressamente il divieto di diagnosi genetica preimpianto; tuttavia anche in assenza di un espresso divieto normativo, tale prescrizione si desume indirettamente da una serie di disposizioni contenute nella l. n. 40 del 2004, ovvero negli artt. 1 e 4 della predetta legge.
Nondimeno va detto che, dopo alcune pronunce della giurisprudenza di merito contrarie alla legittimità della diagnosi genetica preimpianto (sul punto Trib. Catania, 3 maggio 2004, in Foro it., 2004, c. 3495), l’orientamento giurisprudenziale prevalente, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata della l. n. 40 del 2004, ha considerato tale tecnica medica quale mezzo per la tutela sia del diritto all’autodeterminazione degli aspiranti genitori che del diritto alla salute psico-fisica della donna (in questo senso Trib. Cagliari, 24 settembre 2007, in Fam. dir., 2007, p. 148; Trib. Firenze, 17 dicembre 2007, in Fam. dir., 2008, p. 723).
Venendo alle citate ordinanze di rimessione i giudici di merito aderiscono completamente all’interpretazione evolutiva che legittima la praticabilità della diagnosi genetica preimpianto per le coppie sterili affette da una grave patologia trasmissibile al feto. Appare evidente, infatti, che la diagnosi genetica preimpianto consente di evitare l’instaurazione di una gravidanza patologica ed impedisce, altresì, un aborto volontario i cui effetti sono sicuramente più traumatici ed invasivi per la salute della donna.
Nonostante ciò i giudici sottolineano che l’accesso alle tecniche di PMA, di cui all’art. 4, l. n. 40 del 2004, è ammesso solo per le sole coppie sterili o infertili; sicché le coppie fertili, ma portatrici di malattie trasmissibili geneticamente, non possono ricorrere a tali rimedi.
Ed è rispetto a tale problematica che i giudici interni prospettano un contrasto della normativa sull’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita rispetto ai valori di rilevanza costituzionale e sovranazionale, ovvero con i princípi costituzionali, di cui agli artt. 2, 3 e 32 cost., contestandone la lesione del principio di autodeterminazione nelle scelte procreative, di uguaglianza, di ragionevolezza e del diritto alla salute.
In merito a ciò l’iter motivazionale seguito dai giudici rimettenti muove, innanzitutto, dalla constatazione che dal tenore letterale della l. n. 40 del 2004, che limita espressamente il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita ai soli casi di sterilità ed infertilità, non è consentita una interpretazione estensiva degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, l. n. 40 del 2004. Allo stesso modo non si può procedere ad una interpretazione estensiva delle norme summenzionate sulla base dell’ampliamento dei casi di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, operato dalla linee guida del 2008 contenenti le indicazioni delle procedure e delle tecniche di PMA, alle ipotesi in cui l’uomo è affetto da malattie virali sessualmente trasmissibili. Va da sé che in tali casi il rischio di contagio della madre e del feto è così elevato da imporre l’adozione di precauzioni che si traducono, in buona sostanza, nella impossibilità per la coppia di avere dei figli.
In funzione della previsione di tali rigorosi paletti il principio di autodeterminazione nelle scelte procreative degli aspiranti genitori – ascrivibile tra i diritti fondamentali della persona, ai sensi dell’ art. 2 cost. – e il diritto degli stessi ad essere informati sulle condizioni di salute dell’embrione subiscono una grave lesione. Sul punto si precisa che la diagnosi genetica preimpianto non è uno strumento diretto alla selezione dell’embrione dotato di particolari caratteristiche fisiche o genetiche, ma è una tecnica finalizzata alla mera scelta di un embrione che non risulti affetto da una grave patologia medica.
A tal proposito appare evidente che la normativa italiana provoca, in violazione dell’art. 3 cost., una disparità di trattamento tra le coppie di aspiranti genitori. Ed infatti a causa dell’ammissione alle tecniche di procreazione medicalmente assistita per le coppie non fertili e portatrici di patologie geneticamente trasmissibili e della limitazione di accesso per le coppie fertili portatrici delle medesime patologie si disciplinano situazioni simili con modalità diverse.
Peraltro una siffatta disciplina determinerebbe la lesione anche della salute fisica e psicologica dell’aspirante madre con riferimento all’art. 32 cost., la quale sarebbe esposta ad una pressione psicologica per l’impianto nel proprio utero di un embrione affetto da una patologia genetica nonché ai rischi e i pericoli dovuti ad una interruzione della gravidanza. A ben vedere il legislatore finisce con il non realizzare un giusto bilanciamento tra gli interessi in gioco poiché impedendo l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita – e, pertanto, alla diagnosi genetica preimpianto – costringe la donna a prendere una decisione non informata, circa il trasferimento in utero degli embrioni, con un conseguente rischio per la propria salute.
3. Va segnalato che tale problematica non è del tutto nuova al panorama giurisprudenziale europeo ed infatti, sulla questione della legittimità e fruibilità della diagnosi genetica preimpianto da parte di una coppia fertile, la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo ha espresso il proprio orientamento, nel noto caso Costa e Pavan contro Italia [Corte EDU, 28 agosto 2012, in Foro it., 2012, c. 473, in dottrina Tripodina, C., “Esiste in Italia un diritto al figlio sano? (Riflessioni a margine della causa Costa et Pavan vs Italia)”, in Dir. pubbl. comp. eur. (2013), p. 925 ss.].
Giova precisare che con tale decisione la Corte EDU riconosce che il diritto della coppia ad avere un figlio non affetto dalla patologia di cui è portatrice costituisce un’espressione del diritto alla vita privata e familiare, di cui all’art. 8 CEDU. In tal modo il concetto di vita privata e familiare risulta essere molto ampio, tanto da ricomprendere oltre il diritto all’autodeterminazione nelle scelte di vita, anche la decisione di divenire o meno genitori.
Sulla questione i giudici hanno evidenziato il controsenso logico della normativa in tema di procreazione medicalmente assistita la quale, impedendo l’accesso alle tecniche di PMA per le coppie fertili e la successiva impossibilità di diagnosi preimpianto, provoca una indebita ingerenza nella vita della stessa coppia. Dunque la Corte sottolinea l’incoerenza di tale normativa che, per un verso, impedisce alla coppia fertile e affetta da una patologia trasmissibile la fruibilità della tecnica della diagnosi preimpianto e, dall’altro lato, consente alla donna di procedere all’aborto terapeutico per le medesime patologie.
Del pari appare chiaro come una siffatta disciplina comporti un irragionevole bilanciamento degli interessi in gioco, oltre ad esporre la donna ad evidenti rischi per la propria salute psico-fisica. Ad ogni modo ciò che invoca la Corte di Strasburgo non è un diritto ad avere un figlio sano ma semplicemente il diritto a non vedere il proprio figlio affetto dalla medesima malattia di cui i genitori sono portatori [in dottrina sulle pronunce CEDU in materia di procreazione medicalmente assistita si veda Medina, G., “Jurisprudencia del Tribunal Europeo de Derechos Humanos en materia de procreación”, in Actualidad Juridica Iberoamericana (2014), p. 53 ss.].
L’evoluzione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo in materia di procreazione medicalmente assistita e, conseguentemente, dell’ammissibilità della diagnosi genetica preimpianto per le coppie fertili ha costretto, dunque, i giudici rimettenti a valutare la possibilità di una diretta disapplicazione degli artt. 1 e 4 della l. n. 40 del 2004, in quanto contrastanti con le norme CEDU.
Su tale aspetto si precisa che le disposizioni contenute nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo sono norme internazionali pattizie che, pur vincolando lo Stato, sono prive di una efficacia diretta nell’ordinamento interno.
Al contempo la Convenzione è posta in una posizione gerarchica superiore rispetto alla legge ordinaria e, pertanto, in caso di conflitto tra la norma CEDU e quella interna, il giudice nazionale dovrà, in primo luogo, verificare la praticabilità di una interpretazione della norma interna in conformità alle disposizioni CEDU. Nel caso in cui tale interpretazione non sia possibile il giudice dovrà sollevare una questione di legittimità costituzionale della norma non conforme ai sensi dell’art. 117 cost.
Né del pari può essere invocata una “comunitarizzazione” della CEDU ad opera del Trattato di Lisbona, perciò, in caso di conflitto tra una norma CEDU ed una interna, al giudice non spetterà il potere di disapplicare la disposizione nazionale contrastante con una norma CEDU.
Come sembra evidente alla luce delle considerazioni appena esposte i giudici romani e meneghini escludono che l’eventuale incompatibilità degli artt. 1 e 4, della l. n. 40 del 2004 con le norme CEDU possa provocare una diretta disapplicazione delle predette disposizioni. Inoltre, avallando completamente, l’interpretazione evolutiva della Corte EDU sul tema, evidenziano il contrasto con l’art. 117, comma 1, cost., e, dunque, l’irragionevolezza dei limiti di accesso imposti dalla legge sulla procreazione medicalmente assistita in relazione al diritto al rispetto e alla vita familiare, di cui all’art. 8 CEDU, nonché al divieto di discriminazione, ex art. 14 CEDU.
Da ultimo, posto che a giudizio dei giudici non si possa procedere ad una interpretazione adeguatrice delle norme in contrasto con la disposizione CEDU, l’unica strada percorribile idonea a risolvere il conflitto tra le norme è la rimessione della questione dinanzi al supremo organo di garanzia costituzionale.
4. In definitiva le ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale prese qui in considerazione hanno messo ancora una volta in risalto le contraddizioni e le inadeguatezze della l. n. 40 del 2004, la quale si è dimostrata incapace di prestare un’adeguata tutela dei diritti e delle aspettative degli aspiranti genitori.
Dinanzi all’inerzia del legislatore l’evoluzione giurisprudenziale ha dato la spinta per una reinterpretazione dell’intera legge. Da questo punto di vista si segnala che la normativa in oggetto, già in passato, non è riuscita a superare il vaglio di legittimità della Consulta; si fa riferimento alla dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 14, commi 2 e 3 e, più di recente, alla dichiarazione di l’illegittimità costituzionale del divieto di fecondazione eterologa di cui all’art. 4, comma 3 [in dottrina v. Berti de Marinis, G., “La jurisprudencia italiana en materia de reproducción asistida”, in Actualidad Juridica Iberoamericana (2015), p. 761 ss.].
Va segnalato, pur con la sinteticità imposta dal fatto che ancora non sono state rese pubbliche le motivazioni, che il Giudice delle leggi, pronunciandosi lo scorso 14 maggio sulle recenti questioni di costituzionalità, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della l. n. 40 del 2004, nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della l. n. 194 del 1978, accertate da apposite strutture pubbliche. In altre parole nel caso in cui siano presenti i requisiti prescritti dalla l. n. 194 del 1978 per l’interruzione di una gravidanza le coppie potranno accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita e, di conseguenza, alla diagnosi genetica preimpianto, in modo tale da evitare un aborto terapeutico.
Per vero dalla semplice visione del dispositivo non si riesce a comprendere pienamente la portata e gli effetti di tale decisione. Comunque in attesa di leggere le motivazioni della pronuncia che, come detto, non sono state ancora rese pubbliche si può affermare che la Consulta, nello scegliere di far cadere un altro pilastro della normativa, ha deciso di tutelare pienamente i diritti di tutti gli aspiranti genitori ancorando, di fatto, il quadro normativo a criteri certi e ragionevoli. Del resto, appariva paradossale e discriminatorio che a fronte delle diverse interpretazioni esistenti in materia situazioni analoghe venissero affrontate in maniera differente. Per di più non erano ben chiare le ragioni in base alle quali una coppia, solo perchè fertile, dovesse essere esposta al rischio di avere un figlio affetto dalla stessa patologia di cui la stessa era portatrice.
Come sembra evidente ancora una volta la giurisprudenza ha cercato di smuovere il legislatore dal suo torpore sopperendo, peraltro, alle sue deficienze emerse in materia di procreazione assistita. É però vero che sebbene gli interventi giurisprudenziali abbiano contribuito ad ampliare e a rendere concreta la tutela degli interessi in gioco, è altrettanto vero che in una materia cosí eticamente sensibile si avverte ancor di più l’esigenza di un preciso intervento legislativo riformatore.
Ad ogni modo il legislatore dovrebbe operare al più presto una riscrittura dell’intera normativa sulla procreazione che appare svuotata da tutti i suoi profili più caratterizzanti, riconsegnando agli interpreti una legislazione chiara e idonea a fornire una piena tutela dei diritti della persona, nonché libera da tutte quelle rigide prescrizioni che, di fatto, limitavano eccessivamente le libertà di utilizzo dei trattamenti di procreazione assistita.