Profili applicativi della clausola compromissoria in ambito sportivo. Studio di diritto domestico e comparato.

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Autor: Salvatore Aceto di Capriglia.

Resumen: Lo studio della clausola compromissoria conduce gli interpreti ad esplorare uno dei settori più intriganti nei quali l’autonomia privata può spingersi a lambire i confini ordinamentali. Il sistema di giustizia sportiva rappresenta un interessante banco di prova e di confronto, alla luce delle sue peculiarità e specificità. L’esperienza comparatistica e la più attenta riflessione ermeneutica degli ultimi anni suggeriscono un drastico ripensamento delle categorie ordinanti a livello dogmatico, tradizionalmente applicate in materia arbitrale, così da aprire nuovi e inesplorati orizzonti all’operatività delle ADR nell’ordito domestico.

Palabras clave: clausola compromissoria; arbitrato, diritto dello sport; giustizia sportiva; Federazioni sportive nazionali ed internazionali; contratto ad effetti processuali.

Abstract: The study of the arbitration clause leads interpreters to explore one of the most intriguing sectors of private autonomy. The sports justice system represents an interesting test and comparison bench, in the light of its peculiarities and specificities. The comparative experience and the most careful hermeneutic reflections of the last few years suggest a drastic rethinking of the ordering categories at a dogmatic level, traditionally applied in arbitration, so as to open new and unexplored horizons to the operation of ADRs in the Italian Law.

Key words: arbitration clause; arbitration; sports law; sports justice; national and international sports federations: contract with procedural effects.

Sumario:
I. Configurabilità di un ordito sportivo ontologicamente autonomo. La meritevolezza degli interessi e la proporzionalità tra obiettivo e mezzo di risoluzione delle controversie tra protagonisti dello sport. Princìpi basici di giustizia sportiva.
1. La genesi del fenotipo arbitrale tra profili nominalistici e ricadute applicative in ambito sportivo.
2. La controversa qualificazione fenomenologica della clausola compromissoria nel Codice italiano del ‘42 e nella riforma autoctona del 2006. Il contratto ad effetti processuali.
3. L’autonomia privata unilaterale a fondamento genetico dell’arbitrato.
II. Lo scopo strumentale dell’indagine comparatistica: il raggiungimento del common core della disciplina.
1. Cenni di diritto dell’arbitrato in Francia.
2. I sistemi monisti: panoramica delle soluzioni adottate in Belgio, Spagna e Brasile.
III. Il modello tedesco e il case study pechstein: operatività della clausola compromissoria, pur in presenza di profili di invalidità, in ambito sportivo.
IV. Considerazioni conclusive: i limiti di efficacia dell’arbitrato e la necessità di rifondare il giudizio di meritevolezza, in proporzione al contenuto contrattuale. Il contributo ermeneutico domestico influenzato dalla disciplina consumeritisca.

Referencia: Actualidad Jurídica Iberoamericana Nº 14, febrero 2021, ISSN: 2386-4567, pp. 842-897.

Revista indexada en SCOPUS, REDIB, ANVUR, LATINDEX, CIRC, MIAR.

I. CONFIGURABILITÀ DI UN ORDITO SPORTIVO ONTOLOGICAMENTE AUTONOMO. LA MERITEVOLEZZA DEGLI INTERESSI E LA PROPORZIONALITÀ TRA OBIETTIVO E MEZZO DI RISOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE TRA PROTAGONISTI DELLO SPORT. PRINCÌPI BASICI DI GIUSTIZIA SPORTIVA.

La conclusione della vicenda giudiziaria inziata nel 2009 e terminatasi lo scorso anno, dopo oltre un decennio di pronunce e annullamenti, relativa al famoso caso Pechstein ha riportato all’attenzione i fenomeni dell’arbitrato e della clausola compromissoria nell’ambito del diritto e della giustizia sportiva.

Lo sport è innanzitutto un fenomeno culturale e sociale che registra l’evoluzione dei costumi e dei valori di una società, è la principale forma di intrattenimento per miliardi di spettatori, i quali fisicamente e entusiasticamente si radunano ai bordi di un campo sviluppando processi di identificazione e costruendo appartenenze socialmente significative.Controprova dell’importanza dell’intero settore, è l’attenzione che gli si sta rivolgendo, nel pieno dell’emergenza globale Covid-19, finalizzata a trovare soluzioni alla sospensione delle manifestazioni più importanti, quali ad esempio le Olimpiadi che sono state rimandate (salvo non auspigabili peggioramenti del quadro pandemico) all’anno 2021.

Il fenotipo sportivo, quale fatto giuridicamente rilevante, appare ampiamente strutturato nelle diverse componenti sociali, etiche ed economiche. Aspetti tutti presi in esame dal diritto che ora insegue, ora recepisce gli obiettivi del complesso settore dello sport e del relativo business. Il continuo interessamento da parte dell’ordinamento giuridico nei riguardi di tale settore sembra legarsi in particolare, al crescente rilievo assunto dallo sport non tanto per l’ampio sviluppo dell’attività ludica a livello globale, quanto per le ingenti somme di capitali in grado di attirare all’interno di tale complessa fenomenologia.

Nodo gordiano della vicenda, ampiamente dibattutto in letteratura, è il rapporto fra l’ordinamento giuridico e quello sportivo, alla luce della crescente importanza da quest’ultimo assunta negli ultimi decenni. Dottrina e girisprudenza discutono dell’esistenza di un “ordinamento sportivo” autonomo da quello generale dal momento in cui il legislatore ha iniziato a rivolgere la sua attenzione al fenotipo. L’importanza attribuitagli è desumibile dalla natura giuridica rivestita sin dal 1942 ad oggi al CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano) come ente avente personalità pubblica. Le teorie cosiddette “pluralistiche”, cioè favorevoli all’esistenza di un “ordinamento sportivo” parallelo a quello giuridico hanno trovato larga diffusione. Anche la Suprema Corte aderisce a tale impostazione ermeneutica, quella cioè di un ordinamento sportivo proprio. Lo stesso legislatore ha cercato di porre fine al dibattito con l’emanazione della l. 280 del 2003 la quale prevede all’art. 1 che “La Repubblica riconosce e favorisce l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale.

2. I rapporti tra l’ordinamento sportivo e l’ordinamento della Repubblica sono regolati in base al principio di autonomia, salvi i casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo”.

Tuttavia permangono dubbi interpretativi suscitati dall’inciso “salvi i casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica” che non vengono ben chiariti limitandosi a descrivere i campi di applicazione esclusiva dell’ordinamento sportivo. La Corte costituzionale ha avuto modo di pronunciarsi in merito alla non fondatezza della questione di legittimità costituzionale con riguardo ai commi 1 e 2 dell’art. 2 della legge 280 nella parte in cui riserva al giudice sportivo la competenza a decidere le controversie aventi ad oggettro sanzioni disciplinari diverse da quelle squisitamente tecniche. Né si deve tralasciare il delicato rapporto che si instaura tra le norme dell’ordinamento sportivo e quelle regolanti il funzionamento dell’Unione europea, questione balzata agli onori della cronaca al tempo della famosa sentenza Bosman con la quale si ribadì la libera circolazione dei lavoratori (atleti) all’interno dell’UE, ancorché soggetti a norme limitative imposte dagli ordinamenti sportivi domestici.

Questio juris di fondamentale importanza per la presente indagine è l’attribuzione o meno della qualificazione di ordinamento autonomo in capo al fenomeno sportivo: tesi sostenuta dalle teorie c.d. pluralistiche, avversata, invece, da quelle moniste.

Secondo l’orientamento pluralistico in ogni organizzazione sociale è individuabile un relativo ordinamento giuridico; tale visione comporta un frastagliamento normativo, giacché ad una pluralità di ordinamenti corrisponderebbe una variegata molteplicità di trattamenti. La tesi monistica, invece, manifesta il difetto di una eccessiva staticità, incapace di analizzare i fenomeni nella loro specificità. A ben vedere tutto nasce dall’evoluzione del concetto di persona, che, a partire dall’ingresso nell’ordito giuridico dei valori costituzionali repubblicani, si affranca dal concetto di status: si è persona in quanto tale, non in quanto si riveste una specifica condizione. I diritti fondamentali vengono riconosciuti alla persona, non allo status da questa rivestito. L’art. 2 della Costituzione italiana è di lampante chiarezza al riguardo. La persona preesiste all’ordinamento, ed in questo riceve tutela che a ottima ragione definiamo multilivello. Il rapporto fra ordinamenti giuridici, nella fattispecie quello nazionale e quello euro-unitario, è stato poi oggetto di accesi dibattiti e arresti della Consulta italiana e della Corte europea, e all’attualità è stato risolto sulla base dell’affermazione che “l’Italia con la ratifica dei Trattati comunitari, è entrata a far parte di un ordinamento giuridico autonomo, integrato e coordinato con quello interno, ed ha trasferito, in base all’art. 11 della Costituzione, l’esercizio di poteri, anche normativi, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi”. Pertanto se si mette in dubbio, anzi si esclude, l’esistenza di un ordinamento giuridico sovranazionale autonomo, a fortiori tale esistenza deve essere rifiutata nel caso dell’ordinamento sportivo.

Tale ordito può essere piuttosto letto alla luce di un sistema che beneficia di ampi spazi di autonomia privata, ma che non può essere considerato come avulso e del tutto indipendente. Sostenere che esista un ordinamento del genere, basato sull’acquisizione dello status di atleta, professionista o dilettante, appare di chiara marca obsoleta.

L’autonomia privata riconosciuta ai vari regolamenti federali non è tuttavia da considerarsi come assoluta. Almeno tre devono essere i fils rouges alle quali attenersi: il controllo di meritevolezza dell’interesse perseguito, il dovere di adeguatezza allo scopo e la necessità che impone l’adozione del mezzo meno aggressivo tra quelli a disposizione. Fra i tre, quello che appare di estrema rilevanza è senza dubbio il primo: il controllo di meritevolezza dell’interesse, strumento indispensabile per verificare la compatibilità fra la norma espressa a livello federale (sportivo) e quella nazionale. È in tale prospettiva ermeneutica che andrà esaminata la configurabilità della clausola compromissoria anche all’interno di un sistema peculiare e, a tratti “chiuso”, come quello sportivo, intesa come salvaguardia della proporzionalità fra interesse perseguito e strumento adottato.

Al vertice del c.d. ordinamento sportivo si pone il CONI, il quale, dal 1999, gode di personalità giuridica di diritto pubblico. Le singole federazioni sportive nazionali si configurano come società e associazioni dotate di personalità giuridica. A livello internazionale in posizione apicale si erge il CIO (Comitato Internazionale Olimpico) considerato come un’organizzazione internazionale non governativa composta da persone e non da associazioni, finanziata con fondi privati (principalmente derivanti da sponsorizzazioni e cessioni di diritti televisivi). Assai peculiare si palesa il sistema della giustizia sportiva al punto da rendere necessaria una digressione.

Disciplinato a livello nazionale dal nuovo Codice di giustizia sportiva, approvato dalla Giunta Nazionale del CONI, con deliberazione n. 258 dell’11 giugno 2019, si snoda nell’arbitrato e nel sistema di procedure regolate dagli organi che compongono il sistema sportivo i quali, è bene ricordare, non hanno carattere giurisdizionale seppure dotati di competenze in merito alle regole che disciplinano le varie attività a loro volta sottoposte dal diritto dello Stato di riferimento. L’arbitrato, invece, ha funzione alternativa rispetto alla giurisdizione statale.

Le misure disciplinari relative ai campionati nazionali sono adottate dai giudici sportivi a livello di lega, mentre per le sanzioni più gravi sono previsti due gradi di giudizio: il primo presso la Commissione disciplinare nazionale, il secondo presso la Corte di giustizia federale. La vexata quaestio circa il rapporto di competenze tra giudice statale e giudice sportivo ha trovato parziale definizione nell’art. 2 dellla legge 280 del 2003, il quale attribuisce all’ordinamento sportivo la disciplina delle questioni aventi ad oggetto:

a) l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive;

b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni.

È tuttavia nel numero 2 dell’art. 1 della prefata legge che viene sancito il principio generale secondo il quale: “I rapporti tra l’ordinamento sportivo e l’ordinamento della Repubblica sono regolati in base al principio di autonomia, salvi i casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo.”. Scaturigine di questa, non totale, autonomia è il riconoscimento del vincolo di giustizia e della clausola compromissoria. In virtù del primo principio le parti si impegnano ad adire la giustizia interna; con la clausola compromissoria invece devolvono la cognizione ad un collegio arbitrale terzo, rendendo di fatto l’arbitrato sportivo uno strumento alternativo sia alla giurisdizione statale, che a quella sportiva.

L’esistenza di un sistema di giustizia sportiva a latere di quello ordinario non può essere considerata sintomo di piena e totale autonomia e indipendenza da parte del mondo dello sport. Controprova è l’intreccio di competenze tra le due giurisdizioni: la esclusività di quella statale nel settore amministrativo, nonché relativamente ai rapporti patrimoniali.

La specificità del fenomeno “sport” è la chiave di lettura dell’intero sintagma di giustizia sportiva al punto da consentirci di escludere per quest’ultima l’esistenza stessa di una giustizia speciale (vietata ai sensi dell’art. 102, 2 co. Cost.), qualificandola, più correttamente, come una specializzazione della giustizia.

L’arbitrato sportivo, principale mezzo di risoluzione delle controversie in materia, ha il suo iniziale riconoscimento con l’istituzione presso il CONI del CCAS (Camera di Conciliazione e Arbitrato dello Sport) nel 2002 il quale, per la communis opinio operava a mezzo di lodi irrituali. Nel 2008 viene invece istituito il TNAS (Tribunale Nazionale di Arbitrato dello Sport) per il quale veniva espressamente prevista l’appellabilità delle decisioni innanzi alla Corte d’Appello, configurando senza dubbio come rituali i lodi emanati. Nel 2014 e soprattutto nel 2019, con il varo del nuovo codice di giustizia sportiva, i due organi vengono soppressi e il quadro normativo cambia funditus.

L’art. 8 del nuovo codice istituisce il Collegio di Garanzia dello sport presso il CONI, oltre al fondamentale assunto normativo secondo il quale “ gli statuti e i regolamenti federali prevedono che gli affiliati e i tesserati accettino la giustizia sportiva così come disciplinato dall’ordinamento sportivo”, introducendo una sorta di clausola compromissoria “generale”, da buona parte della letteratura considerata come un “vincolo di giustizia”, dando accoglienza a quello che può essere considerato un arbitrato comune, di tipo irrituale.

A seguito delle ultime riforme cronologicamente intervenute, ed in particolare con la soppressione di organi arbitrali a favore di un Collegio di Garanzia, si registra una ulteriore conferma della tesi secondo la quale quello sportivo non può essere considerato un ordinamento munito di autodichia. L’assunto iniziale, in virtù del quale a prevalere è sempre lo status personae che si sviluppa anche attraverso l’attività sportiva, sembra accogliere il favore del legislatore.

Si rende a questo punto nescessaria una compiuta disamina del fenotipo arbitrale all’interno della giustizia statuale, alla luce degli interventi di riforma susseguitisi negli anni, l’ultimo dei quali, per quanto riguarda il modello domestico, data 2006. L’analisi della riforma, del vivace dibattito dottrinale che ne è scaurito e soprattutto un confronto multilivello e comparato in particolare con il modello tedesco, sarà necessaria al fine di poter riflettere sulle ricadute applicative nel mondo dello sport.

1. La genesi del fenotipo arbitrale tra profili nominalistici e ricadute applicative in ambito sportivo.

Il fenotipo giuridico dell’arbitrato origina da un atto di volontà, con il quale si opera la scelta di deferire ad arbitri la risoluzione di controversie già instaurate o che si prevede possano insorgere in futuro in ordine ad un determinato rapporto giuridico, con la contesutale preclusione della possibilità di adire l’Auorità giudiziaria statuale. La nomenclatura codicistica, all’atto di autonomia privata che sta alla base dell’arbitrato attribuisce il nomen juris di convenzione di arbitrato, cui il Codice di procedura civile italiano dedica un intero Capo.

L’opzione lessicale seguita dal legislatore nel 2006, in occasione dell’ultima riforma dell’arbitrato, lungi dal potersi considerare come una semplice scelta terminologica, appare nondimeno pregna di implicazioni giuridiche, se è vero che la stessa segna il superamento della dicotomia – che da sempre caratterizzava il linguaggio legislativo – tra compromesso e clausola compromissoria, tant’è che gli ermeneuti hanno registrato l’influenza esercitata sul legislatore dalle riflessioni degli studiosi, che da tempo avevano segnalato la sostanziale sovrapponibilità tanto funzionale quanto effettuale tra le prefate figure. La novella si colloca sulla scia, già inauguarata dalla precedente riforma del 1994, la quale “ha evitato il pericolo e la tentazione di trasferire i concetti ed i modi esistenti in diritti stranieri per inquadrarli acriticamente nel nostro ordinamento. Inoltre il contributo dell’ampia letteratura in materia, incentrato sulle esperienze straniere e su riflessioni comparatistiche traspare non solo in alcune scelte di carattere generale effettuate dal legislatore, ma anche in profili specifici.

Ne consegue, sempre secondo gli insegnamenti di una nota dottrina, che la comparazione ha reso la nostra legislazione più uniforme a quelle vigenti all’estero è più vicina alle principali convenzioni multinazionali anche nella prospettiva di realizzare un effettivo adeguamento del nostro ordinamento interno a quello internazionale”.

La letteratura, infatti, nel riflettere intorno alla portata sostanziale del sintagma utilizzato dal legislatore del 2006, ha evidenziato come nella littera legis sia volutamente assente ogni riferimento alla nozione di contratto, il che disvela la volontà di attribuire alla clausola compromissoria una connotazione del tutto peculiare sotto il profilo dell’inquadramento sistematico, atteso che la stessa, pur rientrando nel novero degli atti negoziali, non è sic et simpliciter assimilabile alla figura contrattuale. Traspare così dall’esegesi normativa il richiamo al concetto romanistico di conventio, che, a prescindere dal dotto dibattito relativo al corretto significato da attribuire a siffatta espressione, riporta alla mente un percorso di convergenza degli interessi, mentre nel fenomeno contrattuale quelli in gioco sono necessariamente divergenti ed antitetici.

Se, dunque, nell’attuale assetto codicistico la convenzione di arbitrato si erge quale autonomo genus di negozio giuridico, il compromesso (art. 807 c.p.c.) e la clausola compromissoria (art. 808 c.p.c.) – con le caratteristiche di cui si è sinteticamente dato conto – assurgono al rango di singole species, alle quali si giustappone un’ulteriore figura, coniata ex novo dal legislatore del 2006, che prende il nome di convenzione arbitrale in materia non contrattuale. L’esatta comprensione dell’identità della clausola compromissoria è un’operazione ermeneutica postulante un’actio finium regundorum tra la clausola compromissoria ed il compromesso, che non a caso da tempo affatica il mondo degli interpreti; al fine di risolvere siffatta quaestio juris gli studiosi hanno elaborato numerosi ed articolati criteri discretivi. In specie, quantunque autorevolmente sostenuta e dottamente argomentata, la tesi che individua il discrimen nella natura contrattuale o meno del rapporto dal quale originano le controversie devolute agli arbitri non convince la maggioranza della comunità interpretativa, in seno alla quale appare tuttora insuperato l’insegnamento di un illustre maestro, secondo il quale “la clausola compromissoria differisce dal compromesso in quanto non demanda a posteriori agli arbitri la decisione di controversie già sorte, identificabili e identificate come tali, bensì stabilisce a priori (cioè preventivamente e in ipotesi) che viene demandata ad arbitri, nominati o nominandi, la decisione di eventuali controversie che potranno nascere (forse che sì, forse che no) da un certo contratto (principale) fra le parti”.

Il formante normativo attualmente in vigore costituisce il frutto di un lungo ed elaborato iter di sedimentazione, scandito non solo dal succedersi di interventi legislativi, ma anche e soprattutto dall’evolvere della riflessione giuridica che, prim’ancora di soffermarsi sul patto compromissorio, nelle sue molteplici declinazioni, ha fatto registrare una summa divisio in ordine alla più generale questione afferente alla natura pubblicistica o privatistica del fenomeno arbitrale. Il pensiero di Chiovenda ha impresso una svolta fondamentale al dibattito sulla natura dell’arbitrato, giacché ebbe ad individuare il giusto punto di equilibrio tra le contrapposte ricostruzioni ermeneutiche: riuscì, infatti, ad abbracciare la tesi privatistica senza negare il fondamentale assunto da cui muoveva il fronte ermeneutico pubblicistico, consistente nell’affermazione secondo la quale la giurisdizione costituisce una prerogativa riservata esclusivamente allo Stato. Di talché la decisione emessa dagli arbitri (che in teoria avrebbe dovuto presentare la valenza vincolante propria della statuizione negoziale) risulta, invece, portatrice di una valenza giurisdizionale per volontà dello Stato, che si determinava in tal senso in virtù del vantaggio sociale connesso all’effetto deflattivo derivante dall’eliminazione di una controversia dal panorama giudiziario.

In continuità con l’elaborazione chiovendiana si pone altra dottrina, che ha fornito un contributo determinante ai fini della qualificazione del patto arbitrale, consentendo il superamento della tesi del contratto ad effetti processuali, che appariva fuorviante, in quanto lasciava intendere che le parti, attraverso la convenzione arbitrale, si limitassero a modificare in qualche suo aspetto il processo di cognizione. Per contro, è stato definitivamente chiarito che dalla stipulazione del patto compromissorio discende una conseguenza ben più radicale e di portata sistematica, consistente nella sostituzione di tutto il processo di cognizione con altro fenomeno, similare ma concettualmente distinto.

Nel formante post-unitario, dunque, la clausola compromissoria si prestava ad essere intesta come una sorta di preliminare di compromesso, alla luce dell’infelice formulazione letterale contenuta nel c.d. Codice Pisanelli, a mente della quale le parti si obbligavano a compromettere; donde il fiorire di letture che mettevano in luce gli effetti meramente obbligatori della clausola de qua, nella quale si intravedeva un compromesso in fieri, ovvero il nucleo embrionale di futuri compromessi. Proprio in virtù del solido fondamento testuale, la ricostruzione in commento, oltre ad essere patrocinata dalla più autorevole dottrina del tempo, ricevette altresì indubbio seguito anche da parte del formante pretorio, sia di merito, che di legittimità.

2. La controversa qualificazione fenomenologica della clausola compromissoria nel Codice italiano del ‘42 e nella riforma autoctona del 2006. Il contratto ad effetti processuali.

La formulazione letterale impressa dal legislatore del 1942 all’art. 808 c.p.c. – rimasta sostanzialmente immutata anche all’esito della riforma del 2006 – segna un netto iatus rispetto alla previsione del Codice post-unitario, giacché essa chiarisce in maniera incontrovertibile che, mercé la pattuizione della clausola compromissoria, le parti, lungi dall’obbligarsi meramente a stipulare un successivo compromesso, si impegnano piuttosto a rimettere la soluzione delle eventuali controversie al sindacato degli arbitri. Proprio nel contesto tassonomico nel quale ha visto la luce il vigente Codice di procedura civile si viene sviluppando l’orientamento che sostiene la natura contrattuale della clausola compromissoria, il cui merito, sul piano diacronico, risiede nell’aver fugato ogni dubbio circa la sussistenza di profili pubblicistici nell’arbitrato, posto che, a differenza del processo di cognizione, il fenomeno arbitrale ha la funzione di costituire rapporti giuridici soggettivi di natura relativa, fondati, cioè, sulla dicotomia pretesa-obbligo, del tutto estranei al processo.

Un primo tentativo di negare la natura contrattuale della clausola compromissoria, fondato sul rilievo che in essa difetti il requisito della patrimonialità, non ha sortito effetti significativi, atteso che, come puntualmente argomentato, il prefato requisito è suscettibile di essere inteso in molteplici accezioni, e non è infrequente che al concetto di patrimonialità venga attribuita una latitudine talmente lata da risultare riferibile a tutti gli accordi vincolanti, da cui discendono effetti direttamente o indirettamente economici, con esclusione, pertanto, delle sole convenzioni attinenti ai rapporti familiari, o a quelli di natura strettamente personale.

Altra opzione ermeneutica contraria al riconoscimento della natura contrattuale si è soffermata non tanto sugli effetti della pattuizione, quanto sul contenuto processuale della stessa. Seguendo tale ordine di idee, infatti, si riconduce la clausola compromissoria nel novero degli accordi che, pur producendo i loro effetti nel processo, si formano prima ed a prescindere da esso, e come tali non sono pertanto regolati dalla legge processuale. Si tratta, in definitiva, di accordi di natura sostanziale ma con effetti processuali, nel senso che, attraverso la stipulazione degli stessi le parti conseguono il risultato di sottrarre la cognizione delle controversie all’autorità decisionale del giudice ordinario per attribuirla al giudice privato.

L’elaborazione della categoria dell’accordo processuale, all’indomani dell’entrata in vigore del Codice del 1942, non è certo casuale, collocandosi piuttosto nell’ambito di una più ampia riflessione, che ha visto impegnata in particolare la letteratura tedesca.

Specificatamente, nel contesto di una generale opera di rivitalizzazione dell’autonomia privata nel campo processuale, gli autori di lingua tedesca hanno concepito una summa divisio tra due categorie di accordi sostanziali incidenti sul versante processuale: ad una prima species appartengono quelle convenzioni mediante le quali le parti si assumono l’impegno ad esercitare, o più frequentemente a non esercitare determinate prerogative processuali, come accade nel caso del pactum de non petendo o del pactum de non exequendo. In tali ipotesi viene in rilievo un atto di disposizione del potere processuale che prende il nome di Befugnisdisposition, e che presuppone la validità e la vigenza delle norme processuali sulle quali l’atto di autonomia è destinato ad incidere. Alla seconda categoria appartengono invece le pattuizioni a mezzo delle quali le parti dispongono non già dei poteri, bensì direttamente delle norme processuali (Normdisposition), ai fini della cui validità si richiede non solo la presenza di una previsione normativa ad hoc, ma anche l’evidenziazione dei motivi concreti che sorreggono la volontà derogatoria posta dalle parti a fondamento dell’atto dispositivo. In quest’ottica appare possibile istituire un parallelismo tra il valore marcatamente sostanziale dell’autonomia privata, da un lato, e i princìpi del processo civile dall’altro, con particolare riguardo al principio dispositivo (Dispositionsmaxime) ed a quello della trattazione (Beibringungsgrundsatz). La riconduzione della clausola compromissoria al paradigma del contratto processuale è un’operazione ermeneutica di altissimo profilo, in quanto non si riduce alla semplicistica constatazione della presenza di un contenuto processuale o di effetti processuali nella convenzione arbitrale, bensì comporta la conseguenza di vedere nella clausola compromissoria un punto di giunzione tra norme sostanziali e processuali, che a sua volta si riannoda alla distinzione, cara agli studiosi di teoria generale del diritto, tra diritti sostanziali e diritti processuali. La difficoltà di tracciare una linea di confine netta tra le menzionate categorie dogmatiche emerge, ictu oculi, con riferimento alla figura juris del diritto di azione, emblematica dell’esistenza di molteplici situazioni dalla consistenza ambivalente e non facile da ricondurre agli schemi generali.

Altra dottrina, nell’affrontare il tema della natura e degli effetti della clausola compromissoria ha adottato un angolo prospettico ancor più sofisticato, che orbita attorno all’idea della flessibilità funzionale del contratto, riguardato alla stregua di uno schema teoretico capace di adattarsi alle finalità di volta in volta divisate dalle parti. Seguendo tale ordine di idee, si giunge a negare che dalla stipulazione di un contratto debba necessariamente originare una situazione giuridica riconducibile allo schema pretesa-obbligo, ben potendo dedursi come oggetto del contratto anche un fascio di situazioni giuridiche procedimentali. Tale orientamento si configura come quello più vicino alla costruzione mutuata dal nostro legislatore del 2006, attraverso la creazione della convenzione di arbitrato. Difatti, se è vero che tale impostazione non è stata spinta fino al punto di negare la natura contrattuale del patto compromissorio, è altrettanto vero che i sostenitori della tesi in commento hanno sottolineato che il negozio dal quale scaturisce l’arbitrato, non ripropone la classica contrapposizione di interessi sottostante alla vicenda contrattuale, di talché la clausola compromissoria viene ad assumere i connotati di un contratto con comunione di scopo. Quest’ultimo è rappresentato dalla comune volontà dei paciscenti di precostituire uno strumento di tutela alternativo a quello offerto dall’Autorità giurisdizionale ordinaria di matrice pubblicistica-statuale. Ne consegue, pertanto, che l’interesse volto alla costituzione di una situazione giuridica processuale concorrente con gli strumenti di tutela messi a disposizione dall’Autorità giudiziaria, assurge al rango di fondamento giustificativo autonomo e, dunque, di vero e proprio elemento eziologico dell’accordo compromissorio tra le parti.

3. L’autonomia privata unilaterale a fondamento genetico dell’arbitrato.

Alla stregua delle osservazioni che precedono, non vi è dubbio che, come dianzi accennato, l’opzione terminologica prevalsa in sede di riforma offra un argomento di grande peso ai fautori della ricostruzione anti-contrattualistica, tenuto conto, tra le altre cose, anche del peculiare substrato storico che caratterizza l’anfibologico concetto di convenzione.

Nondimeno, autorevoli voci dottrinali hanno scorto nella scelta lessicale compiuta del legislatore nel 2006 il segno della consapevolezza che la disputa in ordine alla sussumibilità della clausola compromissoria all’interno dello stampo contrattuale avesse assunto i tratti di un dibattito teorico privo di apprezzabili implicazioni concrete. All’uopo si evidenzia, infatti, che, anche a voler negare il carattere contrattuale del patto compromissorio, non solo si ricadrebbe nella necessità di fare ricorso ad una farraginosa ricostruzione teorica, implicante la presenza di un fascio di atti negoziali unilaterali tra loro combinati, ma soprattutto non si determinerebbe alcuna conseguenza di rilievo sul versante della disciplina applicabile, giacché troverebbe comunque operatività il panorama normativo disciplinante il contratto, e ciò in virtù della vis expansiva rinveniente dalla formulazione dell’art. 1324 c.c., che estende la portata delle norme regolanti il fenomeno contrattuale ai negozi unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale.

In realtà, le conclusioni appena rassegnate sollecitano una revisione critica degli elementi costitutivi della clausola compromissoria, liberando gli interpreti italiani da ipoteche concettuali che, benché radicate nel tempo, non consentono un’adeguata comprensione del fenomeno arbitrale, determinando, altresì, un non auspicabile isolamento dell’Italia nel panorama giuridico internazionale. In definitiva, è giunto il momento di prendere atto che l’esistenza di un accordo devolutivo tra le parti della controversia risponde all’id quod plerumque accidit, ma non identifica un requisito ontologicamente necessario del fenomeno arbitrale.

Ne scaturisce che la genesi dell’arbitrato può risiedere anche in una fonte unilaterale, come il testamento, ovvero l’atto costitutivo di una società unipersonale o l’atto di destinazione ex art. 2645 ter c.c.. Ciò schiude l’orizzonte alla possibilità che la fonte dell’arbitrato sia addirittura eteronoma, aprendo il varco all’ammissibilità dell’arbitrato ex lege, figura che dottrina e giurisprudenza interna hanno sempre avversato, a fronte delle ripetute pronunce favorevoli delle Corti sovranazionali e della diffusione della stessa in molti Stati europei.

In tal senso milita la funzione giurisdizionale che l’arbitrato è chiamato a svolgere, in virtù dell’attuale formulazione dell’art. 824 bis c.p.c., e della tesi giurisprudenziale ormai attestante la natura giurisdizionale del lodo, che si pone in termini sostitutivi, e quindi equivalenti, rispetto alla giurisdizione statuale. Né tale circostanza svilisce tout court il ruolo dell’autonomia privata, atteso che l’imposizione eteronoma dell’arbitrato non esclude la possibilità di una sua regolazione convenzionale, con la conseguenza che anche in siffatta ipotesi avrebbe senso stipulare una convenzione arbitrale.

II. LO SCOPO STRUMENTALE DELL’INDAGINE COMPARATISTICA: IL RAGGIUNGIMENTO DEL COMMON CORE DELLA DISCIPLINA.

Nell’affrontare il tema del fenomeno arbitrale è imprescindibile misurarsi con l’esperienza comparatistica, come dimostra il costante ricorso al relativo metodo che ha caratterizzato nel tempo non solo l’approccio della letteratura scientifica, ma anche quello del formante pretorio, essendo indiscutibile che in molti arresti della giurisprudenza la chiave di volta per risolvere i problemi ermeneutici del caso concreto è stata evinta proprio dal confronto con le soluzioni adottate negli ordinamenti stranieri in relazione all’annoso problema della natura e degli effetti da ricondurre alla pronuncia del lodo arbitrale. Né la necessità di ricorrere al metodo comparativo poteva essere ignorata dal legislatore in sede di riforma, tant’è che gli interpreti, nel commentare la nuova formulazione dell’art. 824 bis c.p.c., e, più in generale, le novità apportate con la novella del 2006, hanno rimarcato la volontà legislativa di allineare l’ordinamento interno al panorama internazionale. Indiscutibilmente il metodo comparatistico da sempre “offre l’occasione per ulteriori ricerche dottrinali le quali, muovendo dallo studio della nostra storia giuridica, intendano riflettere sull’ individuazione del quid comune del quid diverso del fenomeno arbitrale permanendo l’attenzione per una continua ricerca ed attualizzazione sul “common core” presente negli ordinamenti vigenti” così da realizzare la “liberazione dal provincialismo e contribuire tra l’altro alla facilitazione degli scambi economici internazionali”.

1. Cenni di diritto dell’arbitrato in Francia.

L’indagine comparatistica non può che inizialmente muovere dalla disamina dell’ordinamento francese, tenuto conto della significativa influenza che il modello giuridico transalpino ha da sempre esercitato sull’ordinamento italiano, nonché della leadership mondiale che il diritto francese ha assunto nella materia dell’arbitrato, da sempre contraddistintosi in senso pionieristico. L’attuale assetto normativo costituisce il precipitato della riforma adottata nel 2011, salutata unanimemente con favore dalla dottrina, che ha scorto in essa un’efficace sintesi tra tradizione e innovazione. L’intervento del 2011, infatti, pur introducendo alcune novità, non ha segnato un momento di drastica discontinuità con le scelte di fondo sedimentate già dagli anni ‘80, a partire dalla conferma del modello dualista, incentrato sulla previsione di un duplice regime, dedicato, rispettivamente, all’arbitrato interno ed a quello internazionale. Molti dei profili di novità, peraltro, hanno rappresentato la consacrazione, a livello normativo, di soluzioni abbondantemente sperimentate in seno alla prassi applicativo-giurisprudenziale.

Nell’ordinamento francese, al di là della necessità di sceverare ex ante tra la pronuncia arbitrale in senso stretto e le altre decisioni adottate all’esito di procedure similari, ma non sovrapponibili all’arbitrato, è possibile distinguere ben tre tipologie di lodi arbitrali, rispetto ai quali il discrimen è costituito dall’estensione degli interessi dedotti come oggetto della controversia. Ergo, oltre alla dicotomia tra arbitrato interno, relativo alle pronunce rese all’esito di una controversia avente ad oggetto interessi puramente domestici, e arbitrato internazionale, ricorrente allorquando la decisione incida su interessi afferenti al commercio transnazionale, il diritto francese offre altresì un tertium genus di pronuncia arbitrale, consistente nella sentenza arbitrale resa all’estero, o, rectius, emessa all’esito di una procedura di arbitrato la cui sede territoriale sia stata fissata fuori del territorio della Repubblica francese.

La disciplina degli effetti riconducibili alla decisione arbitrale, con riferimento all’arbitrato interno, si arguisce dal combinato disposto degli artt. 1484 e 1485 del Code civil, dalla cui lettura gli interpreti traggono l’operatività del principio di dessaisissement, da intendersi alla stregua di un effetto consumativo rispetto alla cognizione degli arbitri, che restano dunque vincolati alla statuizione resa in ordine alla questione oggetto di contestazione ad opera delle parti.

Al fine di comprendere adeguatamente l’effetto della decisione arbitrale occorre attentamente analizzare la portata che il concetto di cosa giudicata assume nell’ordinamento francese, il che vale tanto per la decisione resa dagli arbitri quanto per quella emessa dall’Autorità giudiziaria. L’esperienza giuridica francese, infatti, ignora la distinzione tra giudicato formale e sostanziale, che rappresenta, invece, un vero e proprio topos della tradizione italiana.

L’autorité de la chose jugée nel diritto francese appare, ex adverso, come un effetto-attributo solo provvisoriamente prodotto dalla decisione, suscettibile di essere revocato in dubbio mercé il ricorso ai mezzi di impugnazione; basti osservare, al riguardo, che, a mente dell’art. 561 del code de procédure civile “L’appel remet la chose jugée en question devant la chose juridiction d’appel pour qu’il soit à nouveau statué en fait et endroit”. Ne deriva la necessità di operare un distinguo sul piano concettuale, totalmente sconosciuto all’esperienza italiana, tra il passaggio in force de chose jugée, correlato al venir meno dell’esperibilità dei c.d. mezzi di impugnazione sospensivi, e l’acquisizione del carattere dell’irrevocabilità della sentenza, la statuizione giudiziale divenendo irrevocable solo allorquando non siano più proponibili tutti gli altri mezzi di impugnazione.

La peculiarità fenomenologica consiste, dunque, nell’affiancare all’autorità di cosa giudicata au principal, che arride ad una statuizione idonea a dettare una disciplina immutabile del rapporto giuridico controverso, un’autorità au provisoire. Tale qualitas è relativa ad un provvedimento che, da una parte, è portatore di una tendenziale stabilità, assimilabile alla figura del giudicato cautelare, e, dall’altra, non è tuttavia tale da vincolare il giudice, potendo essere rimesso in discussione laddove venga in rilievo una metamorfosi delle circostanze divisate al momento della decisione, come accade, ad esempio, per le ordinanze di référé, contrassegnate da spiccati tratti di interinalità. Pertanto, il lodo, così come la sentenza resa dal giudice ordinario, presenta, al momento della sua emanazione, un’autorità di cosa giudicata solo provvisoria, destinata a divenire definitiva solo al venir meno degli ordinari mezzi di reazione processuale. Inoltre, l’esecutività del lodo è subordinata all’emissione di un’ordinanza di exequatur, di competenza del tribunal de la grande instance, che giunge all’esito di una procedura non caratterizzata dal contraddittorio, potendo il collegio pronunciare inaudita altera parte, e che postula, altresì, uno scrutinio di compatibilità con il principio di ordine pubblico della decisione arbitrale.

Il sistema processuale civile francese contempla una disciplina unitaria per “il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali emanate all’estero e di quelle in materia di arbitrato internazionale”.

Entrambe le categorie di lodi sono assoggettate al riconoscimento da parte del tribunal de la grande instance, quantunque le decisioni emesse all’esito di arbitrati internazionali, aventi sede in Francia, producano, fin dal momento della loro emanazione, l’acutoritas rei iudicatae; contraddizione, quest’ultima, che non è sfuggita all’occhio critico della dottrina d’Oltralpe.

In disparte i rilievi circa la coerenza sistematica della sua previsione, il subordinare il lodo arbitrale alla procedura di riconoscimento, e, dunque, in definitiva, al vaglio circa la conformità dello stesso all’ordine pubblico, significa rendere possibile una contestazione dell’ingiustizia sostanziale di una statuizione che ha già acquisito l’autorità di cosa giudicata, il che evidentemente non è consentito in relazione alla sentenza. La pronuncia giudiziale, infatti, una volta verificatosi il passaggio in giudicato, non può più essere rimessa in discussione, nemmeno laddove si appalesino profili di contrasti della stessa con l’ordine pubblico.

Alla luce del panorama normativo sommariamente delineato, la comunità degli interpreti in Francia si è posta il problema della natura e degli effetti del lodo arbitrale, dando vita ad un discussant che, pur non assumendo la portata che lo stesso interrogativo ha acquisito nell’esperienza italiana, non ha mancato di far emergere un’interessante poliedricità ricostruttiva. In particolare, l’impostazione prevalente arguisce dalla formula dell’art. 1484 del Code una perfetta equivalenza tra decisione arbitrale e pronuncia giudiziale, quantomeno sotto il profilo degli effetti di tali statuizioni, tra le quali si ravvisa, pertanto, una perfetta sovrapponibilità. Si registra dunque una sostanziale concordia degli studiosi nel senso di una ricostruzione dell’arbitrato in termini quantomeno para-giurisdizionali, con conseguente equiparazione del lodo alla sentenza e, quindi, dell’arbitro privato al giudice togato: di talché, mediante la clausola compromissoria le parti realizzano la sostituzione del primo al secondo.

Nondimeno, è sufficiente spostare il piano dell’indagine dal profilo effettuale a quello della natura del lodo, per rendersi agevolmente conto dell’esistenza di molte sfumature di pensiero, all’interno delle quali maturano significativi distinguo tra la decisione arbitrale e la pronuncia giudiziale. Basti rilevare, al riguardo, come molti scholars transalpini puntualizzino la differenza che investe la fonte del potere decisionale attribuito, rispettivamente, agli arbitri privati ed al giudice ordinario. Ed invero, mentre l’Autorità giudiziaria “relève d’un service public”, l’attività posta in essere dagli arbitri presenta un carattere privato, non avendo alcun “lien organique avec le détenteur de la souveraineté, ne s’insère dans aucun ordre préétabliet jouit d’une parfaite autonomie”.

Una significativa conferma della necessità di operare tale distinzione viene tratta dalla previsione normativa che non riconosce al collegio arbitrale la legittimazione a sollevare questioni di costituzionalità in via principale; previsione, quest’ultima, che la dottrina estende a livello interpretativo anche alla possibilità di proporre rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia europea ex art. 267 T.U.E. Secondo molti interpreti, le previsioni in commento possono giustificarsi solo negando la natura giurisdizionale del collegio arbitrale, che, per contro, deve essere considerato alla stregua di una justice privée d’origine conventionnelle.

Ne deriva, secondo la migliore letteratura d’Oltralpe, che una valutazione sistematica del formante normativo impone di tenere nettamente distinti i profili attinenti, rispettivamente, alla natura e agli effetti dell’arbitrato. Seguendo tale ordine di idee, si giunge a scorgere nell’istituto arbitrale una sorta di Giano bifronte, nel senso che, mentre l’origine dell’arbitrato presenta carattere contrattuale, dallo stesso discendono effetti di natura giurisdizionale. D’altra parte, i più acuti interpreti evidenziano come il riconoscimento del carattere giurisdizionale della pronuncia resa all’esito di una procedura arbitrale non comporti necessariamente un’equiparazione del lodo alla sentenza, essendo anzi perfettamente possibile ipotizzare una specificità del lodo rispetto alla sentenza emessa dall’Autorità giudiziaria statuale. La menzionata specificità, d’altronde, non costituisce una mera elucubrazione teorica, essendo sufficiente anche un esame superficiale del panorama normativo per avvedersi che lo stesso è disseminato di tracce della peculiarità del lodo arbitrale. Si pensi, ad esempio, già al profilo strutturale della pronuncia, tenuto conto che, come riconosciuto dalla stessa giurisprudenza, la soluzione della lite non deve essere necessariamente scolpita nel dispositivo, essendo sufficiente che la stessa sia enunciata chiaramente nell’ordito motivazionale. Tale peculiarità viene valorizzata dagli studiosi, secondo i quali essa non può essere ridotta ad un mero orpello stilistico, dal momento che la ratio del minor rigore formale nella tecnica di redazione del provvedimento si riannoda direttamente all’origine contrattuale dell’arbitrato.

2. I sistemi monisti: panoramica delle soluzioni adottate in Belgio, Spagna e Brasile.

L’ordinamento belga aderisce, come la maggior parte degli orditi giuridici continentali, all’impostazione monista, in virtù della quale non viene operata alcuna distinzione tra arbitrato interno e internazionale. La dottrina belga concepisce il lodo come un acte de juridiction privée, dotato di tutti gli attributs tipici della sentenza statale (che prende il nome di jugement), con l’unica eccezione dell’efficacia esecutiva. Tuttavia, l’assimilazione tra lodo e sentenza, che una parte degli interpreti intende come un’acquisizione ormai definitiva e non più revocabile in dubbio nell’ordito belga, viene da altra dottrina utilizzata cum grano salis, non mancando, a giudizio di numerosi autori, caratteristiche peculiari, della pronuncia arbitrale, proprio in virtù delle quali si afferma anche in Belgio la tesi predicativa della natura autonoma dell’arbitrato rispetto alla sentenza giudiziaria. Né risulta estranea al panorama concettuale territoriale l’ulteriore impostazione, che scorge nell’arbitrato un istituto intermedio tra la convenzione jure privatorum e la vera e propria pronuncia giudiziale, nello specifico senso che il fenomeno arbitrale, pur presentando un’indubbia mission juridictionnelle, origina pur sempre da una fonte pattizia.

In particolare, similmente a quanto già rilevato in relazione al modello francese, l’autorità di cosa giudicata, tanto del lodo quanto della sentenza, si presenta “conditionelle”, nel senso che tale effetto, pur producendosi fin dall’emanazione della sentenza e dalla comunicazione del lodo alle parti, appare nondimeno subordinato all’esaurimento dei mezzi di impugnazione. Né può trascurarsi che l’orientamento dominante neghi che l’autorità di cosa giudicata del lodo possa essere invocata ultra partes, essendo controverso se al lodo possa attribuirsi il diverso carattere della opposabilité nei confronti dei terzi; ex adverso, si registra una sostanziale concordia nel ricondurre al lodo la produzione di effetti, latu sensu, probatori verso i terzi.

L’attuale assetto del formante normativo spagnolo in materia di arbitrato compendia un lungo iter evolutivo, culminato con l’emanazione della Ley n. 11/2011 del 20 maggio 2011, innestatasi, a seguito di una laboriosa gestazione, testimoniata anche dall’interesse che gli autori spagnoli hanno dedicato all’esame dei lavori preparatori, sul tronco della Ley de Arbitraje (LA) n. 60 del 23 dicembre 2003. Anche l’ordinamento spagnolo pare aderire, in termini generali, all’impostazione monistica nella strutturazione della disciplina dell’arbitrato, sebbene non manchino disposizioni ad hoc per l’arbitrato internazionale.

Con specifico riguardo al lodo, va subito valorizzata l’attribuzione agli arbitri del potere di emanare anche lodi parziali, nel cui ambito sono ricomprese non solo statuizioni che definiscono una parte soltanto della regiudicanda, in quanto relative a singole domande o eccezioni, ma anche strumenti di tutela anticipatoria ed interinale di natura cautelare.

Alla riforma del 2011 va sine dubio ascritto il merito di aver fatto chiarezza circa gli effetti del lodo, avendo il legislatore definitivamente chiarito che produce quelli propri della res iudicata, sin dal momento della sua emanazione, con la conseguenza, finora molto dibattuta in letteratura, che non solo la revisiòn, ma anche la accion de anulaciòn devono essere qualificate come veri e propri mezzi per impugnare la firmeza prodotta dal lodo.

Un elemento di peculiarità della legislazione spagnola in tema di arbitrato concerne, senza dubbio, il profilo dell’efficacia esecutiva, atteso che, mentre nella maggior parte dei sistemi giuridici l’esecutività del lodo è subordinata all’ottenimento di una pronuncia di omologazione da parte dell’autorità giudiziaria statuale, in Spagna il lodo è esecutivo ab origine.

Anche in questo paese si registra un acceso dibattito circa la natura del provvedimento decisorio, in seno al quale si apprezza la riproposizione della frattura ermeneutica tra quanti sostengono la tesi del carattere giurisdizionale del lodo e quanti, per contro, concepiscono l’intero fenomeno arbitrale, e quindi anche la decisione, in termini schiettamente privatistici.

Meno netta appare, per contro, la posizione della law in action, in seno alla quale, probabilmente in considerazione dell’approccio casistico che caratterizza l’intervento pretorile, si apprezza una ricostruzione intermedia, volta a configurare il lodo come un tertium genus tra contratto e pronuncia giurisdizionale. Si tratta, in sostanza, di un orientamento ispirato alla tesi degli equivalenti giurisdizionali, tesi che, peraltro, è stata preconizzata nel panorama dottrinale italiano dagli autorevoli studi condotti in merito.

Non dissimili appaiono le conclusioni cui perviene il Tribunal Supremo, sovente impegnato nell’arduo compito di tracciare l’esatto perimetro degli effetti che il lodo esplica nei confronti dei terzi.

Il Portogallo vanta una lunghissima tradizione per quanto riguarda gli strumenti di negoziato che a suo tempo ha perpetuato anche nell’America del Sud presso i popoli sotto la sua diretta influenza. Sino alla fine dell’Ottocento la conciliazione era obbligatoria e la stessa Costituzione portoghese del 1826 prevedeva la condizione di procedibilità. La legge 19 aprile 2013 n. 29 ridisegna tutto il settore della mediazione nel Paese, innovando la precedente disciplina risalente al 1986 con la legge n.31 del 29 agosto. La norma stabilisce in particolare i princìpi generali applicabili alla mediazione condotta in Portogallo, così come i regimi giuridici della mediazione civile e commerciale, del mediatore dei conflitti e del sistema pubblico di mediazione già abbozzato peraltro nella pregressa legislazione.

L’esame delle soluzioni adottate nell’ordinamento brasiliano in materia arbitrale è segnalato dalla migliore dottrina come un’operazione ermeneutica altamente proficua, sia sul piano metodologico che sotto il profilo dei contenuti sostanziali, tenuto conto che in Brasile, all’esito di un incisivo percorso di riforme, l’ordinamento ascrive al lodo i medesimi effetti della sentenza statale, non menzionando tuttavia l’idoneità dello stesso a produrre gli effetti del giudicato sostanziale.

Dalla configurazione che il formante normativo è venuto assumendo negli anni, gli interpreti brasiliani desumono il carattere autenticamente giurisidizionale della pronuncia resa dagli arbitri: tale statuizione, infatti, essendo suscettibile di acquisire l’auctoritas rei iudicatae, per effetto della mancata proposizione nel termine ação anulatoria, ovvero del rigetto della relativa domanda, disvela, a parere della communis opinio doctorum, un fondamento pubblicistico e giurisdizionale pieno.

Così opinando si assiste al superamento della tesi degli equivalenti giurisdizionali, che pure continua ad essere sostenuta da una corrente minoritaria degli studiosi. Peraltro, gli autori brasiliani, anche all’indomani della ambigua riformulazione dell’art. 467 del Codice di rito civile, concepiscono la cosa giudicata materiale non già come un autonomo effetto della pronuncia, bensì come una peculiare qualità degli effetti da essa prodotti, che, con il transito in re iudicata, divengono immutabili.

In disparte i rilievi di carattere dogmatico, la tesi dominante nell’ermeneutica brasiliana ha a fondamento un ampio compendio di dati testuali, a partire dalla scelta legislativa di modificare il nomen juris della pronunzia resa dagli arbitri, con riferimento alla quale si è abbandonata la dizione di laudo, sostituendola con la locuzione di sentencia arbitral, chiaramente evocativa della perfetta sovrapponibilità tra il dictum degli arbitri e quello del giudice ordinario.

Nella medesima direzione vengono invocate l’inclusione della sentenza arbitrale tra i titoli esecutivi, la soppressione del giudizio di omologazione e le previsioni relative allo status personale e professionale degli arbitri, che ricalcano quasi in toto quello dei giudici statuali.

Pur in presenza di un fronte ermeneutico tanto compatto e consolidato nel sostenere la natura giurisdizionale dell’arbitrato, non mancano in Brasile voci dissonanti, che negano la perequazione tra arbitrato e sentenza ponendo in rilievo, ancora una volta, la profonda differenza che investe la fonte della potestà decisionale attribuita agli arbitri, consistente nella volontà delle parti e non nell’autorità imperativa della legge. Né sfugge all’attenzione degli interpreti la limitata valenza che la decisione arbitrale assume nei confronti dei terzi, la cui sfera giuridica soggettiva resta sostanzialmente insensibile rispetto alla statuizione pronunciata dagli arbitri inter alios.

Quanto al profilo della stabilità dell’accertamento contenuto nella statuizione arbitrale, una isolata impostazione dottrinale configura il lodo come un minus rispetto alla sentenza resa dall’autorità giudiziaria, in quanto il primo, a differenza di quest’ultima, è soggetto ad una più ampia gamma di ipotesi di inesistenza, azionabili dalla parte interessata innanzi al giudice togato sine die, che, secondo tale ordine di idee, inducono a scorgere nella decisione arbitrale una norma jurídica individual de origem privada, non assimilabile tout court alla sentenza.

III. IL MODELLO TEDESCO E IL CASE STUDY PECHSTEIN: OPERATIVITÀ DELLA CLAUSOLA COMPROMISSORIA, PUR IN PRESENZA DI PROFILI DI INVALIDITÀ, IN AMBITO SPORTIVO.

Per una visione olistica si rende necessaria una comparazione sincronica con l’ordito teutonico al fine di procedere all’analisi complessiva in materia di clausola compromissoria: un raffronto che risulta molto peculiare sia a livello generale, e che offre un interessante spunto di riflessione in ambito sportivo.

Prodromicamente, si rimarca il principio secondo il quale l’ordinamento tedesco riconosce ampi poteri all’autonomia negoziale privata nel ricorrere a mezzi alternativi di risoluzione delle liti. L’arbitrato è senza dubbio uno di essi, considerato come una sorta di private Gerichtbarkeit (giurisdizione privata), che ritrova il proprio ubi consistam nell’accordo arbitrale stipulato dalle parti, le quali ai sensi della Costituzione tedesca, possono rinunciare all’accesso al tribunale statale in virtù della loro autonomia negoziale. La convenzione arbitrale, secondo buona parte della dottrina, si configura come un accordo sul processo der Prozessvertrag.

Il contenuto di tale convenzione perimetra poteri e limiti dell’attività degli arbitri, le cui pronunce (lodi) hanno il medesimo effetto di una sentenza. Se è libera la scelta, da parte dei postulanti, del luogo ove si svolgerà l’arbitrato, le norme processuali saranno, invece, desunte dalla lex locii arbitrii mitigata dai princìpi già stabiliti da convenzioni internazionali (es. UNCITRAL). Le parti possono stabilire anche il tribunale arbitrale al quale rivolgersi, tra i quali si annovera l’American Arbitration Association, il DIS (l’istituzione tedesca per l’arbitrato) e soprattutto il più noto, ICC (International Chamber of Commerce).

Nella fase di avvio del procedimento innanzi all’ICC la parte attrice, nel depositare la petenza, versa (diversamente da quanto stabilito dalle ordinarie norme di diritto processuale) un acconto sulle spese di giudizio. Il collegio ha sei mesi di tempo, decorrenti dall’ultima sottoscrizione, per emettere il lodo. Sebbene i tribunali statali possano annullare i lodi arbitrali a loro vaglio, in caso riscontrino vizi o anomalie, ciò si verifica di rado, sia in virtù degli attenti controlli che i collegi operano sulle loro decisioni, sia in considerazione che la pronuncia è una espressione dell’autonomia privata la quale, come già sottolineato, gode di ampia considerazione.

Per meglio apprezzare e valutare le differenze e le relative sensibilità emergenti tra l’ordito teutonico e quello domestico in subjecta materia nell’ambito sportivo, è interessante sottolineare come i due specifici sistemi di giustizia abbiano attraversato parabole diacroniche differenti.

Quello italiano è passato da una sostanziale autonomia, a una riduzione progressiva della stessa concretizzata dalle ultime disposizioni con il più recente Codice di giustizia sportiva.

Quello tedesco invece, originariamente contraddistinto da una certa forma di autodichìa, ha poi conosciuto la disciplina statale del fenomeno allorquando gli attori del mondo dello sport, al crescere degli interessi, soprattutto economici, hanno avvertito la necessità di “sottrarsi” ad un controllo meramente endogeno da parte delle federazioni, per potersi affidare anche agli organi giurisdizionali di natura statale, in astratto maggiormente garantisti.

Le differenze tra le due visioni ad opera dei rispettivi sistemi di giustizia possono essere rimarcate dall’analisi del caso Pechstein. I fatti sono noti e si dipanano lungo circa un decennio di ricorsi e appelli a seguito di una squalifica per doping della pattinatrice. Il nodo gordiano, per quanto attiene alla nostra analisi, non ruota intorno al fenomeno del doping e alla relativa squalifica, ma piuttosto al destino teleologico e alla validità della clausola compromissoria che l’atleta aveva dovuto sottoscrivere nel momento in cui firmava per il suo tesseramento alla Federazione Pattinaggio tedesca, necessario per l’iscrizione e la partecipazione alle competizioni nazionali ed internazionali. Questa clausola è stata oggetto di analisi da parte del Tribunale di Monaco in prima istanza ed in appello fino ad essere portata all’attenzione della BGH (Zulassung der Revison), ultimo grado di giudizio della giurisdizione ordinaria. Prima facie dichiarata non valida, a seguito dell’abuso di posizione dominate assunto dalla Federazione e, in secondo e terzo grado, “riabilitata” alla luce delle garanzie che il collegio arbitrale, da questa previsto, in ogni caso offriva. Sebbene da questa clausola fossero derivate delle compressioni ai diritti della difesa dell’atleta, la Corte riconosceva che tali limiti gravavano anche sulla Federazione e, in cambio, si beneficiava di un collegio che offriva garanzie di celerità e terzietà. La Suprema Corte tedesca, nell’argomentare in ordine alla validità di tale clausola, ha incentrato il proprio iter logico-giuridico sul canone della buona fede, evidenziando, da un lato, che l’atleta, al momento della stipulazione del contratto, era perfettamente consapevole dell’esistenza di una posizione sostanzialmente monopolistica in capo all’ISU (International Skating Union), e, dall’altro, che la posizione dominante in sé non è un dato patologico, fintanto che non emergano elementi sintomatici di un abuso di tale posizione. Last but not least, rilevava l’alta considerazione che, come già detto, l’ordinamento tedesco riconosce all’autonomia privata, della quale il compromesso era un ovvio prodotto.

Le discrasie con l’ordinamento domestico rilevano soprattutto nella fase finale dell’intero iter procedimentale. In Italia, da tempo molto attenta ai diritti fondamentali, soprattutto della parte contraente “debole”, alla quale si potrebbe associare la figura del tesserato rispetto alla relativa federazione, avrebbe, molto probabilmente, ricevuto un trattamento diverso e, forse, ne sarebbe stata declarata l’invalidità.

Per esigenza di esaustività, va riportato che la vicenda giudiziara ha avuto un epilogo presso la CEDU, la quale l’ha riconosciuta compatibile con l’art. 6 della Convenzione, allorquando si ravvisi uno scopo legittimo e vi sia proporzionalità di mezzi impiegati e scopo perseguito.

IV. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE: I LIMITI DI EFFICACIA DELL’ARBITRATO E LA NECESSITÀ DI RIFONDARE IL GIUDIZIO DI MERITEVOLEZZA, IN PROPORZIONE AL CONTENUTO CONTRATTUALE. IL CONTRIBUTO ERMENEUTICO DOMESTICO INFLUENZATO DALLA DISCIPLINA CONSUMERITISCA.

L’analisi del panorama normativo e dottrinale italiano, in rapporto alle variegate soluzioni concepite negli ordinamenti stranieri, dovrebbe rendere chiaro come la chiave ermeneutica fondamentale per risolvere i dubbi che si addensano sull’istituto della clausola compromissoria sia disciplinata da un’actio finium regundorum che consenta di individuare l’esatto perimetro del giudizio di meritevolezza, al quale la clausola de qua va assoggettata.

La quaestio iuris, in sostanza, consiste nello stabilire se il sindacato sulla meritevolezza di una determinata operazione negoziale involga o meno il profilo dell’equilibrio contrattuale. Al riguardo, è noto che, nell’impostazione originariamente assunta dall’ordito codicistico, l’equilibrio si presentava come una nozione normativa, che non involgeva l’assetto concreto del regolamento di interessi divisato dalle parti. Queste ultime, infatti, erano considerate come i migliori (ed unici) arbitri dei propri interessi, di talché l’equilibrio raggiunto dalle stesse, all’esito delle trattative e trasfuso nel contenuto del programma contrattuale, era considerato pressocché intangibile, salve ipotesi eccezionali, nelle quali il legislatore prendeva in considerazione percorsi formativi della volontà significativamente anomali e patologici.

Un interessante corollario della premessa sistematica appena stilata era rappresentato dal distinguo tra equilibrio oggettivo e soggettivo del contratto. Tale discrimen, infatti, era teleologicamente orientato all’affermazione secondo la quale il giudice avrebbe dovuto limitarsi a constatare l’esistenza di un equilibrio in senso soggettivo, essendo per contro radicalmente precluso all’Autorità giudiziaria ingerirsi nella valutazione dell’equivalenza tra le prestazioni oggetto dello scambio.

Come è noto, il poderoso impatto dell’esperienza consumeristica ha comportato lo sgretolamento della consolidata tesi che relegava le ipotesi di controllo sull’equilibrio oggettivo del paradigma contrattuale, a casi del tutto eccezionali, oggetto di specifiche previsioni normative, quali, ad esempio, quelle di cui agli artt. 1339 e 1815 c.c.

L’iter verso un’oggettivizzazione dell’equilibrio contrattuale ha trovato la propria consacrazione negli artt. 33 e 37 del Codice del consumo, che, già prima facie, offrono all’interprete elementi per riconoscere in capo all’Autorità giudiziaria penetranti ed incisivi poteri di sindacato in ordine all’equilibrio delle pattuizioni formanti oggetto del contratto.

Tuttavia, nessuna seria riflessione sulla tematica indagata può prescindere dalla valorizzazione delle specificità connotanti l’esperienza consumeristica, nell’ambito della quale lo sforzo ermeneutico richiesto al giudice è teleologicamente orientato a compiere un’operazione di ortopedia giuridica sul contenuto contrattuale. Ciò è finalizzato a rimuovere ex post gli squilibri determinati ex ante dalla condizione di strutturale ed ineliminabile debolezza del consumatore verso il professionista.

Né si trascuri che, in ogni caso, il sindacato giudiziale relativo ai contratti di consumo non si estende fino al punto di vagliare la congruità del prezzo, nel qual caso sarebbe stato lecito discorrere di un vero e proprio controllo sull’equilibrio economico del contratto, trattandosi, ex adverso, di un vaglio che investe l’equilibrio giuridico della vicenda negoziale. La valutazione giudiziale, dunque, non si incentra sul confronto tra il valore delle prestazioni dedotte come oggetto del contratto, bensì orbita attorno alla valutazione comparativa dei diritti e degli obblighi che trovano la propria genesi nell’accordo raggiunto dalle parti.

Ebbene, fugato ogni dubbio sulla possibilità di sottoporre financo i contratti del cosumatore ad un sindacato in ordine all’equilibrio economico del contratto, a maiori causa, al di fuori di tale specifico contesto, deve ribadirsi la vigenza del principio di libertà, declinantesi nella prestazione di un consenso libero alla stipulazione del contratto ed alla determinazione del relativo contenuto. Ne deriva, come insegna anche l’indagine comparatistica, che l’ingerenza giudiziale sul merito delle scelte economiche compiute dalle parti debba porsi come un dato eccezionale, invocabile solo in presenza di presupposti tassativamente indicati a livello legislativo, e, possibilmente, teso a tutelare non già la sfera giuridica di uno dei contraenti, bensì interessi generali, che proiettano la loro valenza ben al di là degli stipulanti.

La visione ricostruttiva appena proposta, lungi dal costituire un anacronistico retaggio del passato, appare la più conforme a rispettare le esigenze del mercato e del traffico giuridico anche transnazionale. Non v’è dubbio che l’emersione, lo sviluppo e l’istituzionalizzazione della disciplina cosumeristica abbiano generato degli equivoci circa il rilievo da attribuire all’autonomia privata, il cui ambito di esplicazione è stato in molti settori ingiustificatamente ridimensionato, ingenerando così un clima di incertezza, derivante dall’essere il contenuto contrattuale costantemente sub judice. Si impone, pertanto, un necessario ripensamento dei rapporti tra l’autonomia privata e gli altri assetti assiologici in gioco nella vicenda contrattuale, il cui bilanciamento non può comportare sempre il sacrificio del primo a beneficio dei secondi, ritenuti acriticamente meritevoli di maggior tutela.

Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca un fondamentale arresto delle Sezioni unite della Corte di Cassazione italiana in ordine all’annoso problema dell’usura sopravvenuta. L’aspetto dirompente del dictum in commento si appunta sull’esclusione sia della nullità che di qualsivoglia altra patologia del contratto di mutuo divenuto usurario successivamente al momento della stipula. Tale decisione emblematica, pertanto, si colloca lungo una linea di convergenza con la pronuncia della Suprema Corte tedesca del caso Pechstein, e sembra aprire il varco ad una visione più liberale del giudizio di meritevolezza del contratto, che implica una dequotazione del controllo sul suo equilibrio economico e la conseguente riaffermazione del principio secondo il quale il vaglio di meritevolezza investe, salvo casi eccezionali, solo il versante del bilanciamento giuridico della vicenda contrattuale.

Implementando così la prospettiva ermeneutica segnalata, ed applicandola allo specifico tema della clausola compromissoria, sembra possibile attendersi in un futuro anche prossimo, il superamento di numerosi limiti di operatività dell’arbitrato, cosicché tale istituto possa trovare maggiore applicazione sia in contesti tradizionalmente esclusi dal suo ambito previsionale, come quello testamentario, sia in settori ove già attualmente opera, come, ad esempio, quello societario e quello sportivo.

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