Autor: Dr. Giovanni Berti de Marinis, Prof. Investigador de la Universidad de Camerino, Ponencia a las VI Jornadas Internacionales de Derecho de Familia, organizadas por el Departamento de Derecho en colaboración con el IDIBE, 14 de octubre de 2015.
Sommario:
1. Crisi familiare e funzione degli “assegni”.
2. Analogie e differenze fra assegno di mantenimento ed assegno divorzile.
3. La quantificazione degli “assegni” ed il parametro del “tenore di vita”.
4. L’inopportunità di ancorare la quantificazione degli “assegni” al parametro del “tenore di vita”: un caso emblematico.
5. L’incidenza sulla quantificazione degli “assegni” degli incrementi patrimoniali successivi alla crisi familiare.
6. La formazione di una nuova “famigli” da parte del coniuge “debole” beneficiario dell’assegno.
7. Segue: La formazione di una nuova “famiglia” da parte del coniuge “forte” onerato dell’assegno.
8. La discussa validità di accordi prematrimoniali.
1. La crisi familiare, oltre a determinare importanti ripercussioni sotto un profilo personale, comporta anche conseguenza da un punto di vista patrimoniale. Se si ammette che la comunione spirituale fra coniugi possa cessare per i più disparati motivi, ciò non implica che i rapporti patrimoniali fra gli stessi vengano automaticamente a cessare. Paradossalmente, anzi, si riconosce maggiore “resistenza” agli impegni “patrimoniali” che derivano dalla celebrazione di un matrimonio rispetto a quelli personali che si attenuano con la separazione e si eliminano completamente con il divorzio. In altre parole, se si ammette che la solidarietà spirituale fra i coniugi possa cessare, si è meno propensi ad accettare che possa venir meno anche la solidarietà economica fra gli stessi.
Tale apparente paradosso, però, si giustifica per il fatto che se nessuno può essere obbligato a condividere spiritualmente la propria vita con qualcuno, allo stesso modo deve assumersi la “responsabilità” di una situazione che ha contribuito a creare e che, inevitabilmente, ha modificato la posizione economica dei coniugi creando una sorta di affidamento verso la stabilità della stessa.
L’intervento di una crisi familiare è, senza alcun dubbio, in grado di alterare questo equilibrio comportando la necessità di individuare strumenti patrimoniali al fine di riequilibrare la posizione del coniuge debole.
Contrariamente al Codice civile spagnolo che all’art. 97, comma 1, c.c. disciplina congiuntamente l’ipotesi di assegno dovuto dal coniuge forte in caso di separazione e di divorzio, le disposizioni che trattano dei rapporti economici fra i coniugi in situazione di crisi sono, nell’ordinamento italiano, l’art. 156 c.c. per quanto concerne l’assegno di mantenimento in caso di separazione e l’art. 5, comma 6 della l. 1 dicembre 1970, n. 898 per quanto concerne l’assegno divorzile.
Tale distinta disciplina, nonostante le evidenti similitudini sostanziali, ha spinto la dottrina a domandarsi se fra le due tipologie di assegni fosse rintracciabile una diversa funzione. Il dubbio, in realtà, è sorto per il fatto che le due tipologie di prestazioni vengono ad essere concesse in situazioni completamente distinte. Mentre infatti l’assegno di mantenimento riguarda una situazione di crisi familiare (la separazione) che – pur ridefinendo i reciproci obblighi coniugali – non elide il vincolo matrimoniale ed è ontologicamente strumentale alla ricomposizione della famiglia; l’assegno di divorzio interviene in un momento nel quale è ormai venuto meno qualunque vincolo coniugale in maniera definitiva.
Tuttavia, sgombrando il campo da ogni possibile fraintendimento, va precisato che il fondamento di tali obblighi economici è, in entrambi i casi, quello solidaristico nei confronti del coniuge che rivesta una posizione di debolezza economica e che, cioè, non sia provvisto di sufficienti mezzi economici. Una situazione di debolezza economica che, non percepibile in costanza di matrimonio, diventa invece evidente quando ricorra una situazione di crisi che rompa l’equilibrio patrimoniale che si era venuto a creare fra i coniugi.
2. Nonostante assolvano la medesima funzione – e, per molti aspetti, vengano assoggettati ad una disciplina similare -, qualche distinzione occorre farla al fine di evidenziare la concreta operatività dei due istituti.
Sotto il profilo dei presupposti che legittimano la richiesta di un assegno di mantenimento o di divorzio, le due fattispecie non si discostano richiedendo entrambe l’assenza di redditi sufficienti in capo al coniuge “debole”.
Ciò che, però, allontana lessicalmente le due tipologie di assegni si riscontra nel fatto che, contrariamente a quanto avviene nell’assegno di mantenimento per il quale è sufficiente l’assenza di redditi propri, nella concessione dell’assegno divorzile il giudice deve tenere in considerazione – oltre a tale dato -, anche l’impossibilità oggettiva per il coniuge “debole” di procurarseli. Va tuttavia segnalato che la giurisprudenza, per quanto concerne la quantificazione degli assegni, tende a tenere in considerazione l’astratta capacità del coniuge debole di produrre reddito sia nelle procedure di separazione che in quelle di divorzio anche se la interpreta, in entrambi i casi, in maniera estremamente restrittiva e tale, cioè, da riconoscere il diritto al mantenimento anche al coniuge debole separato o divorziato che, oggettivamente, per età, stato di salute e livello culturale sarebbe stato perfettamente in grado di procurarsi da sé una autonoma fonte di reddito.
In questo senso, infatti, la capacità di produrre reddito da parte del coniuge debole in una procedura di separazione o di divorzio dovrà concretizzarsi, ove se ne voglia invocare l’operatività quale fattore incidente sulla quantificazione dell’ammontare degli assegni, non nella mera sussistenza di un’astratta capacità lavorativa ma nella concreta possibilità di guadagno. In questo senso, non sarà sufficiente dimostrare la capacità del coniuge di lavorare ma sarà necessario provare che, in concreto, lo stesso abbia rifiutato di svolgere lavori sufficientemente dignitosi per il livello culturale e professionale del coniuge debole.
Se sotto il profilo sopra descritto non sembrano rintracciarsi differenza sostanziali fra le due figure di assegni, elemento che sembra in qualche modo allontanare le due tipologie di attribuzioni sotto il profilo dei presupposti va rintracciato nell’elemento della c.d. addebitabilità della separazione. L’art. 156 c.c., infatti, preclude al coniuge al quale la separazione sia addebitabile la possibilità di ottenere un assegno di mantenimento. Tale requisito preclusivo, espressamente stabilito nel caso di assegno di mantenimento, non viene con altrettanta chiarezza ribadito nella disciplina dell’assegno divorzile dando adito a letture giurisprudenziali che sembrano tutt’altro che opportune. L’art. 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970, infatti, afferma che il Tribunale nel pronunciare il divorzio e tenuto conto, fra le altre cose, delle “ragioni della decisione” dei coniugi, dispone l’obbligo per un coniuge di versare l’assegno.
In relazione a tale disposizione, la giurisprudenza si è orientata nel senso che le “ragioni della decisione” di far cessare gli effetti civili del matrimonio rappresentano esclusivamente uno dei criteri per quantificare l’assegno divorzile e non per verificare l’astratta riconoscibilità in capo al coniuge debole della possibilità di ottenerla. La soluzione paradossale è che, così ragionando, l’addebito della separazione ad uno dei coniugi sarebbe sufficiente a escludere che lo stesso possa beneficiare di un assegno di mantenimento ma non escluderebbe che, in sede di divorzio, possa astrattamente beneficiare di un assegno divorzile. Vero è che l’eventuale addebito della separazione può servire al fine di ridimensionare l’ammontare dell’assegno divorzile ma, ciononostante, sembra del tutto inopportuno riconoscere all’addebitabilità la capacità di elidere la “solidarietà economica” fra i coniugi in un momento (la separazione) nel quale ancora risulta presente – pur se in forma attenuata – una “solidarietà morale” fra gli stessi mentre, al contrario, quando ogni vincolo fra i due ex coniugi viene a mancare per effetto del divorzio, la violazione dei doveri coniugali viene ad essere considerata solo quale strumento di quantificazione di obblighi economici che, per lo meno astrattamente, continuano a sussistere.
3. Dato comune alle due forme di “assegni”, come detto, è che il coniuge debole non abbia adeguati redditi propri. Tutto ciò genera un ulteriore problema che si concretizza nella necessità di comprendere in relazione a cosa debba avvenire tale giudizio di “adeguatezza” del reddito del coniuge debole.
Sul punto, va in primo luogo segnalato che tali “assegni” non hanno natura alimentare e, cioè, non hanno la funzione di riconoscere al beneficiario quel minimo supporto economico necessario a soddisfare i bisogni primari dell’individuo.
Proprio per questo, il parametro da utilizzare al fine di verificare l’inadeguatezza del patrimonio del coniuge debole è stato individuato nel “tenore di vita” avuto dai coniugi in costanza di matrimonio.
Anche su tale concetto di “tenore di vita”, però, si è soffermata tanto la dottrina quanto la giurisprudenza che ne hanno evidenziato la sostanziale differenza rispetto al concetto di “stile di vita”.
Il concetto di “tenore di vita” si concretizza, infatti, in una valutazione potenziale del livello economico di vita che la coppia in cristi poteva permettersi durante il matrimonio a nulla rilevando l’eventuale “stile di vita” che materialmente gli sposi portavano avanti. Anche ove tale “stile di vita” dovesse risultare per scelta dei coniugi meno agiato, ciò che rileva è esclusivamente il “tenore di vita” che potenzialmente gli stessi avrebbero potuto tenere in costanza di matrimonio.
Il problema circa la legittimità e l’opportunità di tale orientamento si è posto in maniera ancor più aspra, in particolare, proprio con l’assegno di divorzio più che per quello di separazione poiché, in tale ultimo caso, il fatto che permanga un vincolo matrimoniale – pur se attenuato – aveva reso maggiormente giustificabile l’obbligo del coniuge “forte” di assicurare il medesimo tenore di vita all’altro. Tuttavia, un assegno divorzile calcolato sulla scorta del potenziale tenore di vita della coppia, se da un lato rappresenta un forte strumento di tutela soprattutto in quelle circostanze nelle quali il coniuge debole abbia prestato la propria attività lavorativa in casa e che effettivamente appare “danneggiato” dalla crisi familiare, dall’altro manifesta un sorta di ultrattività dei vincoli matrimoniali di natura patrimoniale che non ha molto senso alla luce dell’ormai dissolto vincolo coniugale.
Tale impostazione, peraltro, si dimostrerebbe anche in contrasto con i Principles on European Famiy Law elaborati dalla Commission on European Family Law che evidenziano l’emergere di una cultura europea che, sul punto, richiama l’esigenza di fare in modo che dopo il divorzio ogni ex-coniuge provveda a sé stesso in maniera autonoma recidendo definitivamente ogni relazione anche economica con l’altro.
Questo attrito è giunto fino a spingere la giurisprudenza di merito a sollevare questione di costituzionalità sulla “norma vivente” ricavabile dall’ormai granitico orientamento giurisprudenziale propenso, come detto, ad individuare l’ammontare dell’assegno divorzile di cui all’art. 5, comma 6 della l. n. 898 del 1970, sul potenziale tenore di vita della coppia al fine di mantenerlo invariato. La non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della disposizione – per come interpretata dal “diritto vivente” – viene ancorata ad una presunta lesione dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità ai sensi degli artt. 2, 3 e 29 cost. nella misura in cui tale orientamento consolidato non tiene conto che, data la cessazione del vincolo coniugale, un eventuale assegno divorzile dovrebbe essere più correttamente quantificato in maniera tale da permettere al coniuge debole lo svolgimento di una “vita dignitosa” e non, al contrario, il mantenimento del “tenore di vita potenziale” tenuto in costanza di un matrimonio che già non esiste più.
Tralasciando le spinose problematiche di natura procedurale attinenti la possibilità per la Corte costituzionale di sindacare il c.d. “diritto vivente”, appare però chiaro il crescente disagio dei giudici nel dover applicare criteri di quantificazione che, portati alle loro estreme conseguenze, possono determinare un uso distorto dell’assegno divorzile (ed anche di quello di separazione) che, lungi dall’essere un legittimo strumento di riequilibrio economico, diventa al contrario elemento anacronistico di cristallizzazione di posizioni economiche non sempre giustificabili.
Tuttavia, nel pronunciarsi sulla questione, la Corte costituzionale ritiene ammissibile la doglianza sul “diritto vivente” ma nello specifico la ritiene infondata nel merito poiché il criterio del “tenore di vita” non rappresenta il solo strumento per quantificare l’assegno divorzile ma rappresenta il modo per individuare l’ammontare massimo dello stesso. In tale quadro, poi, gli ulteriori criteri individuati dall’art. 5, comma 6 della l. 898 del 1970 serviranno a ridimensionare – ove ricorrano le circostanze ivi indicate – l’ammontare del beneficio economico.
Tale pronuncia, che altro non fa se non ribadire e riconsolidare i criteri ermeneutici fino ad ora utilizzati dalla giurisprudenza, appare però non del tutto condivisibile se solo si ponga mente al fatto che la mera circostanza che l’ammontare dell’assegno divorzile possa essere diminuito nel suo ammontare in funzione di determinati elementi, non vuol dire che il criterio principale per la determinazione dello stesso – che è e rimane il potenziale tenore di vita della coppia – sia di per sé legittimo e non in contrasto con i principi costituzionali evocati dal giudice rimettente. Infondo, il problema che viene sollevato è proprio questo: verificare se il parametro del “tenore di vita” attraverso il quale si individua l’ammontare dell’assegno, sia o meno un criterio ragionevole ed equo a prescindere dal fatto che poi, nei singoli casi di specie, il concreto ammontare dell’assegno possa essere ridimensionato in funzione di ulteriori elementi e circostanze che influiranno su una “base di calcolo” ricavata in violazione di principi costituzionali. Sul punto, però, la Corte non si pronuncia.
4. Sotto tale profilo, se il sistema che regolamenta gli “assegni” ha una funzione di primario rilievo al fine di garantire la parità dei coniugi e l’effettiva tutela del coniuge debole – che magari ha prestato la propria attività lavorativa dedicandosi integralmente alla famiglia e rinunciando, per tal via, a possibili aspettative di carriera -, la sua attuale interpretazione può portare ad evidenti distorsioni generando rendite parassitarie ed una eccessiva penalizzazione del coniuge “forte” (che nella normalità dei casi così forte non è).
La dimostrazione può rintracciarsi in un celebre e recente caso che ha visto coinvolta una coppia molto famoso nella quale il marito – coniuge forte – ha un patrimonio ingentissimo e si separa dalla moglie, con la quale già di fatto non viveva da anni, la quale – coniuge debole – ha un patrimonio personale di decine di milioni di euro prodotto esclusivamente da elargizioni derivanti dal marito.
Ebbene in tale caso il giudice di primo grado condannò il marito a pagare in favore della moglie la somma di trentasei milioni di euro l’anno al fine di permettere alla stessa di mantenere il tenore di vita potenziale che in costanza di matrimonio, stante i rispettivi cespiti patrimoniali, la stessa avrebbe potuto portare avanti.
Nel caso di specie, poi riformato in appello con una dimidiazione dell’assegno di mantenimento, viene disattesa la doglianza di parte convenuta secondo la quale, stante l’ingente patrimonio della moglie, la stessa non avrebbe avuto diritto al mantenimento avendo redditi sufficienti ai sensi dell’art. 156 c.c. Ma è proprio in funzione dei consolidati orientamenti giurisprudenziali che il Tribunale, pur evidenziando una posizione patrimoniale del coniuge debole tale da permettergli non solo una vita dignitosa ma agiatissima e lussuosa, riscontra una discrasia tale fra i patrimoni dei coniugi da rendere necessario un riequilibrio delle rispettive situazioni patrimoniali. E, ben inteso, che la suddetta cifra è quella ritenuta dai giudici necessaria a riequilibrare la posizione dei due coniugi. Oltre ai redditi ingenti derivanti dal proprio patrimonio, la moglie aveva dunque l’esigenza di avere a disposizione ulteriori 100.000 euro al giorno per mantenere il proprio tenore di vita.
Non stupisce, allora, lo stesso disagio dei giudici nell’emettere la sentenza in parola nella consapevolezza che l’imbarazzante importo è, semplicemente, il frutto dell’applicazione proprio di quei criteri consolidati dai quali i giudici non hanno inteso discostarsi.
Ma se il risultato è tanto lontano dalla realtà allora, forse, c’è qualcosa che non va nei criteri adottati per la quantificazione dei suddetti assegni e, se così è, forse è il caso di modificare l’interpretazione consolidata in maniera da continuare a riconoscere una giusta ed equilibrata tutela del coniuge economicamente debole che sia stato pregiudicato dalla crisi familiare senza, contestualmente, ammettere la possibilità di realizzare deviazioni così palesi da un ideale di giustizia che, al contrario, dovrebbe sempre guidare i giudici.
5. Sempre rimanendo nell’ambito della corretta individuazione del “tenore di vita” della famiglia, appare necessario evidenziare un ulteriore problematica concernente la rilevanza sotto il profilo della quantificazione degli assegni (di mantenimento e di divorzio) di eventuali incrementi patrimoniali successivi alla intervenuta crisi familiare.
Può accadere, infatti, che i redditi del coniuge “forte” come anche di quello “debole” mutino in costanza di separazione o una volta intervenuto il divorzio e tale successiva modifica delle condizioni economiche altera, di fatto, l’equilibrio che si era stabilizzato fra gli ex coniugi.
Che i provvedimenti attinenti i rapporti economici fra ex coniugi siano sicuramente modificabili in dipendenza di intervenute sopravvenienze, è un dato di fatto che non può essere posto in dubbio; il problema, però, è proprio quello di verificare in che termini eventuali modificazioni economiche dei patrimoni personali possano legittimare modifiche – tanto in melius quanto in peius – dei provvedimenti economici.
La giurisprudenza, sul punto, non sembra aver raggiunto una posizione del tutto consolidata in particolare relativamente al fatto se tali successivi incrementi incidano o meno sul “tenore di vita” della coppia o, al contrario, determinino modificazioni solo sotto il profilo della “capacità economica del coniuge” e, di conseguenza, esclusivamente in relazione alla valutazione dell’idoneità dei redditi dei coniugi a permettere agli stessi il mantenimento del medesimo “tenore di vita”.
Il dato condiviso al livello giurisprudenziale è quello, incontrovertibile, attinente il fatto che tali successivi incrementi patrimoniali – qualunque ne sia la fonte – entrano a far parte del patrimonio dell’ex coniuge e, per tal via, incidono sulla sua capacità economica attuale.
In questo senso, se l’incremento patrimoniale riguarda il coniuge “debole”, questo potrebbe determinare la sopravvenuta capacità dello stesso di essere in grado di mantenere autonomamente il “tenore di vita” goduto in costanza di matrimonio o, quantomeno, di contribuire con il proprio patrimonio alle proprie esigenze in maniera più consistente. Così sarebbe, ad esempio, nel caso in cui il coniuge beneficiario di un assegno divorzile acquisti mortis causa un patrimonio tale da permettergli autonomamente la possibilità di mantenere il “tenore di vita” goduto in costanza di matrimonio.
Stesso discorso può essere applicato, con le dovute differenze, ai sopravvenuti incrementi patrimoniali del coniuge “forte” poiché, come sopra detto, il “tenore di vita” della coppia rappresenta per la giurisprudenza il criterio attraverso cui individuare l’importo “ideale” da corrispondere al coniuge “debole” che, tuttavia, può essere ridimensionato tenendo in considerazione la situazione economica concreta dei coniugi. In questo senso, ben potrebbe accadere che un incremento patrimoniale di cui benefici il coniuge obbligato al pagamento dell’assegno modifichi la propria situazione patrimoniale in maniera tale da permettere allo stesso di garantire – cosa prima impossibile – esattamente lo stesso “tenore di vita” al coniuge beneficiario o, comunque, una condizione economica che si avvicini in maniera più prossima a quello.
Se la soluzione in funzione della quale gli incrementi patrimoniali successivi alla crisi coniugale possono avere rilevanza esclusivamente sotto il profilo della consistenza del patrimonio personale degli ex coniugi appare quello maggioritario in dottrina ed in giurisprudenza, non sono mancate pronunce di segno opposto. Secondo tale diverso orientamento, ricorrendo determinate circostanze, l’incremento patrimoniale successivo alla crisi coniugale, oltre ad incidere sulla consistenza patrimoniale della coppia, potrebbe addirittura concorrere a definire il “tenore di vita” dei coniugi. Infatti, se questo va inteso quale capacità economica potenziale della coppia, all’interno della sua valutazione dovranno necessariamente computarsi anche tutti quegli incrementi patrimoniali che derivino da aspettative legittimamente maturatesi in costanza di matrimonio.
Eliminando quindi gli incrementi patrimoniali derivanti da inaspettati quanto improbabili guadagni, le variazioni positive del patrimonio che derivino da eventi probabili o dai comuni aumenti di stipendio dovuti all’anzianità di servizio determinerebbero null’altro se non una concretizzazione di aspettative che la coppia già aveva durante il matrimonio e che, quindi, devono contribuire a definire il “tenore di vita” sulla scorta del quale calcolare l’assegno di mantenimento o di divorzio.
Va però detto che tale impostazione non sembra assolutamente aderente alla realtà dei fatti ed alla stessa funzione degli assegni di mantenimento e di divorzio il cui scopo non è quello di permettere all’ex coniuge di beneficiare degli incrementi economici dell’altro ma, più semplicemente, quello di evitare che per effetto della crisi si deteriori il tenore di vita che il coniuge debole aveva in costanza di matrimonio. Sarebbe maggiormente opportuno, cioè, che il concetto di “tenore di vita”, ove si voglia continuare ad utilizzare tale parametro, venga strettamente ancorato sotto un profilo temporale alla situazione economica che la coppia aveva al momento della convivenza. Bisogna cioè entrare nell’ottica che quei due soggetti erano una coppia fino al momento della rottura del rapporto e non ha alcun senso ipotizzare la permanenza di una influenza economica delle vicende dell’uno sul patrimonio dell’altro quando ormai tutti i doveri di solidarietà materiale e spirituale già non esistono più. Seguendo l’impostazione che qui si intende criticare, cioè, si torna a riconosce una ultrattività degli effetti economici del matrimonio determinando, di fatto, una eterna partecipazione dell’ex coniuge “debole” agli utili sopravvenuti dell’ex coniuge “forte” analogamente a quanto accadrebbe se il matrimonio non si fosse sciolto e, tutto ciò, appare una deviazione dalla realtà dei fatti che andrebbe senza dubbio evitata.
6. Ma la situazione di fatto nella quale vengono a trovarsi i coniugi sotto un profilo economico, può mutare anche per effetto di scelte di uno degli ex coniugi che risultano essere espressione di libertà fondamentali direttamente connesse al libero e pieno sviluppo della personalità dell’individuo. Si fa riferimento, ovviamente, alle circostanze nelle quali uno degli ex coniugi decida di intraprendere una nuova stabile relazione sia formalizzandola attraverso il matrimonio, sia rimanendo nell’ambito della convivenza more uxorio.
Al fine di poter analizzare tale problematica, sembra opportuno scindere le circostanze nelle quali sia l’ex coniuge debole ad intraprendere una nuova relazione dall’ipotesi nella quale tale scelta venga assunta dal coniuge obbligato al pagamento dell’assegno.
Partendo dalla prima ipotesi, se non ci sono dubbi sul fatto che se l’ex coniuge debole divorziato contrae nuove nozze perde la possibilità di continuare a pretendere il pagamento dell’assegno divorzile, più complessa appare l’ipotesi nella quale un soggetto, sia esso separato o divorziato, intraprenda dopo la crisi familiare una nuova relazione non formalizzata.
Va subito segnalato che tale problematica risente evidentemente del forte dibattito dottrinale circa la rilevanza sotto un profilo giuridico delle convivenze more uxorio il quale non sempre si è dimostrato favorevole a riconoscere alla stabile convivenza di una coppia la capacità di produrre effetti giuridici. La problematica è resa più incerta dal fatto che, contrariamente a quanto accade nella disciplina attinente l’assegnazione della casa coniugale, la legge italiana non richiama la creazione di una nuova “famiglia di fatto” fra le ipotesi di cessazione dell’obbligo di corrispondere un assegno di mantenimento o divorzile.
In tale quadro normativo e culturale la giurisprudenza, in un primo momento adagiatasi su interpretazioni formaliste, ha successivamente precisato che l’istaurazione di una convivenza stabile e seria da parte dell’ex coniuge debole con un terzo determina la creazione di nuovi rapporti affettivi ed economici che sono in grado di recidere il legame con l’ex coniuge forte. Perché ciò accada, però, è necessario che il rapporto di fatto successivamente instaurato non assuma le sembianze di una relazione che, pur assidua, si dimostri momentanea o occasionale. Come pare evidente, tale rilievo, di per sé del tutto giustificabile, determina il sorgere di un pesantissimo onere della prova in capo al coniuge forte che intende liberarsi dall’obbligo di pagare l’assegno. Questi, infatti, dovrà dimostrare la stabilità e serietà della relazione intrattenuta dall’altro coniuge e la presenza di un comune progetto di vita insieme cosa che, per ovvie ragioni, appare di non facile dimostrazione in relazione a rapporti di fatto.
Non è un caso, infatti, che la maggior parte delle sentenze che riconoscono alla convivenza more uxorio la capacità di elidere gli obblighi del coniuge forte, si fondano sulla circostanza che da quella convivenza di fatto siano nati dei figli che, secondo i giudici, rappresentano chiaro indice dell’istaurarsi di un rapporto stabile fra i genitori degli stessi. Allo stesso modo, la presenza di figli nati da una diversa relazione determinerebbe, ove si ritenesse che l’ex coniuge forte debba continuare a pagare l’assegno di mantenimento, l’inaccettabile situazione per cui i soldi di quest’ultimo verrebbero utilizzati anche per il sostentamento dei figli dell’ex coniuge beneficiario.
Altro problema riguarda, poi, la possibilità di qualificare la presenza di una relazione stabile quale elemento necessario e da solo sufficiente ad eliminare l’obbligo di prestazione da parte del coniuge obbligato o se, al contrario, risulta ulteriormente necessario che dalla sopravvenuta convivenza derivino dei vantaggi economici in capo al coniuge debole che rendano superfluo – in tutto o in parte – il permanere dell’assegno di mantenimento o di divorzio. Sul punto, mentre la giurisprudenza richiede al coniuge forte l’ulteriore onere di dimostrare anche la presenza di un miglioramento economico della situazione patrimoniale del coniuge debole direttamente dipendente alla nuova convivenza dallo stesso instaurata, la dottrina evidenzia opportunamente l’esigenza di valorizzare la nuova situazione di fatto che si viene a creare a prescindere dalla presenza di effettivi vantaggi economici per il coniuge debole. La creazione di una nuova famiglia – sia essa fondata sul matrimonio o su un mero rapporto di fatto – determina la creazione di nuovi vincoli sia affettivi che materiali che vengono assunti dalle parti in maniera consapevole e responsabile. Da ciò, quindi, l’incompatibilità della permanenza di vincoli economici con l’ex coniuge a prescindere dalla situazione economica della nuova coppia.
Allo stesso modo, poi, si presenta come particolarmente spinosa la questione relativa alla “irreversibilità” dell’assegno di mantenimento o di divorzio che sia stato revocato a causa dell’istaurazione di una convivenza more uxorio da parte del coniuge debole. Anche sul punto, la giurisprudenza maggioritaria sembra assumere un orientamento di netto favore per il coniuge debole affermando che, pur nei casi nei quali la convivenza di fatto presenti le caratteristiche che la rendano rilevante al fine di incidere sull’assegno di mantenimento o di divorzio, tali effetti sono momentanei e subordinati temporalmente alla prosecuzione dell’esistenza della famiglia di fatto. Una mera sospensione degli obblighi connessi all’assegno di mantenimento o di divorzio che, quindi, possono riemergere nel caso in cui la copia di fatto si allontani. Tale soluzione è stata criticata dalla dottrina che, pur con distinte impostazione e con diversa intensità, ha posto in luce come l’atto di matura autoresponsabilità con il quale il coniuge debole decide di instaurare un nuovo e stabile rapporto sentimentale e materiale con altro individuo si dimostra del tutto incompatibile con una riviviscenza degli obblighi di mantenimento originariamente gravanti sull’ex coniuge forte.
Su questa linea va segnalata una recente ed importante sentenza che, in accoglimento delle posizioni dottrinali sopra menzionate riconosce all’instaurazione di una nuova “famiglia di fatto” la capacità di elidere definitivamente l’obbligo di mantenimento gravante sull’ex coniuge forte. Tale orientamento, anche alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale di cui si è dato atto, sembra segnare una netta presa di posizione del tutto aderente all’ormai riconosciuta rilevanza giuridica di tali forme di convivenza e con il rilievo per cui dalla stessa si generano un complesso di diritti, doveri ed aspettative reciproche che appaiono totalmente incompatibili con la permanenza – anche quiescente – di rapporti di natura patrimoniale con l’ex coniuge.
7. Appare a questo punto opportuno, però, analizzare le problematiche connesse alla circostanza nella quale sia il coniuge onerato del pagamento dell’assegno a unirsi in una nuova famiglia che, come pare evidente, determina il sorgere di nuovi ed ulteriori obblighi economici in capo al soggetto. In questo senso, se la determinazione dell’ammontare dell’assegno dipende dalle condizioni economiche dei coniugi, appare evidente come tali sopravvenienze debbano sicuramente essere tenute in considerazione al fine di una revisione degli oneri economici.
Nonostante ciò, però, non sono mancate sentenze che, nel tentativo di cristallizzare la situazione economica del coniuge forte al momento dell’intervento della crisi familiare, hanno ritenuto del tutto indifferente la presenza di una nuova famiglia sulla quantificazione dell’assegno spettante alla prima. La ragione utilizzata dalla giurisprudenza va individuata nella circostanza per cui il fatto di creare un nuovo nucleo familiare viene qualificato come una scelta individuale dell’ex coniuge non necessaria ma meramente volontaria e, quindi, evitabile. Il fatto che il soggetto onerato abbia deciso di intraprendere un determinato percorso di vita diverso dal precedente sarebbe sufficiente a scaricare integralmente il costo economico di quelle scelte sullo stesso.
In funzione di tale posizione, cioè, fatta eccezione per i casi nei quali l’ex coniuge forte sia particolarmente facoltoso, di fatto si va a precludere al coniuge onerato la possibilità di crearsi una nuova famiglia non potendone sostenere i costi a causa del permanere inalterato degli obblighi economici scaturenti dalla crisi coniugale.
Tale posizione, proprio per le conseguenze che genererebbe, appare però criticabile alla luce del fatto che la scelta – sicuramente individuale e libera – di contrarre un nuovo matrimonio o di intrattenere una relazione stabile con altro soggetto appare strumentale a realizzare la personalità di ciascun individuo contribuendo a delineare quello che, sia nelle fonti internazionali che in quelle nazionali, è qualificabile come un diritto fondamentale della persona.
L’insostenibilità dell’orientamento da ultimo espresso, nonché la difficoltà di accettare gli esiti cui lo stesso porterebbe, ha spinto la dottrina a porsi in maniera estremamente critica sul punto nel tentativo di ribadire l’esigenza di verificare attraverso una nuova valutazione comparativa l’incidenza economica della nuova situazione di fatto sul patrimonio del soggetto onerato in modo da ridimensionare, eventualmente, l’ammontare dell’assegno da corrispondere al coniuge debole.
Proprio sulla scorta di tali considerazioni, la stessa giurisprudenza si è mostrata tutt’altro che insensibile alla problematica cogliendo l’esigenza di un concreto bilanciamento fra le necessità economiche della prima famiglia e quelle della nuova. Nei confronti di quest’ultima, infatti, lo stesso soggetto inizia ad assumere oneri che non possono essere considerati – sic et simpliciter – meno rilevanti rispetto ai primi.
Come pare evidente la soluzione del problema deve necessariamente passare attraverso una equilibrato contemperamento dei contrapposti interessi facenti capo alle due famiglie che, nel tempo, si sono sovrapposte ma nella convinzione per cui non sembra opportuno affidare ad un criterio meramente cronologico la prevalenza dell’una sull’altra. Affermare la prevalenza dell’obbligo economico derivante dall’assegno di mantenimento o divorzile a scapito degli obblighi economici derivanti dalla formazione di una nuova famiglia (dentro o fuori del matrimonio) equivale a privare completamente di tutela le esigenze – pur meritevoli – della nuova formazione sociale.
Ciò che appare necessario, quindi, è l’esigenza di effettuare una nuova valutazione comparativa della mutata situazione economica dell’ex coniuge onerato che porti il giudice a bilanciare i contrapposti interessi in gioco e che lo chiami, nel caso, a ridurre gli obblighi economici derivanti dalla crisi coniugale in funzione dell’esigenza di garantire alla nuova famiglia un sostegno economico dignitoso. Non avrebbe alcun senso tutelare economicamente in maniera maggiormente forte una famiglia ormai dissolta rispetto ad una nuova famiglia ancora unita che si vedrebbe privata di risorse necessarie al solo fine di mantenere intatti gli obblighi economici in relazione alla prima. Se permane l’esigenza di tutela dell’ex coniuge debole, non si può negare l’altrettanto necessaria tutela del coniuge attuale che non sembra opportuno relegare in una posizione subordinata solo per preservare uno status quo che, come si è avuto modo di evidenziare, non risulta più attuale.
Di qui, l’esigenza di una profonda rilettura dell’impostazione tradizionale che riporti in uno stato di equilibrio la situazione economica della prima famiglia con quella della seconda in modo da non privare nessuna delle due del necessario sostegno materiale senza, di contro, preservare situazioni di squilibrio che, in ultima istanza, violerebbero sia il diritto del coniuge forte a creare una nuova famiglia che quello della nuova famiglia a beneficiare delle risorse derivanti dal coniuge più facoltoso.
8. Da ultimo, un cenno va necessariamente dedicato a verificare se la volontà degli ex coniugi possa in qualche modo incidere sull’an e sul quantum degli assegni. Il problema richiamato è quello, particolarmente dibattuto in Italia, della validità o meno di c.dd. “accordi prematrimoniali” con i quali i coniugi, in vista di una futura crisi coniugale, vadano a disciplinare le relative attribuzioni patrimoniali.
Va subito segnalato che il panorama giurisprudenziale che caratterizza l’argomento è fortemente orientato verso l’esclusione della validità di tali accordi che sarebbero caratterizzati da illiceità della causa comportando, di fatto, una mercificazione degli status personali. Attraverso tali accordi, cioè, si realizzerebbe un condizionamento del comportamento processuale del coniuge più debole in fase di separazione o di divorzio. In dottrina, peraltro, è stato anche evidenziato come l’ammissibilità di tali accordi potrebbe porre dei problemi di prevaricazione del coniuge forte sul coniuge debole il quale, data la sua condizione, potrebbe subire l’imposizione di effetti negoziali sui quali, di fatto, non è in grado di incidere.
Congiuntamente a tale orientamento, sempre nel senso di una radicale nullità degli accordi prematrimoniali, si è sviluppata la posizione di quanti affermano l’invalidità di tali negozi sulla scorta della presunta indisponibilità dei diritti oggetto degli stessi. Tale orientamento radica la propria validità sul dettato dell’art. 160 c.c. il quale, nell’affermare che “gli sposi non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio”, viene interpretato quale disposizione che esclude la validità di qualunque negoziazione relativa ai suddetti interessi.
Un orientamento granitico che, però, non manca di presentare delle ipotesi di discontinuità che, pur se limitatamente ad ambiti particolari, aprono delle brecce all’interno dello tesso. Così, ad esempio, viene riconosciuta piena efficacia agli accordi stipulati fra i coniugi che si trovino in uno stato di separazione di fatto o, ancora, si è riconosciuta piena validità all’interno del nostro ordinamento agli accordi prematrimoniali che due coniugi stranieri avevano pattuito nel loro Paese d’origine nel quale gli stessi erano pacificamente ammessi.
A tali datate aperture, vanno sicuramente a sommarsi le riflessioni della dottrina che pare, al contrario, maggiormente propensa a riconoscere validità ai suddetti accordi e, di conseguenza, a rimettere la regolamentazione degli interessi patrimoniali dei coniugi alla volontà degli stessi.
Nel tentativo di erodere le basi giuridiche su cui la giurisprudenza ha fondato il proprio orientamento maggioritario, in primo luogo, viene evidenziato come attraverso gli accordi prematrimoniali non si pervenga assolutamente ad una commercializzazione-mercificazione dello status dal momento che lo scioglimento del vincolo matrimoniale – da cui dipende la modifica dello status – è rimessa alla libera scelta anche di uno solo dei coniugi che, indipendentemente dalla volontà dell’altro, può determinare l’instaurarsi di una separazione e, conseguentemente, del divorzio. Gli accordi prematrimoniali, lungi dall’incidere sul profilo dello status, vanno quindi a regolamentare esclusivamente i rapporti economici che si verranno ad istaurare fra i coniugi per effetto dei una loro scelta congiunta o non.
Sotto il profilo della inderogabilità dei diritti e di doveri derivanti dal matrimonio sancita dall’art. 160 c.c., è stato invece evidenziato come, a prescindere dalla presenza di evidenti deroghe a tale principio generale espressamente previste all’intero del nostro ordinamento, la collocazione sistematica della norma dovrebbe portare a considerare la stessa quale disposizione applicabile esclusivamente alla fase fisiologica del rapporto coniugale e non anche a quella patologica. Non rientrerebbero nell’ambito di applicazione della disposizione poco sopra menzionata, cioè, gli atti dispositivi dei reciproci diritti patrimoniali successivi alla crisi coniugale i quali ben potrebbero essere regolamentati attraverso atti di autonomia negoziale.
A fronte di tali osservazioni, del tutto isolata appare la posizione giurisprudenziale volta a riconoscere piena efficacia agli accordi prematrimoniali attinenti la corresponsione o la quantificazione degli “assegni” dovuti dal coniuge forte in favore del coniuge debole. Così, però, è stato deciso in un caso nel quale il Tribunale di Torino ha sancito la validità di un accordo stipulato poco prima dell’inizio del procedimento di separazione coniugale in funzione del quale si stabiliva che la corresponsione dell’assegno di mantenimento in favore della moglie sarebbe cessato definitivamente al momento della proposizione della domanda di divorzio.
Va però ribadito che anche a fronte di tali aperture giurisprudenziali, la Corte di cassazione continua ad affermare in linea di principio – aderendo al suo costante orientamento – l’invalidità di accordi di tale genere pur riconoscendo un certo margine di influenza all’autonomia privata all’interno della famiglia in crisi. Ciò che continua ad essere fortemente osteggiato da parte dei Giudici di legittimità, cioè, è che attraverso un accordo delle parti si vada ad incidere sull’attribuzione degli assegni rimanendo però nella piena disponibilità dei coniugi il fatto di regolamentare i rispettivi rapporti economici nati durante il matrimonio in funzione della futura ed eventuale crisi coniugale.
Così, ad esempio, è stato considerato pienamente valido l’accordo stipulato prima del matrimonio con il quale la futura moglie si impegnava a trasferire al marito, in caso di crisi coniugale, un immobile di sua proprietà quale prestazione indennitaria a fronte del fatto che il futuro marito si era sobbarcato le spese relative alla ristrutturazione di un altro immobile – pure di proprietà della moglie – nel quale avevano intenzione di stabilire la loro residenza coniugale. Da parte sua, il futuro marito avrebbe trasferito alla futura moglie un portafoglio di titoli del valore di circa 10.000 euro per compensare le reciproche prestazioni.
Allo stesso modo, è stato considerato valido ed efficace il patto stipulato fra i coniugi che subordinava la restituzione del prestito erogato dalla moglie a titolo di mutuo in favore del marito alla sopravvenienza di una crisi coniugale fra gli stessi.
Appare però evidente come nei casi sopra riportati non entri in gioco propriamente l’attribuzione o la quantificazione degli “assegni”, ma la crisi coniugale rilevi esclusivamente quale condizione sospensiva di obblighi che nulla hanno a che vedere con quelli derivanti per legge dalla crisi coniugale che, invece, non possono – secondo la Cassazione – essere oggetto di disposizione da parte dei coniugi.
L’argomento è particolarmente complesso e richiederebbe considerazioni che, in questa sede, non si ritiene opportuno sviluppare. Tuttavia sembra chiaro che un atteggiamento di chiusura così rigido da parte della giurisprudenza non possa trovare accoglimento in quanto eccessivamente limitativo del diritto di soggetti ormai adulti di regolare i reciproci rapporti economici derivanti dalla crisi familiare. Se esistono esigenze di tutela del coniuge debole, è altrettanto vero che la debolezza del coniuge che qui si prende in considerazione è di carattere meramente economico e non cognitivo o di “forza negoziale” e, pertanto, non si vede come tali accordi possano prevaricare un soggetto rispetto all’altro. In aggiunta, è altrettanto evidente come a tali accordi potranno applicarsi i normali strumenti di tutela contro eventuali vizi del consenso e che, chiaramente, spetterà al giudice verificarne la meritevolezza alla luce dei principi dell’ordinamento ed in relazione alla singola e specifica situazione concreta nella quale si venga a trovare la coppia in crisi.
Ed aperture in questo senso possono oggi essere rinvenute nel d.l. 12 settembre 2014, n. 132 -convertito con l. 11 novembre 2014, n. 164 – che all’art. 6 introduce la c.d. negoziazione assistita da uno o più avvocati per la soluzione consensuale di procedimenti di separazione e divorzio attraverso la quale, con l’accordo fra le parti, si possono determinare gli effetti della separazione o del divorzio regolamentandone, sempre consensualmente, i relativi effetti economici. Attraverso la medesima procedura possono, peraltro, essere modificate le condizioni di separazione e di divorzio già assunte. Se è vero che tale strumento si applica a situazioni di crisi coniugale già in atto – e non riguarda patti stipulati in vista di una futura ed eventuale crisi – è altrettanto vero che attraverso la stessa si determina, pur con delle precauzioni, una negoziazione degli effetti economici derivanti dalla crisi familiare che, di fatto, svuota di contenuto giuridico le remore ad ammettere la validità di accordi prematrimoniali in vista di una crisi coniugale.
Riconoscere validità a tali patti, quindi, oltre a non comportare eccessivi pericoli strutturali ed a mostrarsi in linea con la più recente evoluzione normativa, servirebbe anche ad alleggerire quella rigidità che, in tema di assegni di mantenimento e di assegni divorzili, continua a caratterizzare la giurisprudenza nazionale permettendo una più equilibrata ripartizione fra i coniugi degli oneri economici derivanti dalla crisi familiare.