Misure di contenimento della pandemia e rapporti contrattuali

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Autor: Andrea Federico, Ordinario di diritto privato, Università di Salerno. Correo electrónico: afederico@unisa.it

1. Nel prisma del diritto privato, le misure di contenimento della pandemia pongono complessi problemi relativi, da un lato, alla riformulazione normativa della socialità e dell’esercizio delle libertà fondamentali, con particolare riguardo al ruolo ascrivibile alle nuove tecnologie; dall’altro, all’enucleazione di una idonea disciplina della sopravvenienza sui rapporti contrattuali di un evento straordinario e imprevedibile determinante la sospensione del patto europeo di stabilità la sospensione del patto europeo di stabilità. La crisi economica prodotta dall’emergenza sanitaria ha altresí generato la diffusa insostenibilità delle condizioni economiche dei contratti perfezionati prima della pandemia, imponendo di affrontare anche il problema della diffusa difficoltà di adempimento delle obbligazioni pecuniarie.

La pandemia ha alimentato di nuova linfa il dibattito sul valore normativo dei princípi generali nel sistema ordinamentale italiano. Sorprende, tuttavia, la diffusa evocazione del principio di solidarietà e/o della buona fede per conseguire, anche mediante l’attribuzione al giudice di un potere correttivo del regolamento contrattuale, la soluzione di problemi economici complessi non generati dalle peculiarità di singoli rapporti.

Nelle applicazioni giurisprudenziali ante Covid-19, il ricorso ai princípi generali ha consentito, all’esito del bilanciamento dei princípi richiamati dalla concreta fattispecie, la selezione della regola piú adeguata agli interessi in gioco, suscettibile di essere generalizzata in altri futuri casi. L’applicazione dei princípi generali è stata sovente contestata mettendo in evidenza i pericoli derivanti da un diritto di fonte giurisprudenziale fondato sull’equità e idoneo a derogare al diritto scritto in ragione dell’inadeguatezza alle peculiarità del caso concreto.

L’emergenza sanitaria e economica, lungi dal consolidare la diffidenza verso l’utilizzazione dei princípi generali, ha sollecitato l’attribuzione al giudice di un ruolo a lungo contestato nell’àmbito contrattuale (sulla destabilizzante incertezza derivante dall’applicazione dei princípi, v., per tutti, D’AMICO, G.: Applicazione diretta dei principi costituzionali e integrazione del contratto, in AA.VV.: Correzione e integrazione del contratto (a cura di F. VOLPE), Bologna, 2016, p. 36). Fermo restando la piena condivisione del valore normativo dei princípi generali (sia consentito rinviare a FEDERICO A.: “Applicazione dei princípi generali e funzione nomofilattica”, in Rass. dir. civ., 2018, p. 798 ss.), non persuade l’attuale evocazione della solidarietà e della buona fede quali tecniche di governo delle vicende originate dalle misure di contenimento della pandemia e delle conseguenze economiche dell’emergenza sanitaria (v., tra gli altri, BENEDETTI, A.M. e NATOLI, R.: “Coronavirus, emergenza sanitaria e diritto dei contratti: spunti per un dibattito”, in www.dirittobancario.it; DOLMETTA, A.A.: “Rispetto delle misure di contenimento» della pandemia e disciplina dell’obbligazione”, in www.ilcaso.it; MATTEI, U. e QUARTA, A.: “Tre tipi di solidarietà. Oltre la crisi nel diritto dei contratti”, in Giustiziacivile.com; FEDERICO, G.: “Adeguamento del contratto e doveri di solidarietà: per un’ermeneutica della dignità”, in www.questionegiustizia.it).

Non si tratta soltanto di prendere atto che l’eccezionalità dell’attuale situazione richiede l’affidamento del governo della solidarietà al legislatore piuttosto che alla concretizzazione giurisdizionale (SCOGNAMIGLIO, C.: “L’emergenza Covid 19: quale ruolo per il civilista?”, in Giustiziacivile.com, 15 aprile 2020), ma di riconoscere che i riferiti orientamenti non costituiscono l’esito di un bilanciamento dei diversi princípi coinvolti nella concreta fattispecie e confliggono con le oggettive necessità dell’emergenza, risultando esclusivamente strumentali a sostenere esiti ermeneutici condizionati da un certo grado di precomprensione.

Il numero dei giudizi pendenti (cfr. GUERRINI, L.: “Coronavirus, legislazione emergenziale, e contratto: una fotografia”, in Giustiziacivile.com, 7 maggio 2020) e l’attuale durata del processo civile sconsigliano la generale rimessione alla decisione giudiziaria della definizione dei problemi (sociali e) economici derivanti dalla pandemia, imponendo la formulazione di regole suscettibili di essere applicate nell’immediatezza ai rapporti contrattuali nonché inidonee ad accrescere il normale grado di litigiosità. In particolare, la crisi di liquidità delle imprese può essere governata efficacemente soltanto dal legislatore con interventi ora diretti, ora indiretti come la generale e temporanea sospensione delle azioni esecutive e delle procedure contro le imprese insolventi, per tacere della moratoria di fatto derivante dalla sostanziale chiusura degli uffici giudiziari (cfr. MAFFEIS, D.: “Problemi dei contratti nell’emergenza epidemiologica da Covid-19”, in Giustiziacivile.com, 10 aprile 2020).

2. La pandemia e le relative misure di contenimento, anche in difetto di una espressa considerazione normativa da parte della disciplina dell’emergenza, sono suscettibili di integrare l’impossibilità sopravvenuta definitiva o temporanea (art. 1256 s. c.c.), totale o parziale (art. 1258 c.c.), in ragione delle peculiari caratteristiche della prestazione, nonché delle modalità esecutive dedotte nel rapporto obbligatorio, con conseguente applicazione delle previsioni degli artt. 1463 ss. c.c. Si pensi all’adempimento di prestazioni vietate o ostacolate dalle misure di contenimento ovvero all’impossibilità della prestazione discendente da comportamenti di terzi in attuazione delle misure di contenimento. In questa prospettiva, l’esecuzione del contratto è sospesa allorché una delle due prestazioni diventa temporaneamente impossibile, esonerando il debitore da responsabilità da ritardo nell’adempimento, che tuttavia resta dovuto (art. 1256, comma 2, c.c.). L’estinzione dell’obbligazione e la risoluzione del contratto operano soltanto se l’impossibilità perdura fino a quando il debitore non può piú essere considerato obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha piú interesse a conseguirla.

La giurisprudenza (Cass., 20 dicembre 2007, n. 26958, in Corriere giur., 2008, p. 921 ss.; Cass. 24 luglio 2007, n. 1635, in Nuova giur. civ. comm., 1008, p. 531) ha altresí distinto l’impossibilità totale o parziale della prestazione dall’impossibilità di utilizzazione della prestazione che non si sostanzia in un impedimento preclusivo dell’attuazione dell’obbligazione, non presupponendone di per sé l’obiettiva ineseguibilità da parte del debitore, riconoscendo, per tale eventualità, la risoluzione del contratto per irrealizzabilità della causa concreta con conseguente esonero delle parti dalle rispettive obbligazioni, sí che il debitore non è piú tenuto a eseguire la prestazione e il creditore non ha l’onere di accettarla.

La riferita impossibilità di utilizzazione di una prestazione astrattamente ancóra eseguibile, ma inidonea alla realizzazione dello scopo perseguito con la stipulazione del contratto, tuttavia, non sembra potersi distinguere dell’impossibilita sopravvenuta (sulla questione, v., per tutti, FERRANTE, E.: “Causa concreta ed impossibilità della prestazione nei contratti di scambio”, in Contr. impr., 2009, p. 151 ss.). Né può tacersi dell’astratta configurabilità anche della riconduzione nell’alveo della risoluzione per eccessiva onerosità ai sensi dell’art. 1467 c.c. La pandemia può configurare un evento straordinario e imprevedibile, non riconducibile nella normale alea del contratto, idoneo a rendere, con riferimento ai contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, la prestazione di una delle parti eccessivamente onerosa, come nel caso della sostanziale irreperibilità e conseguente incremento generale dei prezzi delle materie prime nonché della contrazione dei servizi di trasporto.

La pandemia e le misure di contenimento, tuttavia, non sembrano suscettibili di fondare ipotesi di inesigibilità (in argomento, v., in particolare, ROMANO, G.: “Equilibrio e meritevolezza nel rapporto obbligatorio. (A proposito della inesigibilità della prestazione)”, in AAVV.: I rapporti civilistici nell’interpretazione della Corte costituzionale. Iniziativa economica e impresa, III, Atti del 2° Convegno Nazionale SISDiC, Napoli, 2007, p. 35 ss.; CLARIZIA, O.: Sopravvenienze non patrimoniali e inesigibilità nelle obbligazioni, Napoli, 2012, p. 141 ss.). Come è noto, nel caso di sopravvenienze di natura esistenziale, ove l’esecuzione della prestazione pregiudichi interessi non patrimoniali e gerarchicamente prevalenti del debitore, l’obbligazione è incoercibile e il creditore non può esercitare la pretesa creditoria (amplius, v. PERLINGIERI, P.: Dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento (1975), rist. Napoli, 2019, p. 452 ss.). La Corte costituzionale ha affermato l’esistenza di un principio di inesigibilità come limite superiore alle pretese creditorie (Corte cost., 3 febbraio 1994, n. 19, in Giur. cost., 1994, I, p. 137 ss.; sul punto, cfr. sempre PERLINGIERI, P.: “L’interesse non patrimoniale e i contratti”, in Ann. Fac. econ. Benevento, 16, Napoli, 2012, p. 39 ss.; PERLINGIERI,
P.: “Sugli atti di autonomia negoziale a contenuto non patrimoniale”, in Corti salernitane, 2019, p. 52 ss.) asserendo che l’interesse del creditore all’adempimento degli obblighi dedotti in obbligazione deve essere inquadrato nell’àmbito della gerarchia dei valori rinvenibili in norme, di rango costituzionale e ordinario, che regolano la materia in considerazione.

La previsione di misure di contenimento e la pandemia in re ipsa attenuano l’àmbito di applicazione dell’inesigibilità perché i divieti di spostamento e la sospensione delle attività economiche giustificano il mancato adempimento delle obbligazioni, consentendo, anche indirettamente, la soddisfazione degli interessi esistenziali (del debitore) suscettibili di prevalere su quelli patrimoniali (del creditore). In ogni caso, le limitazioni dei diritti fondamentali poste dalle misure di contenimento e la necessità dello svolgimento dei servizi essenziali impediscono di affermare la prevalenza delle esigenze della persona rispetto agli interessi creditori nei medesimi termini fissati ante Covid. La temporanea limitazione e/o riarticolazione dei diritti fondamentali – posta inderogabilmente mediante i provvedimenti della fase emergenziale – esclude una generale operatività dell’inesigibilità, fondata sulla buona fede, melius sull’applicazione dei princípi costituzionali, in ragione della conseguente limitazione o esclusione degli interessi esistenziali suscettibili di essere realizzati con prevalenza sugli interessi creditori.

3. Come è stato rilevato, il principio di conservazione del contratto assume un ruolo fondamentale nella realizzazione dell’interesse meritevole di tutela dedotto nel contratto, mettendo in evidenza la necessità di scegliere il rimedio piú adeguato a governare le peculiarità del caso concreto (PERLINGIERI, P.: “Equilibrio delle posizioni contrattuali ed autonomia privata”, (2000), in PERLINGIERI, P.: Il diritto dei contratti tra persona e mercato, Napoli, 2003, p. 466). L’inadeguatezza del sistema dei rimedi previsti dal codice civile, infatti, discende dalla sostanziale prevalenza dei rimedi ablativi diretti a liberare le parti dagli impegni contrattuali cancellando il contratto rispetto ai rimedi manutentivi (ROPPO, V.: Il contratto, in Tratt. dir. priv. G. IUDICA e P. ZATTI, Milano, 2011, p. 964).

La necessità di un ampliamento dell’àmbito di operatività dei rimedi manutentivi, correttamente rilevata con riferimento al contesto economico ante Covid-19, non può essere riferita anche alla straordinaria situazione generata dalla pandemia.CL’ipotizzata applicazione di rimedi manutentivi – in virtú dei doveri costituzionali di solidarietà (art. 2 cost.) – con l’apertura ad un intervento giudiziale diretto alla modificazione delle clausole contrattuali e dell’allocazione del rischio effettuata dalle parti è suscettibile di incentivare comportamenti speculativi al pari del riconoscimento della legittimità della autotutela per ottenere una rimodulazione del rapporto contrattuale, producendo conseguenze devastanti sia nella fase emergenziale sia nella fase iniziale della ripresa delle attività economiche (per l’affermazione dell’obbligo di rinegoziare i termini del rapporto contrattuale sulla base della buona fede contrattuale integrativa BENEDETTI, A.M. e NATOLI, R.: “Coronavirus, emergenza sanitaria e diritto dei contratti: spunti per un dibattito”, cit.; ma v. BENEDETTI, A.M.: “Stato di emergenza, immunità del debitore e sospensione del contratto”, in Giustiziacivile.com, 29 aprile 2020).

In particolare, il superamento dei rimedi demolitori, mediante l’affermazione del diritto del debitore alla modificazione delle condizioni economiche nei confronti di creditori meno stabili e attrezzati degli intermediari finanziari, genera il rischio di incontrollata propagazione della gravissima crisi economica. Nella prospettiva creditoria, infatti, l’impatto sul sistema economico del differimento dell’adempimento ovvero della rinegoziazione dell’ammontare del credito è diverso a seconda che si tratti di debiti nei confronti degli intermediari finanziari, dei fornitori, dei dipendenti, dei professionisti. Né può tacersi degli incalcolabili costi transattivi della rinegoziazione (SCOGNAMIGLIO, C.: “L’emergenza Covid 19”, cit.).

Pertanto, le sopravvenienze negative dell’emergenza epidemiologica e delle relative misure di contenimento devono essere governate dal legislatore anche in considerazione delle notevoli difficoltà di individuazione del contraente meritevole di una maggiore protezione rispetto all’altro in un contesto di sostanziale paralisi economica che consente di considerare debole ogni parte contrattuale. Pur apprezzando il rilievo secondo il quale la vita non può certo soccombere innanzi alla dogmatica, non si può ipotizzare una nullità del patto originario non rinegoziato sopravvenuta e transeunte, sí da legittimare l’impresa vittima immediata della crisi sanitaria al rifiuto di adempiere le originarie obbligazioni contrattuali (BENEDETTI, A.M. e NATOLI, R.: “Coronavirus, emergenza sanitaria e diritto dei contratti: spunti per un dibattito”, cit.). Tale posizione non considera che la prevalenza dell’interesse protetto può essere affermata soltanto valutando in concreto, in sede di bilanciamento, la preminenza rispetto agli interessi tutelati dagli ulteriori princípi coinvolti, senza comunque sovrapporre l’obbligo di rinegoziazione e la riconduzione ad equità, le quali svolgono distinte funzioni.

4. I problemi giuridici sollevati dalle misure di contenimento della pandemia riscontrano numerosi rimedi nella disciplina offerta dal codice civile. Tuttavia, come è stato rilevato (FRANCO, R.: “Emergenza, diritto, umanità”, in Giustiziacivile.com), non si è in presenza di eventi che incidono su di una singola relazione giuridica ovvero su di una serie di rapporti geograficamente delimitati, come nel caso di un terremoto ovvero di un’eruzione vulcanica. La pandemia e le misure di contenimento, infatti, si ripercuotono su ogni rapporto giuridico, patrimoniale e non patrimoniale, esigendo pertanto specifici interventi normativi in ordine ai rimedi civilistici.

Invero, il diritto privato al tempo del coronavirus non può essere esclusivamente condizionato dalla dimensione della pandemia, giacché deve recare un’angolazione prospettica diretta ad assicurare sia l’attuazione del libero sviluppo della persona umana nella riformulazione della socialità, evitando di incorrere nell’abolizione del prossimo (AGAMBEN, G.: “Contagio”, in www.quodlibet.it), sia la ripresa del sistema economico nella disciplina dei rimedi utilizzabili dai singoli contraenti. In altri termini, i rimedi azionabili con riguardo ai contratti pendenti devono soddisfare anche interessi generali che trascendono gli interessi dei contraenti.

In questa prospettiva, si colloca in modo adeguato la statuizione, ex art. 88, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, come convertito con l. 24 aprile 2020, n. 27, della ricorrenza, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 1463 c.c., della «sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta in relazione ai contratti di acquisto di titoli di accesso per spettacoli di qualsiasi natura, ivi inclusi quelli cinematografici e teatrali, e di biglietti di ingresso ai musei e agli altri luoghi della cultura», con la contestuale previsione dell’obbligo del venditore di provvedere “alla emissione di un voucher di pari importo al titolo di acquisto, da utilizzare entro un anno dall’emissione”. La legge di conversione ha esteso, con l’inserzione dell’art. 88 bis, la ricorrenza della sopravvenuta impossibilità della prestazione, nei limiti fissati dal medesimo articolo, ai contratti di trasporto aereo, ferroviario, marittimo, nelle acque interne o terreste, ai contratti di soggiorno e ai contratti di pacchetto turistico, prevedendo altresí, entro trenta giorni dall’istanza, il rimborso del corrispettivo versato o l’emissione, da parte del vettore o della struttura ricettiva, di un voucher di pari importo da utilizzare entro un anno dall’emissione.

Come è evidente, il legislatore non si è limitato a riscontrare l’impossibilità della prestazione, suscettibile di essere evocata anche in difetto delle riferite disposizioni, ma ha regolamentato il diritto al rimborso, prevedendo la facoltà del venditore di rilasciare un voucher spendibile entro l’anno sia allo scopo di non aggravare la crisi degli operatori del settore, sia al fine di evitare la proposizione di azioni giudiziarie dirette all’ottenimento del rimborso. Con specifico riferimento alle difficolta economiche derivanti dalla sospensione delle attività economiche e dalla conseguente crisi economica, la tradizionale sottrazione alla previsione dell’estinzione per impossibilità sopravvenuta delle obbligazioni pecuniarie (genus numquam perit) condiziona ogni riflessione.

Pertanto, il legislatore può intervenire disponendo la sospensione temporanea dell’esigibilità del credito pecuniario e attribuendo al debitore il diritto al pagamento rateale degli importi dovuti al termine del periodo di sospensione delle attività economiche. Si pensi, a mero titolo esemplificativo, all’art. 72 bis, d.l. cit., relativo alla sospensione dei pagamenti delle utenze e alle modalità di rateizzazione delle fatture e degli avvisi di pagamento sospesi; all’art. 72 ter d.l. cit., in ordine alla sospensione annuale del pagamento delle rate dei mutui agevolati concessi dall’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa Spa-Invitalia; all’art. 56, comma 2, lettere b) e c), d.l. cit., in ordine alla moratoria delle esposizioni nei confronti del sistema creditizio; all’art. 95, d.l. cit., in ordine alla sospensione del versamento dei canoni di affitto, alle federazioni, società associazioni sportive, per la concessione e l’affidamento di impianti sportivi pubblici.

Nella medesima direzione, la giurisprudenza civile (Trib. Napoli, 16-17 aprile 2020, Giudice De Gennaro, in www.ilcaso.it) ha affrontato il caso della sopravvenuta impossibilità di esecuzione del piano omologato del consumatore derivante dalla situazione emergenziale causata dalla diffusione del Covid-19; con riferimento ad un piano non omologato, v. Trib. Napoli, 3 aprile 2020, Giudice Graziano, in www.ilcaso.it) si è confrontata con gli effetti della gravissima crisi sociale, sanitaria ed economica provocata dalla diffusione del Covid-19 e, in particolare, con l’impossibilità di adempiere le obbligazioni contrattuali in ragione delle rigide restrizioni imposte dall’autorità governativa. Si riscontra, infatti, l’applicazione dell’art. 13, comma 4 ter, l. 27 gennaio 2012, n. 3 ai debitori, nei confronti dei quali sia già intervenuta la omologazione di un piano o di un accordo, per rimodulare le modalità e le tempistiche della esecuzione avvalendosi dell’ausilio dell’O.C.C. (v. anche Trib. Venezia, 14 aprile 2020, Giudice Bruni, in www.quotidianogiuridico.it).

I dubbi sulla generale affermazione dell’obbligo di rinegoziazione sono confermati dall’art. 103, comma 2 ter, d.l. n. 18 del 2020, in forza del quale «nei contratti tra privati, in corso di validità dal 31 gennaio 2020 e fino al 31 luglio 2020, aventi ad oggetto l’esecuzione di lavori edili di qualsiasi natura, i termini di inizio e fine lavori si intendono prorogati per un periodo pari alla durata della proroga di cui al comma 2. In deroga ad ogni diversa previsione contrattuale, il committente è tenuto al pagamento dei lavori eseguiti sino alla data di sospensione dei lavori». Come è evidente, la sopravvenienza della pandemia e delle misure di contenimento non può essere posta a fondamento di alcun obbligo di rinegoziazione in ordine alle condizioni economiche, perché il governo della solidarietà può essere spinto dal legislatore anche nella direzione opposta alla sospensione dei pagamenti, vale a dire derogando ex lege alle diverse previsioni contrattuali del termine di adempimento.

5. L’art. 3, comma 6-bis, d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazioni con l. 5 marzo 2020, n. 13, come introdotto dall’art. 91, d.l. n. 18 del 2020, statuisce che “[i]l rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.

Come rilevato in precedenza, il factum principis è suscettibile di escludere la responsabilità da inadempimento perché l’art. 1256 c.c. è attuazione di un principio generale immanente nel sistema (Cass., Sez. un., 23 aprile 2020, n. 8094, in Pluris online) secondo la quale non può essere preteso un comportamento quando lo stesso sia divenuto impossibile senza colpa di chi vi sia tenuto e gli eventi in esame siano riconducibili a una causa di forza maggiore che, per definizione, rappresenta una causa di non imputabilità dell’inadempimento (Cass., 24 luglio 2007, n. 16315, in Foro it., 2009, I, c. 214 ss.). Fermo restando che il d.l. n. 18 del 2020, come rilevato in precedenza, reca una pluralità di disposizioni che riguardano specifici rapporti contrattuali, la disposizione in esame, nella formulazione linguistica, sembra limitarsi ad affermare ciò che era desumibile anche dalla disciplina codicistica, vale a dire l’idoneità delle misure di contenimento ad escludere la responsabilità del debitore in caso di inadempimento e la necessità di considerare, nella verifica dei danni derivanti dall’inadempimento, la riferibilità dei medesimi alle misure di contenimento anziché alla condotta del debitore.

Nella medesima direzione sospinge il richiamo a “decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”, diretto alla rappresentazione dell’obbligatorietà della valutazione dell’incidenza delle misure di contenimento ai fini: sia della verifica dell’impossibilità sopravvenuta, temporanea o definitiva, della prestazione anche in presenza di clausole contrattuali di aggravamento della responsabilità, assai diffuse nei contratti internazionali, per affermare la responsabilità anche in caso di factum principis; sia della valutazione dell’eccessività della penale.

Al riguardo è stato affermato che la disposizione in esame configura una disciplina “a ventaglio (positivamente) aperto” affidante al giudice il compito di individuare il rimedio piú opportuna a seconda della fattispecie concreta (DOLMETTA, A.A.: “«Rispetto delle misure di contenimento» della pandemia e disciplina dell’obbligazione”, cit.). Tale orientamento suscita non poche perplessità anche in considerazione del rilievo che l’impossibilità definitiva o temporanea opera automaticamente e il giudice non può sostituirsi alle parti contrattuali nella scelta dei rimedi.

Come rilevato in precedenza, le misure di contenimento sono suscettibili di determinare, sulla base della disciplina codicistica, sia l’impossibilità definitiva che l’impossibilità temporanea. Pertanto, le disposizioni dell’emergenza, per evitare il proliferare di contenziosi, stabiliscono espressamente, per alcune contratti, la ricorrenza della sopravvenuta impossibilità della prestazione ex art. 1463 c.c., con la conseguenza che il contratto deve essere considerato risolto per impossibilità sopravvenuta, la quale come è noto opera automaticamente ed è azionabile da entrambe le parti. Fatta eccezione per questi casi, nelle altre ipotesi occorre valutare la specificità dei singoli rapporti con la probabile presenza di una pluralità di ipotesi riconducibili nell’àmbito dell’impossibilità temporanea, con la conseguenza che, una volta rimossa la causa di impossibilità della prestazione, il debitore è tenuto ad adempiere, salvo il disposto del secondo comma dell’art. 1256 c.c.

6. L’infondatezza della sostanziale affermazione dell’obbligo di rinegoziazione di modifiche contrattuali idonee a ripristinare un imprecisato equilibrio economico del contratto è palese nelle riflessioni relative all’incidenza delle misure di contenimento sui contratti di locazione commerciale. Il legislatore, ex art. 65, comma 1, d.l. n. 18 del 2020, ha riconosciuto, al fine di contenere gli effetti negativi derivanti dalle misure di prevenzione e contenimento connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19, ai soggetti esercenti attività d’impresa un credito d’imposta, per l’anno 2020, nella misura del 60 per cento dell’ammontare del canone di locazione, relativo al mese di marzo 2020, di immobili rientranti nella categoria catastale C/1. Tale previsione assume rilievo esclusivamente sotto il profilo tributario, sí che non può essere utilizzata né per affermare né per escludere il mantenimento del canone ante Covid (sulla questione, v., tra gli altri, DOLMETTA, A.A.: “Locazione di esercizio commerciale (o di studi professionali) e riduzione del canone per «misure di contenimento» pandemico”, in www.blog.ilcaso.it, 23 aprile 2020). La sopravvenuta difficoltà economica derivante dalla crisi economica generata dalle misure di contenimento della pandemia certamente integra i gravi motivi per recedere dal contratto ex art. 27, l. 27 luglio 1978, n. 392. Tale forma di tutela, tuttavia, è considerata insufficiente quale rimedio di annientamento del rapporto contrattuale e di possibile aggravamento della condizione del conduttore anche in considerazione della perdita dell’indennità di avviamento.

Fermo restando che la sospensione delle attività economiche non impedisce al conduttore l’utilizzazione dei locali per il mantenimento e la conservazione delle attrezzature, macchinari, i prospettati obblighi di rinegoziazione per la riduzione del canone non sembrano ancorati alle misure di contenimento, bensí alla difficoltà economica del conduttore generata dalla crisi economica prodotta dalla pandemia.

Esclusa la riconduzione nell’alveo della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta (GENTILI, A.: “Una proposta sui contratti d’impresa al tempo del Coronavirus”, in Giustiziacivile.com, 29 aprile 2020), la situazione eccezionale non può costituire l’occasione per dare anticipata attuazione al progetto di disegno di legge delega presentato dal Governo con riguardo all’introduzione nel sistema del Codice di una regola generale che nei contratti di durata imponga la rinegoziazione delle condizioni contrattuali in presenza appunto di sopravvenienze eccezionali e imprevedibili, in attuazione del piú generale “principio” di buona fede che sovrintende i rapporti contrattuali (v., tra gli altri, CUFFARO, V.: “Le locazioni commerciali e gli effetti giuridici dell’epidemia”, in Emergenza Covid-19, Speciale n. 1, p. 213 ss.).

Altro è ipotizzare, sulla base di un’espressa previsione di legge, l’applicazione di obblighi di rinegoziazione seguiti, in difetto di accordo, da una rimodulazione da parte del giudice in condizioni di normalità e con riferimento a singoli casi; altro è, nell’attuale fase post Covid, modificare le condizioni economiche con conseguente propagazione della crisi economica, consentendo ai contraenti tenuti al pagamento di canoni di locazione di tentare la strada giudiziale per procrastinare il pagamento e/o ridurre l’esposizione debitoria.

La consapevolezza dell’inettitudine della difficoltà economiche del conduttore a fondare il diritto alla riduzione del canone ha sollecitato il richiamo a disposizioni in materia di locazione palesemente inconferenti come la previsione degli artt. 1584 ss. c.c. (in argomento, v. NAPOLITANO, A.: “Le locazioni commerciali al tempo del covid-19”, in Il diritto vivente, 2020, numero speciale, L’emergenza Covid-19: le risposte della giustizia, p. 131 ss.).

Né persuade l’evocazione dell’art. 1575, n. 2, c.c., là dove obbliga il locatore a «mantenere» la cosa locata «in istato di servire all’uso convenuto» con conseguente riconduzione nell’alveo di una impossibilità temporanea, con salvezza dell’applicazione della parte finale dell’art. 1256, comma 2, e dell’art. 1464 c.c. con riconoscimento del diritto a una corrispondente riduzione della prestazione. Tale disposizione non disciplina la distribuzione del rischio della sopravvenienza Covid, ma stabilisce che il locatore deve garantire la destinazione d’uso del bene sulla quale non incidono le misure di contenimento. Tali misure, infatti, sono dirette alla sospensione e/o alla limitazione dell’attività del conduttore senza incidere sul rapporto contrattuale in modo che alle perdite di una parte corrispondano vantaggi dell’altra, vale a dire senza alterare l’equilibrio complessivo che le parti avevano raggiunto nel contratto.

La pandemia e le misure di contenimento possono incidere sulla responsabilità da ritardo o da inadempimento nel periodo di sospensione. La crisi economica generata dalle misure di contenimento invece non può incidere sulla congruità delle condizioni, né la controparte contrattuale può essere chiamata a condividere il rischio contrattuale perché la liquidità manca e i mezzi per surrogarla non sono stati predisposti (GENTILI, A.: “Una proposta sui contratti d’impresa al tempo del Coronavirus”, cit.). Il tempo attuale non costituisce occasione per attribuire al giudice il compito di assicurare la conservazione del contratto mediante un controllo giudiziale sul regolamento negoziale, volto ad adeguare ex post le condizioni economiche alla mutata situazione economica. Legittimo, invero, appare, sulla base della buona fede (artt. 2 cost., 1175 e 1375 c.c.), soltanto ipotizzare un obbligo di negoziare le modalità dell’adempimento dei canoni maturati nel periodo di sospensione dell’attività.

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