Figurative art: recent developments in the Italian and U.S. Case Law.

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Autor: Raffaele Aveta, Già Ricercatore nell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”. Vincitore del concorso nazionale di Professore Associato di Diritto Comparato. Correo electrónico: raffaele.aveta@unicampania.it

Resumen: Le tradizionali categorie del diritto d’autore si scontrano, sempre più spesso, con inedite problematiche giuridiche poste dalla riproduzione ed utilizzazione del manufatto artistico. Il tema, con lo sviluppo delle nuove tecnologie e l’emersione di inedite forme d’arte, ha generato un significativo contenzioso in ordine alle prerogative proprietarie e alle limitazioni ed eccezioni previste dal quadro normativo. La problematica coinvolge in un unicum problematico paesi di diversa tradizione giuridica a prescindere dall’intensità degli scambi commerciali inerenti i singoli mercati e dalla distinzione tra source nations e market nations. L’analisi, limitata al campo dell’arte figurativa e agli ordinamenti italiano e statunitense, fa emergere le difficoltà del potere giudicante di rapportarsi con fenomeni artistici in continua evoluzione e la necessità di coinvolgere nei processi decisionali gli stessi protagonisti che animano il panorama artistico.

Palabras clave: visual art; copyright; fair use; appropriation art; stile; scarto semantico; gradiente inventivo; libertà di creazione artistica; fotografia.

Abstract: Traditional categories of author’s rights more frequently clash with unprecedented legal issues setup by the reproduction and use of artworks. Following the development of new technologies and the appearance of previously unseen works of art, the issue caused a significant dispute with regard to the ownership prerogatives, limitations and exceptions provided by the legislative framework. This matter involves countries of different judicial traditions in a unique issue regardless of the thriving trade related to single markets and of the distinction between source nations and market nations. The analysis, limited to the field of figurative art and to the Italian and American systems, determines the emerging of the difficulties the role of judge has in relating to the artistic phenomena which are in a continuous evolution and the necessity of involving the same protagonists who enliven the artistic scene into the decision making process.

Key words: visual art; copyright; fair use; appropriation art; style; semantic difference; gradient inventive; freedom of artistic creation; photography.

Sumario:
I. Le prerogative proprietarie.
II. Il divieto di riproduzione.
III. Il Caso Banksy.
IV. L’appropriation art.
V. Il ricorso al “fair use” nell’ordinamento statunitense.
VI. Lo “scarto semantico”.
VII. I codici di autoregolamentazione.

Referencia: Actualidad Jurídica Iberoamericana Nº 14, febrero 2021, ISSN: 2386-4567, pp. 898-923.

Revista indexada en SCOPUS, REDIB, ANVUR, LATINDEX, CIRC, MIAR.

I. LE PREROGATIVE PROPRIETARIE.

Le norme sul copyright trovano normale applicazione nel campo delle arti figurative sul presupposto che gli “authors will not invest their time and money in creating original works unless they are granted certain property rights”. All’artista viene tradizionalmente riconosciuto il diritto di sfruttare in modo esclusivo la propria creazione, traendo il massimo vantaggio economico dalla sua diffusione al pubblico. I diritti di privativa, “separate a part from the rights that property law recognizes in the tangible object the artist might create”, riguardano esclusivamente opere nelle quali sia rinvenibile l’intervento creativo dell’autore.

Nel campo delle arti figurative diviene centrale l’apporto materiale dell’artista che imprime, attraverso un’attività di segno tangibile, l’impronta della sua personalità su una forma espressiva dotata di corporeità.

Il contributo dell’artista è a tal punto decisivo che possono essere considerati come originali anche le copie realizzate con mezzi meccanici in presenza di determinati requisiti espressamente indicati dalla legge.

Nell’ordinamento italiano, ad esempio, l’attribuzione del requisito dell’originalità spetta, ai fini del riconoscimento del diritto di seguito, anche alle “copie delle opere delle arti figurative prodotte in numero limitato dall’autore stesso o sotto la sua autorità, (…) purché siano numerate, firmate o altrimenti debitamente autorizzate dall’autore” stesso.

Negli Stati Uniti, invece, lo U.S. Code § 101 include nella definizione di “visual art” non solo l’opera singola ma anche le copie da essa derivate a condizione che non vengano prodotte in numero superiore a 200 esemplari, e siano firmate e “consecutively numbered”.

Il diritto alla riproduzione spetta esclusivamente all’artista e non si trasferisce normalmente con la vendita di un’opera in quanto la traditio materiale è slegata dalla cessione dei diritti di utilizzazione economica che, salvo diversa pattuizione, restano in capo all’autore, che conserva anche i diritti morali sulle opere cedute.

Questa scissione tra l’oggetto realizzato, il c.d. corpus mechanicum, e l’idea che in essa è contenuta, il c.d. corpus mysticum, è alla base di molte delle numerose controversie riguardanti l’utilizzazione dell’opera d’arte, anche di quelle afferenti al mondo digitale.

La protezione della “owner of the expression” si sostanzia infatti in una molteplicità di diritti di carattere patrimoniale e morale, i quali negli ultimi anni sono stati sottoposti, per effetto dell’intervento del potere giurisdizionale, ad un processo di ridefinizione e modellati parallelamente alla nascita di nuove forme d’arte e all’evoluzione degli strumenti tecnologici.

II. IL DIVIETO DI RIPRODUZIONE.

I diritti patrimoniali d’autore vedono nel divieto di riproduzione la principale prerogativa in capo agli artisti/autori, intendendosi per riproduzione “la moltiplicazione in copie diretta o indiretta, temporanea o permanente, in tutto o in parte dell’opera, in qualunque modo o forma” e con qualsiasi procedimento. Con questa ampia dizione il legislatore italiano vieta non soltanto la realizzazione “di copie fisicamente identiche all’originale”, ma protegge anche “l’utilizzazione economica che può effettuare l’autore mediante qualunque altro tipo di moltiplicazione dell’opera in grado di inserirsi nel mercato della riproduzione”. Anche negli Stati Uniti la cessione di un’opera non comporta l’automatico trasferimento degli “exclusive rights” espressamente definiti dall’U.S. Code § 106, come il diritto di “reproduce the copyrighted work in copies”.

Le prerogative proprietarie di carattere patrimoniale legate alla riproduzione conoscono in tutti gli ordinamenti limitazioni ed eccezioni, che spesso costituiscono fonte di contenzioso giudiziale.

In Italia, nel campo delle arti figurative, al di là dei casi previsti dall’art. 70 della L.d.A. relativamente alle libere utilizzazioni, viene in rilevo l’art. 109 della medesima Legge che contempla l’ipotesi della cessione di qualsiasi mezzo idoneo alla riproduzione, sottolineando come essa includa, salvo diversa pattuizione, “la facoltà di riprodurre l’opera stessa sempreché tale facoltà spetti al cedente”.

Sull’operatività e la portata di questa norma è recentemente intervenuta la Cassazione, valutando la rilevanza di un disegno creativo nel processo produttivo di un’opera vetraria ai fini della sua duplicabilità. Nel caso specifico la Corte ha ritenuto assimilabile la rappresentazione pittorica allo stampo, sul presupposto che l’opera artistica originaria fosse “priva di “autonomia” e non assumesse rilievo “come oggetto ex se di immediata fruizione, ma come strumento di riproduzione”, per duplicare “il progetto realizzato dal designer, da passare successivamente all’ufficio tecnico della vetreria per la riproduzione degli ulteriori pezzi”. I giudici di Cassazione hanno di fatto confermato l’ipotesi formulata dalla Corte di merito per la quale in occasione della cessione onerosa dei disegni l’artista avesse trasferito alla ditta produttrice non solo la proprietà della rappresentazione grafica, ma anche il diritto di riproduzione del prototipo, realizzato sulla base del disegno iniziale.

Il ragionamento appare perfettamente congruente con la ratio della norma e con il legame inscindibile che, in una officina del vetro, esiste tra il disegno, il prototipo e il processo produttivo finale dell’opera.

III. IL CASO BANKSY.

L’approccio casistico, innanzi descritto, è divenuto rilevante anche in un’altra fattispecie molto recente riguardante l’applicazione dell’art. 109 della L.d.A. nell’ambito di una vicenda che, per la notorietà del personaggio coinvolto, ha avuto ampia risonanza internazionale.

Il Tribunale di Milano è stato, infatti, chiamato ad emettere un provvedimento cautelare nell’ambito di un procedimento avviato da una società di diritto inglese, la Pest Control Office Limited, in relazione alla paventata ipotesi di un uso illecito dei segni denominativi e figurativi registrati a tutela dell’opera dell’artista noto con lo pseudonimo di Banksy. Il caso ha tratto spunto dall’organizzazione di una mostra, non autorizzata dall’autore, che tuttavia esponeva delle opere da lui prodotte e commercializzate come normali espressioni dell’arte figurativa.

Il Giudice si è espresso su una pluralità di questioni che attengono al diritto d’autore non solo su quelle afferenti alla riproduzione del marchio ma, cosa più rilevante ai nostri fini, sulla titolarità dei diritti collegati o collegabili alle opere vendute da Banksy ed esposte nella mostra.

Il Tribunale, in via preliminare, circoscrive il campo di analisi, specificando l’estraneità della vicenda al dibattito sulla street art e la sua piena riconducibilità al regime normativo delle opere dell’arte figurativa, secondo la volontà dell’artista che, commercializzando multipli delle sue opere, sembra escludere ogni volontà di rinnegare le regole e i principi della proprietà intellettuale.

In quest’ambito viene in rilievo l’art. 109 L.d.A. e la necessità di provare la cessione del diritto di riproduzione delle immagini fotografiche delle opere rappresentate nel catalogo della mostra.

Un consolidato orientamento giurisprudenziale ha, infatti, evidenziato che la pubblicazione di un volume illustrativo “rappresenta una forma di utilizzazione economica dell’opera d’arte che rientra, salvo patto contrario, nel diritto esclusivo di riproduzione riservato all’autore”.

Nel caso di specie non vi sono evidenze documentali per ritenere che l’artista abbia ceduto tale diritto alla Pest Control o ai proprietari dei multipli esposti.

La realizzazione del catalogo non può neppure rientrare nelle libere utilizzazioni previste dall’art. 70 L.d.A., date le particolari caratteristiche dell’opera pubblicata, la quale riproduce in modo integrale le singole produzioni artistiche ed appare priva di una esclusiva o prevalente finalità critico-culturale.

Sulla base di questi presupposti il Tribunale potrebbe emettere un provvedimento di inibitoria cautelare e di sequestro, ma l’assenza di prove certe circa la reale portata dei diritti di sfruttamento economico vantati dalla Pest Control rendono impossibile una pronuncia accertativa dell’illecito concorrenziale ex art. 2598, n. 3, c.c. in quanto l’integrazione di questa fattispecie richiede una potenzialità di danno a carico del soggetto che lamenta la commissione dell’illecito. Una eventualità che, secondo il Tribunale, non può evidenziarsi nelle specifiche circostanze del giudizio per l’assenza in capo alla società inglese di un diritto concorrente di riproduzione delle immagini che possa ritenersi effettivamente pregiudicato dal catalogo della mostra milanese.

L’ordinanza mette in evidenza la debolezza delle strategie legali messe in campo da Banksy attraverso la Pest Control, nel tentativo di utilizzare il diritto dei marchi per difendere le proprie prerogative autoriali e, nel contempo, tutelare il proprio anonimato.

Una strada decisamente in salita come testimonia non solo la vicenda esaminata dal Tribunale di Milano, ma anche l’azione di nullità proposta all’EUIPO dalla società Full Color Black (“FCB”) in merito alla registrazione come marchio figurativo del famoso murale noto come “Flower Thrower”. La decisione dell’Ufficio Europeo dà ulteriormente atto delle numerose questioni che emergono nel settore della riproducibilità dell’opera d’arte, anche in campi ad essa tradizionalmente estranei come quello dei marchi.

IV. L’APPROPRIATION ART.

Le problematiche connesse all’utilizzazione e alla riproduzione dell’opera d’arte figurativa hanno trovato anche negli Stati Uniti un ampio terreno di dibattito, soprattutto in relazione alle complessità interpretative sollevate dalla teoria “dell’arte trasformativa” e del c.d. “fair use test”.

Nell’ordinamento statunitense, l’assolutezza dei diritti autoriali ha già in sé due rilevanti eccezioni, le quali trovano espressione normativa nella section 109 dello U.S. Code, la “first sale doctrine” e la”exception to display a work publicly”.

La prima vendita attribuisce all’acquirente dell’opera il diritto “to resell it or give it away or otherwise distribuite it, as long as they do not copy it and try to sell the copies”, mentre il “right of public display” consente una limitata visualizzazione, circoscritta sia in termini soggettivi che oggettivi.

Queste limitazioni sono strettamente collegate alla teoria del “fair use”, formalizzata nel disposto della section 107 dello U.S. Code. Detta norma è divenuta il principale parametro di valutazione del rapporto tra il copyright e l’arte contemporanea, assumendo un ruolo chiave nelle evoluzioni giurisprudenziali in materia. Il “fair use”, infatti, resta al centro delle dispute sulla legittimità dell’operato degli artisti che, desacralizzando l’opera d’arte, il suo valore percettivo ed estetico, si appropriano di elementi creativi preesistenti per attribuirgli un nuovo significato, per riproporli al pubblico in un contesto diverso e con linguaggi different. Si tratta di operazioni intellettuali volte generalmente a potenziare nell’espressione artistica la riflessione filosofica e critica, attraverso l’utilizzazione o meglio l’appropriazione (da qui il nome di “appropriation art”) “di immagini preesistenti tratte dall’arte e dalla cultura di massa”, allo scopo di fondare una “nuova poetica”, spesso di critica ai valori e ai simboli imposti dalla società moderna.

Il fenomeno si è notevolmente ampliato negli ultimi anni ed è stato facilitato dalla diffusione delle tecniche di “computer graphics” che hanno reso fruibili ad un vasto pubblico svariati strumenti di manipolazione e riproduzione digitale, imponendo ai giuristi statunitensi la continua ricerca di un punto di equilibrio tra il titolare dei diritti sull’opera originaria e “the progress of science and useful arts”. Lo scontro dialettico tra questi interessi e il loro necessario bilanciamento ha condotto i giudici a sviluppare le potenzialità insite nella section 107dello U.S. Code, che indica i casi nei quali l’utilizzazione di un’opera altrui può essere considerata lecita, non integrando gli estremi dell’”infringement of copyright”. L’elenco riportato nello U.S. Code ha un carattere esemplificativo che viene letto in correlazione con quanto dispone la parte successiva della norma, ove sono enunciati i criteri necessari all’individuazione del “fair use”.

I parametri indicati dalla section 107 sono quattro: lo scopo e il carattere dell’uso, la “nature of the copyrighted work”, la quantità e la consistenza della parte utilizzata, “l’effect of the use upon the potential market for or value of the copyrighted work”.

La lettura complessiva della norma mette in luce il carattere flessibile della section 107 che lascia ai giudici ampi margini di discrezionalità nel definirne i limiti applicativi. Una caratteristica che, mentre ha assicurato l’adattabilità del “fair use test” alle evoluzioni dell’arte contemporanea, ha anche permeato il sistema di un certo grado di instabilità, rendendo non sempre facile la prevedibilità dei giudicati.

V. IL RICORSO AL “FAIR USE” NELL’ORDINAMENTO STATUNITENSE.

I principali interventi giurisprudenziali in materia sono, infatti, diretti da un’analisi “case by case” e dalla valutazione dei diversi fattori indicati nella section 107 alla luce degli scopi perseguiti dalla normativa sul copyright.

Quest’approccio si riviene anche nel recentissimo caso Andy Warhol Found. for Visual Arts, Inc. v. Goldsmith che, per le sue peculiarità, merita un approfondimento, testimoniando quanto possa estendersi la “soggettivizzazione” della regola del “fair use”.

L’analisi condotta nella sentenza si articola in una puntuale disamina dei quattro fattori indicati nella section 107 e porta il giudice Koeltl a chiarire che la “Serie Prince” non ha violato i diritti di Lynn Goldsmith, autrice dello scatto fotografico utilizzato da Warhol per le sue creazioni, poiché l’appropriazione ha un carattere trasformativo qualificabile come “fair use”.

Il primo requisito, sullo scopo e il carattere dell’uso, è quello che maggiormente si lega alla natura trasformativa dell’opera, come ha precisato anche la Corte Suprema Federale nel leadig case Campbell v. Acuff-Rose Music. Sul punto l’indagine, volta a comprendere se il “new work merely supersede[s] the objects of the original creation or instead adds something new, with a further purpose or different character, altering the first with new expression, meaning, or message”, diviene centrale per misurare “the significance of other factors, like commercialism that may weigh against a finding of fair use”.

Nel caso di Lynn Goldsmith la comparazione “side-by-side” mette in luce il carattere trasformativo del lavoro secondario, che ottiene risultati creativi e comunicativi distinti dall’originale, attraverso l’esaltazione di alcuni dettagli della figura di Prince come: la focalizzazione sul viso, la particolare caratterizzazione dei tratti della struttura ossea, la realizzazione di una figura piatta e bidimensionale, l’utilizzo di “loud, unnatural colors”, il tutto in linea con lo stile “Warhol”. Attraverso queste modalità operative ciascuna delle opere appartenenti alla serie “Prince” può- a detta del giudice- essere ragionevolmente percepita come trasformativa della fotografia originaria, sia sul piano del significato che del risultato estetico.

L’incrocio tra questi due piani evidenzia come il lavoro di Warhol ha trasformato Prince da “unvulnerable, uncomfortable person to an iconic, larger-than-life figure”, rendendo evanescente l’umanità che promana dalla fotografia realizzata da Goldsmith.

L’intero ragionamento sembra legare in modo indissolubile il carattere trasformativo dell’opera derivata alla capacità dell’artista di imprimere il proprio stile, rendendo il suo lavoro immediatamente riconoscibile. Si tratta di un’importante novità nel percorso argomentativo che, negli ultimi anni, ha accompagnato l’identificazione del “fair use” nell’arte trasformativa e ha dato rilievo principalmente alla comparazione con il contenuto espressivo e il messaggio dell’opera originale. Nella sentenza sembrerebbe, invece, emergere un ulteriore metro di misurazione della legittimità dell’appropriazione, basato sull’idea che l’effetto trasformativo possa anche essere poco rilevante se accompagnato da uno stile riconoscibile.

Il riferimento alle peculiarità stilistiche si evince non soltanto dalla descrizione delle trasformazioni operate rispetto all’opera originale, ma anche nell’accenno alla immediata riconoscibilità “as a “Warhol” rather than as a photograph of Prince – in the same way that Warhol’s famous representations of Marilyn Monroe and Mao are recognizable as “Warhols”, not as realistic photographs of those persons”.

Il collegamento tra lo stile e la riconoscibilità salda in un unicum le modalità espressive dell’autore e la sua notorietà, la quale rende il suo stile facilmente individuabile rispetto all’opera originale.

In questo contesto le caratteristiche stilistiche perdono il ruolo di strumento di analisi, tradizionalmente utilizzato nel mondo dell’arte per operare classificazioni, ed assumono una natura atecnica rilevabile al “reasonable observer” secondo il parametro già emerso nel caso Cariou v. Prince. Evidentemente l’individuazione di uno “stile forte” rappresenta, per il magistrato, un antidoto alle preoccupazioni espresse nella dissenting opinion del giudice Wallace sui rischi di trasformare i Tribunali in arbitri dell’arte, evitando un’eccessiva discrezionalità di giudizio.

Quanto queste modalità interpretative potranno pesare in futuri contenziosi non è al momento prevedibile, ma sicuramente nel caso specifico hanno condizionato il giudizio sui fattori costitutivi del “fair use”.

L’effetto trasformativo e l’individuazione di un preciso stile hanno, in particolare, depotenziato il valore del secondo parametro indicato dalla section 107 dello U.S. Code, in quanto il giudizio sulla natura dell’opera protetta da copyright resta- secondo la Corte- sostanzialmente neutrale tra le parti, mentre gli altri parametri giocano a favore della Andy Warhol Foundation.

Con riferimento al terzo e al quarto fattore il giudice evidenzia, infatti, come i lavori della serie Prince operino in modo significativo sulla fotografia originaria, rimuovendo i “protectible elements” presenti nell’opera di Goldsmith.

Le capacità trasformative di Warhol diminuiscono anche le probabilità che l’uso secondario sostituisca l’opera originale nei suoi potenziali mercati o ne diminuisca il valore.

L’applicazione di una regola probabilistica per misurare l’eventuale consunzione delle quote di mercato dell’opera originaria appare, analogamente al ragionamento fatto con lo stile, come un’utile strategia diretta ad evitare l’eccessiva restrizione dell’attività creativa e a consentire l’utilizzo di materiali già esistenti per nuove opere.

VI. LO “SCARTO SEMANTICO”.

Il riutilizzo di opere altrui, all’interno dei meccanismi artistici di stampo appropriativo, ha posto anche in Italia delicate problematiche. Gli scarni riferimenti normativi utilizzabili nei casi di plagio hanno aumentato il grado di conflittualità e affidato un ruolo preponderante ai giudici nell’individuazione dei casi nei quali è rinvenibile un’attività parassitaria.

Da questo punto di vista, a differenza dell’ordinamento statunitense, lo stile e la notorietà degli artisti non sembrano orientare le Corti, né giocano un ruolo centrale nell’estensione dei meccanismi di protezione. Infatti, l’impronta stilistica, che nella sentenza Andy Warhol Found. for Visual Arts, Inc. v. Goldsmith appare come un elemento in grado di sopravanzare la stessa analisi sull’opera realizzata e sul suo significato, non emerge in modo evidente nell’ordinamento italiano.

Per le Corti nostrane lo stile e la notorietà non rilevano né come fattori che ostacolano la libertà di creazione artistica, né come un sistema che può ampliare la rete di protezione.

Il rapporto tra l’opera plagiata e l’opera plagiaria si impernia, invece, sul concetto di scarto semantico, idoneo a conferire all’opera derivata un proprio e diverso significato artistico.

Tale criterio, applicato anche alle opere di arte informale nella sentenza n. 2039 del 2018, appare assai poco convincente nella misura in cui non attribuisce allo stile alcuna “autentica” valenza.

Su questo versante il confronto tra le opere degli astrattisti Vedova e De Lutti è limitato alla sola materialità delle produzioni. La valutazione comparativa che ha constatato la mancanza di “moduli stilistici privi di significato artistico diverso” è del tutto marginale e viene totalmente assorbita dall’accertamento sull’identità dei piani, delle masse cromatiche e delle proporzioni.

L’assenza di un “gradiente inventivo” esclude- secondo i magistrati- la possibilità di offrire protezione legale all’opera secondaria e marginalizza ogni valutazione sull’eventuale esistenza di uno “stile De Lutti” o della sua appartenenza ad una specifica corrente artistica.

La “poetica dello stile” sembra, invece, emergere indirettamente in una recente sentenza del Tribunale di Roma che, pur affrontando il terreno scivoloso del livello di protezione che può essere accordato ad una immagine fotografica, individua nella “cifra stilistica” un elemento distintivo per la tutela di un manufatto come opera dell’ingegno. Nel caso specifico l’immagine fotografica che ritrae insieme i magistrati Falcone e Borsellino non avrebbe raggiunto quel livello di “creatività qualificata” per essere protetta fino a 70 anni dopo la morte dell’autore ai sensi dell’art. 25 L.d.A.. Secondo i giudici capitolini la fotografia oggetto di causa non si caratterizza “per una particolare creatività” in quanto non sembrerebbe realizzata attraverso una peculiare “scelta di posa, di luci, di inquadramento, di sfondo”. Mancherebbe -secondo il Tribunale- l’intento di conseguire “un obiettivo pittorico e creativo di valore artistico ed innovativo”, basato su un progetto “unico, irripetibile nel quale l’autore sintetizza la sua visione del soggetto”.

Il giudizio espresso sulla qualità dell’opera fotografica, incluso il rilievo estetico, non appare esattamente congruente con la giurisprudenza in materia e non fornisce giustificazioni ragionevoli sull’assenza di una “cifra stilistica” riconoscibile, che pure viene richiamata come elemento identificativo del progetto artistico.

VII. I CODICI DI AUTOREGOLAMENTAZIONE.

I criteri troppo soggettivi che emergono nella sentenza n. 14758, così come in altre decisioni precedentemente trattate, lasciano trasparire le difficoltà dei magistrati di rapportarsi con il fenomeno artistico, per sua natura estremamente difficile da ingabbiare in classificazione e valutazioni preordinate. In quest’ottica l’esame casistico, ampiamente praticato sia in Italia che negli Stati Uniti, appare estremamente utile, ma non sempre garantisce esiti prevedibili in materia di tutela autoriale e neppure di legittimità dei comportamenti nei casi di “appropriazionismo”.

L’equo bilanciamento tra i contrapposti interessi che si agitano nei casi di utilizzazione e riproduzione dell’opera d’arte, bilanciamento al quale fa riferimento anche la Corte di Giustizia nella sentenza n. 201 del 3 settembre 2014, potrebbe essere meglio ricostruito all’interno di una cornice di regole di autodisciplina dettate dagli stessi protagonisti che animano il panorama artistico. Sul punto un esempio interessante è rappresentato dal “Code of Best Practices in Fair Use for the Visual Arts”, elaborato dalla College Art Association of America con l’obiettivo di fornire una guida all’applicazione della dottrina del “fair use”, descrivendo “common situations in which there is consensus within the visual arts community about practices to which this copyright doctrine should apply and provides a practical and reliable way of applying it”. Questo testo, benché non sia riuscito a prevenire in assoluto i conflitti, rappresenta un modello virtuoso, un metodo di lavoro esemplificativo che si presta ad essere esportato ed imitato. I codici di autoregolamentazione consentono, infatti, agli artisti e agli altri stakeholders impegnati nel campo dell’arte di realizzare il proprio potenziale produttivo e di partecipare indirettamente al processo di regolamentazione dei conflitti, offrendo ai giudici persuasive indicazioni sulla legittimità delle riproduzioni ed utilizzazioni alla luce delle più recenti tendenze creative.

Acceder al título íntegro del artículo, con notas y bibliografía

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