Le unioni omoaffettive nella L. 20 maggio 2016, n. 76.

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Autora: Francesca Carimini, Professore Associato confermato, Università degli studi del Sannio. Correo electrónico: carimini@unisannio.it

Resumen: La legge 20 maggio 2016 segna il definitivo superamento del concetto tradizionale di famiglia basato unicamente sull’unione tra un uomo e una donna e, conseguentemente, il riconoscimento di diversi modelli familiari, anch’essi meritevoli di protezione. La giurisprudenza aveva, sia a livello europeo che a livello nazionale, messo in luce le problematiche relative alla carenza di un’effettiva disciplina per le coppie omosessuali che in concreto condividevano parte della loro esistenza, senza poter vantare diritti o doveri in seno ai loro rapporti personali. Ciò ha dato inizio al travagliato iter legislativo della legge n. 76, di cui si analizzeranno i passaggi più significativi che hanno condotto all’approvazione del testo definitivo. Con riguardo alla disciplina si evidenziano le affinità e le differenze del nuovo istituto delle unioni civili rispetto a quello tradizionale del matrimonio, del quale vengono ricalcati sostanzialmente i contenuti e le finalità. Un’attenzione particolare è rivolta alla mancata previsione dell’obbligo di fedeltà ed al divieto di adozione.

Palabras claves: atto e rapporto; obbligo di fedeltà; adozione.

Abstract: The law 20 May 2016 marks the definitive overcoming of the traditional concept of family based solely on the union between a man and a woman and, consequently, the recognition of several family models, also deserving of protection. Jurisprudence had, both at European and national level, highlighted the problems of the lack of effective discipline for same-sex couples who actually shared part of their existence, without being able to boast rights or rights. duties in their personal relationships. This has ushered in the troubled legislative process of Act 76, the most significant steps that have led to the approval of the final text. With regard to discipline, the affinities and differences of the new institution of civil unions are highlighted with respect to the traditional one of marriage, of which thecontents and purposes are essentially traced. Particular attention is paid to the failure to anticipate the obligation of fidelity and the prohibition of adoption.

Key words: act and relationship; obligation of fidelity; adoption.

Sumario:
I. Lo scenario legislativo e giurisprudenziale prima della L. 20 maggio 2016, n. 76.
II. La disciplina sulle unioni civili e la attuale conformazione della “famiglia”.
III. Le unioni civili sotto il duplice profilo dell’atto e del rapporto.
IV. L’obbligo di fedeltà.
V. Il divieto di adozione.

Referencia: Actualidad Jurídica Iberoamericana Nº 11, agosto 2019, ISSN: 2386-4567, pp. 464-475.

I. LO SCENARIO LEGISLATIVO E GIURISPRUDENZIALE PRIMA DELLA L. 20 MAGGIO 2016, N. 76.

Le unioni omoaffettive hanno ottenuto un riconoscimento formale, com’è noto, con la l. 20 maggio 2016, n. 76. È proprio della richiamata disciplina che tenterò di individuare i punti maggiormente significativi, nonché di sviluppare taluni spunti di riflessione. Compito, per la verità non del tutto agevole, per due ordini di motivi: la complessità e la particolare delicatezza del tema che in questa sede ci troviamo ad affrontare unitamente al tempo limitato a mia disposizione.

Il tentativo di individuazione della ratio della disciplina di riferimento non può prescindere da talune premesse.

La prima, di tutta evidenza, riguarda il più volte ribadito superamento del modello familiare tradizionale; superamento individuabile sotto un duplice profilo. La famiglia quale organo portatore di interessi superiori a quello dei suoi membri, poiché in contrasto con i principi di libertà e democrazia che ispirano il vigente ordinamento, ha lasciato il posto ad una comunità familiare, nel cui àmbito lo svolgimento dei rapporti non può che avvenire nel rispetto delle libertà fondamentali al fine di consentire lo sviluppo della personalità di ogni singolo individuo. Questo il primo profilo. L’altro è quello del passaggio da un modello familiare di tipo esteso, ormai risalente, caratterizzato dalla convivenza di più generazioni di figli sottoposti all’autorità del capostipite – il pater familias – a quello di tipo nucleare composto dai coniugi e dai loro figli, fino poi ad arrivare ad una pluralità di “tipi”, i quali, ci offrono il panorama reale nel cui àmbito la famiglia si trova a vivere nel tempo attuale.

Modelli familiari dunque che si sono succeduti nel tempo, diversificati ed espressi dai diversi contesti sociali e nei diversi momenti storici.

La seconda volge lo sguardo al panorama sovranazionale, nel quale ormai da tempo è stato possibile costatare la suddetta diversificazione del modello familiare tradizionale a favore di nuove tipologie di rapporti. Lo scenario normativo mostra numerose ed eterogenee esperienze di riconoscimento, le quali si traducono in differenti modelli normativi. Con riguardo ai quali è possibile costatare due diverse opzioni da parte dei legislatori europei.

Alla scelta di quanti hanno adottato una parificazione assoluta tra il modello coniugale tipico e le unioni omoaffettive, estendendo a queste ultime l’istituto del matrimonio (c.d. matrimonio egualitario) si rinviene quella di coloro che, diversamente, hanno preferito introdurre fattispecie analoghe, pur tuttavia formalmente distinte. Il legislatore, in questa ultima ipotesi, ha comunque garantito il diritto di ottenere un riconoscimento solenne e formale all’unione e, ad un tempo, l’acquisizione di uno status analogo a quello coniugale.

Non v’è dubbio che un siffatto contesto normativo così consistente e diversificato a livello europeo rende, naturalmente, ancora più stigmatizzabile il comportamento (sino a poco fa inerte) adottato per contro dal legislatore italiano. Nei riguardi del quale – ed è questo un dato di fatto a tutti noto – si è ripetutamente sollecitato l’adempimento di un preciso obbligo costituzionale sia a livello interno sia a livello europeo:

Voglio rammentare a tale proposito le sollecitazioni della Corte costituzionale (rispettivamente con sentenze n. 138 del 2010, e n. 170 del 2014) che hanno esortato il Parlamento a garantire a coppie dello stesso sesso il riconoscimento e la formalizzazione dell’unione.

Non di meno la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per l’inadempimento dell’obbligazione positiva di riconoscere uno specifico quadro legale che prevedesse il riconoscimento e la tutela delle unioni omosessuali. Ad un tempo, vale sottolineare che il legislatore italiano non era tuttavia costituzionalmente obbligato all’introduzione del c.d. matrimonio egualitario; circostanza questa ribadita sia dalla Corte costituzionale sia pure dalla Corte Edu.

II. LA DISCIPLINA SULLE UNIONI CIVILI E LA ATTUALE CONFORMAZIONE DELLA “FAMIGLIA”.

È in questo complesso ed articolato quadro che si colloca la disciplina sulle unioni civili, la quale mostra non poche fragilità dovute (in parte) alla necessità impellente di trovare un compromesso politico adeguato, che ne consentisse l’approvazione. Di queste criticità tenterò di dare conto rispetto alle questioni che mi sono sembrate maggiormente significative.

Va chiarito in primis che la disciplina sulle unioni civili, ossia sulle relazioni omoaffettive, è stata congedata a séguito di un iter parlamentare travagliato nonché di un acceso scontro politico, che ha condotto entrambe le Camere ad aggirare la discussione sul merito del testo normativo per giungere alla definitiva approvazione mediante l’uso del voto di fiducia.

È obiettiva la difficoltà di commentare il testo normativo licenziato con la l. n. 76. E ciò per più di una ragione. La prima, ritengo vada ricercata nell’assenza di pronunce giurisprudenziali. Alla quale, voglio evidenziare, si contrappone un consistente interessamento da parte della dottrina. In secundis credo vada rilevato il naturale e fisiologico periodo di assestamento, che comunque segue sempre all’approvazione di una legge. Da ultimo, ma non per ordine di importanza, la prudenza che è suggerita in ragione della delicatezza della materia coinvolte.

Ho già precedentemente evidenziato, e a me sembra sia opportuno partire proprio da questa costatazione, l’avvenuto superamento del modello familiare tradizionale testimoniato da una frantumazione della categoria dogmatica di riferimento. Sì che, come è stato evidenziato, volendo metaforicamente indicare tale frammentazione, la famiglia si trasforma da isola in arcipelago. Molteplicità, pertanto, di situazioni interpersonali, aprioristicamente indefinibili, soggette a continue e plurime modificazioni. Famiglie non fondate sul matrimonio, famiglie monoparentali, famiglie allargate e ricomposte, unioni omosessuali, famiglie adottive, famiglie affidatarie e molte altre ancora.

III. LE UNIONI CIVILI SOTTO IL DUPLICE PROFILO DELL’ATTO E DEL RAPPORTO.

Passiamo ora all’esame del testo legislativo. La legge – costituita da una confusa sequenza di 69 commi in un unico articolo (e questo a me sembra vada messo in evidenza, poiché la pessima redazione del testo normativo genera più di una difficoltà all’interprete), – titolata Regolamentazione delle unioni civile tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze, trae origine da esigenze diverse, perché nella realtà sociale la richiesta di una disciplina della famiglia di fatto proveniva soprattutto da chi non aveva a disposizione uno strumento alternativo per regolare il proprio rapporto, cioè le coppie omosessuali. Di qui la necessità: da un lato di riconoscer a queste ultime il diritto di contrarre matrimonio oppure di introdurre un istituto, l’unione civile, appunto, che consentisse quella regolamentazione; dall’altro di dettare una disciplina meno incisiva sulla convivenza aperta a tutte le coppie allo scopo di non violare la libera scelta dell’individuo di organizzare la propria vita.

Uniformemente al corpo normativo relativo al matrimonio, non v’è traccia, nella legge, di una disposizione che possa offrire una definizione dell’unione civile, la quale, peraltro, può qualificarsi «relazione ufficializzata di natura affettiva, intercorrente tra due persone dello stesso sesso, che si estrinseca in una convivenza, connotata da un comune progetto di vita e dalla assistenza reciproca materiale e morale».

Le unioni civili condividono con il matrimonio i tratti essenziali, sia per quanto riguarda il momento costitutivo (c.d. profilo dell’atto), sia per ciò che concerne la relazione interpersonale (profilo del rapporto).

Ritengo opportuno soffermarmi sul comma 20 (quale punto di partenza), il quale sancisce l’applicabilità all’unione civile di tutte le disposizioni (escluse quelle relative all’adozione) che si riferiscono al matrimonio o che contengano la parola “coniuge”. Mentre, con riguardo al codice civile, soltanto le norme espressamente richiamate.

Ed è su due profili che ritengo di particolare interesse che intendo soffermarmi. Mi siano consentite tuttavia soltanto poche precisazioni di carattere generale, ma tuttavia significative.

Una prima osservazione è che nella legge non compare mai il sostantivo “famiglia” se non sporadicamente (mi riferisco ad esempio al comma 12, a norma del quale le parti concordano l’indirizzo della vita “familiare”); semmai il legislatore ha preferito parlare di “bisogni comuni”. L’impressione a detta di molti è quella che la legge ha voluto compiacere quanti vorrebbero il termine “famiglia” riferito esclusivamente a quella fondata sul matrimonio. In senso contrario, tuttavia, si potrebbe rilevare che il legislatore interno ed europeo fa nel tempo attuale riferimento ad una pluralità di modelli familiari entro i quali trovano agevole collocazione anche le unioni civili.

L’unione civile come atto, nella sostanza, diverge in modo relativamente limitato rispetto al matrimonio (mi riferisco ovviamente a quello civile); ed è anche singolare che la legge non preveda il contenuto della dichiarazione da rendere all’ufficiale di stato civile. Le differenze più rilevanti riguardano – e qui procedo velocemente – la mancanza di un istituto analogo alla promessa di matrimonio, e l’assenza delle pubblicazioni; inoltre è assente una disposizione normativa analoga all’art. 112 cod. civ. che consenta il rifiuto del pubblico ufficiale in difetto dei presupposti di legge, con possibile dubbio di legittimità costituzionale.

Analogo al matrimonio è altresì il regime di invalidità, con l’unica diversità del mancato richiamo, in tema di errore, all’art. 122, n. 1, cod. civ., che considera essenziale anche quello sull’esistenza di una anomalia o deviazione sessuale. Questo ultimo rilievo suscita più di una perplessità con riguardo allo spirito della legge, pur tuttavia mi limito a porre sul tappeto la questione senza tuttavia entrare nel merito di essa. Certo è che una simile scelta da parte del legislatore deve indurre a riflettere sul punto e ad interrogarsi sullo spirito della legge, la quale, a detta di molti, è soltanto un “contentino” nei confronti di una esigenza alla quale non si poteva più negare udienza ed ingresso nel sistema normativo.

IV. L’OBBLIGO DI FEDELTÀ.

I profili di indagine che emergono dallo studio della recente legge di cui ci stiamo occupando sono molteplici e tutti degni di una particolare attenzione. In questa sede tuttavia ho operato una scelta a monte che mi ha suggerito la trattazione di due temi di particolare interesse. Non v’è, come è ovvio la velleità di offrire, con riguardo ad essi, soluzioni certe; è invece mia intenzione suggerire spunti di riflessione critica e, non di meno porre sul tappeto qualche provocazione. Mi riferisco, precisamente, alla mancata previsione del obbligo di fedeltà con riferimento appunto alle unioni omoaffettive da un lato; e al divieto di adozione dall’altro.

Iniziamo con la prima questione. L’obbligo di fedeltà, appunto. È stato eliminato dalla disciplina delle unioni omosessuali uno dei doveri che, a detta di molti, fondano il nucleo essenziale del legame affettivo; quello tradizionalmente più percepito e, non a caso, più sollecitato in sede di pronuncia di addebito. Secondo alcuni si è operata una sorta di “desessualizzazione” della relazione omosessuale (la quale sta a sottintendere una implicita valutazione di promiscuità) e di qui, conseguentemente, una gerarchia tra legami affettivi che non trova alcun riscontro giuridico nei principi fondamentali. Per dirla in altri termini una mera e (assai) discutibile opzione ideologica. Il maxiemendamento, dunque, approvato dal Senato in data 25 febbraio 2016 ha operato lo stralcio dell’obbligo di fedeltà : ciò non è senza conseguenze. Nell’attuale contesto socio-familiare è in corso da tempo una evoluzione della giurisprudenza in materia di divorzio, in base alla quale la fedeltà nel matrimonio non è più intesa in senso esclusivamente sessuale, ma come l’obbligo più complesso di non violare la fiducia del partner, dovendosi preliminarmente valutare se il rapporto a due non si fosse già, prima dell’infedeltà sessuale, esaurito o svuotato di contenuti. Il legislatore, sottacendo dell’obbligo di fedeltà tra i partner dell’unione, è intervenuto nel cuore dell’affectio e del rapporto solidale che è alla base della comunione di vita in cui si incarna ogni autentico rapporto di coppia, adombrando ancora il tentativo infruttuoso di confinarne – quantomeno prima facie – la disciplina in una sorta di apparente ghetto giuridico-relazionale. Quel che risalta con più evidenza è il significato simbolico dell’omissione, operata nell’apparente non consapevolezza delle pronunce della Suprema Corte che hanno ribadito come l’obbligo di fedeltà sia volto a garantire la comunione di vita tra i coniugi, mentre la sua violazione è prova della rottura dell’irripetibile rapporto di fiducia tra i coniugi e del deterioramento dell’accordo e della stima reciproca e come tale obbligo costituisca un “impegno globale di devozione” e la base della “comunione spirituale”. I doveri enunciati dall’art. 143 cod. civ., come riformato dalla novella del 1975, sembrano essere il portato del generale impegno alla reciproca solidarietà ed espressione della comunione affettiva, spirituale, materiale su cui si fonda lo stesso vincolo. Come ha affermato Corte di merito, eliminando l’obbligo di fedeltà il modello di vita in comune ‘semplicemente non è riconoscibile come famiglia’, mentre la Cassazione successivamente adita dal coniuge tradito confermava la primazia da attribuirsi all’unione spirituale che esclude gli episodi di adulterio. Infranto il vincolo di fedeltà, secondo taluno, viene a nullificarsi l’intero complesso dei doveri di cui all’art. 143 cod. civ. che costituiscono l’essenza stessa del matrimonio e di qualsiasi stabile rapporto di coppia. Dunque l’aver escluso tale obbligo si porrebbe quale contradictio in terminis riguardo all’intero provvedimento istitutivo dell’unione civile, che tra l’altro contiene l’espressa previsione del dovere morale che vincola i componenti e, per quanto sopra accennato, si profila incostituzionale. Talché, in ipotesi di azione risarcitoria per illecito endofamiliare – posto che non è previsto dalla l. 76 l’istituto della separazione né, quindi, l’addebito – la Corte adita dal partner dell’unione sarebbe posta difronte ad una duplice scelta: accordare, ove lo consenta la fattispecie, il risarcimento richiesto, ritenendo a rigor di logica integrato nel provvedimento – con riferimento ai commi 1 e 11 – il dovere di fedeltà o, al contrario, porre la questione di legittimità per violazione degli artt. 2, 3, 24 Cost. e 8 CEDU. In conclusione, lo stralcio dell’obbligo di fedeltà all’interno della legge che delinea la struttura dell’unione civile non parrebbe avere alcuna giustificazione giuridica. Si è detto che, se l’intentio legislatoris – sia pure come frutto di disdicevole compromesso – è da rinvenirsi nel distanziare vieppiù il rapporto same sex dal coniugio (quasi a sancirne una differenza ontologica, proprio nell’estromissione del valore simbolo della reciproca ed esclusiva dedizione e condivisione di vita), a contrario, alla luce della sostanziale, effettiva omologazione di entrambe le due tipologie comunque costituzionalizzate, ha svilito e leso contemporaneamente la sacralità del matrimonio. Le perplessità sin qui evidenziate sembrerebbero trovare conferma ulteriore volgendo lo sguardo ad altre differenti esperienze normative a livello europeo. In altri ordinamenti, come in quello francese, il dovere di fedeltà concernente i coniugi con la loi Toubira è esteso naturaliter anche al matrimonio egualitario; oltreoceano, in common law nordamericano, la Corte Suprema degli Stati Uniti il 26 giugno 2015 osservava, che le coppie omosessuali che desideravano accedere al matrimonio – che embodies the highest ideals of love, fidelity, devotion, sacrifice, and family – erano motivate dalla considerazione e dal rispetto nutrito per l’istituto tanto prestigioso che intendevano onorare.

Sul punto in verità ritengo di dover esprimere più di una obiezione, e non nego, mi si conceda, che quello dell’assenza dell’obbligo di fedeltà sia in realtà un falso problema.

Vorrei procedere evidenziando ogni singola questione. In primis ritengo opportuno interrogarci sul “significato”, o meglio sul “contenuto” della fedeltà. Se con essa cogliamo intendere una fedeltà nel senso di (in)sussistenza di relazioni parallele o se, diversamente, (e questa seconda opzione a me sembra maggiormente condivisibile) essa sia espressione di un contenuto e di valori più ampi. Se così è allora, ritengo che la fedeltà sia una scelta individuale di ogni singolo individuo, e come tale mal si presta ad essere imbrigliata in una norma, per di più di tipo regolamentare. È inconcepibile, che nel tempo attuale, la fedeltà al proprio partner/marito/compagno possa (esclusivamente) dipendere da una imposizione da parte del legislatore. La questione va affrontata (e qui la mia vuole essere sostanzialmente una provocazione) sotto una prospettiva diversa. Mi domando (e Vi domando) se invece di interrogarci sulla mancata previsione dell’obbligo di fedeltà con riferimento alle unioni omoaffettive, sia il caso di considerare l’effettiva opportunità del mantenimento di un siffatto obbligo nelle famiglie fondate sul matrimonio. D’altro canto la medesima violazione dell’obbligo, come è noto, non sempre sic et simpliciter integra gli estremi della causa di addebito nella separazione. È il giudice infatti, che, caso per caso, valuta il rilievo della violazione al fine di verificare se la separazione è un effetto diretto e immediato dell’infedeltà, o piuttosto se quest’ultima, a sua volta, risulta essere l’effetto di una crisi già in atto. La questione a me appare più formale che sostanziale. Piuttosto che alla nozione – ormai troppo scontata e generica – di fedeltà, il legislatore dovrebbe esprimersi, (anche) con riguardo alla famiglia fondata sul matrimonio, in termini di “rispetto”. Rispetto appunto del coniuge e, conseguentemente, in senso più ampio della persona in quanto tale. La dignità e l’onore debbono comunque essere valori da attuare (attenzione non soltanto non violare) in concreto nello svolgimento di qualsivoglia unione basata sull’affectio, e sulla condivisione di un progetto di vita comune. La loro violazione, se del caso, dovrà essere valutata caso per caso, ben potendo una eventuale infedeltà rappresentare appunto causa di lesione alla persona ed alla sua dignità ma ciò ritengo a prescindere dalla previsione di una disposizione normativa. D’altra parte, e qui va sottolienato, la violazione potrà comportare pretese risarcitorie nell’àmbito del c.d. illecito endofamiliare – a tale proposito la Cassazione (sentenza n. 15481 del 2013 ha reputato configurabile un simile illecito anche all’interno dell’unione di fatto) ed altresì la valutazione ai fini del quantum dell’assegno dovuto alla parte economicamente più debole (il comma 25 della l. n. 76 richiama appunto l’art. 5 della l. sul divorzio).

V. IL DIVIETO DI ADOZIONE.

Passiamo ora alla seconda questione, il divieto di adozione. Al riguardo farei una precisazione richiamando la riforma della filiazione del 2012, la quale ha posto il fondamento dell’uguaglianza solidale in seno alla famiglia ampliando i confini in cui si esplicano i rapporti socio-giuridici incentrati sul soggetto “figlio senza aggettivi”. La legge n. 76 del 20 maggio 2016 delinea una disciplina comunque positiva riguardo alla dimensione del rapporto di coppia, ma è silente in relazione ai connessi e ineludibili rapporti parentali.

Invero l’intersezione che di fatto si verifica tra le due riforme è produttiva di ulteriori discrasie e problematiche, afferenti, sostanzialmente, come si è anticipato, proprio al rapporto di filiazione. In sede di approvazione della legge n. 76/2016 al Senato era stato soppresso l’art. 5 del testo presentato dalla relatrice, sen. Cirinnà, che attraverso una modifica dell’articolo 44, lettera b), della legge 4 maggio 1983 n. 184, interveniva in materia di adozione in casi particolari, consentendo alla parte di una unione civile di fare richiesta di adozione del figlio del partner. Si era affermato, infatti, anche al di fuori dell’aula parlamentare, che l’ammissione della stepchild adoption avrebbe potuto agevolare il ricorso alla “maternità surrogata”, oggi ammessa – con diverse modalità, presupposti e conseguenze – in vari Paesi, ma vietata, nell’ordinamento italiano, dalla l. 40/2004, che in particolare, all’art. 12, n. 6, sanziona la commercializzazione di gameti o di embrioni.

Il legislatore ha perseguito l’intento di differenziare matrimonio ed unione civile; nel comma 20 esclude infatti l’estensibilità alle parti delle disposizioni della l. n. 84 del 1983 (aggiungendo che «resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti).

A tale “chiusura” da parte del legislatore non corrisponde tuttavia un egual atteggiamento da parte della giurisprudenza, la quale ha sposato un diverso orientamento rispetto a questa materia. Cito brevissimamente alcune pronunce che mi sembrano assai significative.

In applicazione dell’art. 44, lett. d). l. n. 184 del 1983, un recente indirizzo della giurisprudenza ha accolto la domanda di adozione in casi particolari da parte della compagna della madre biologica che aveva fatto ricorso alla fecondazione eterologa all’estero.

In generale è opportuno ricordare che la presenza di figli in famiglie omosessuali non è rara anche in altre ipotesi ove la giurisprudenza è chiamata a valutare la rispondenza della domanda, nel caso concreto, alle esigenze di tutela dell’interesse del minore. È stato riconosciuto, infatti, l’affidamento del figlio, in caso di separazione o divorzio, al coniuge divenuto omosessuale; l’affidamento familiare, ex art. 4, l. 184/1983, ad una coppia omosessuale; il riconoscimento dello status filiationis conseguito all’estero, quando le coppie del medesimo sesso ricorrono alla fecondazione medicalmente assistita in Paesi che ammettono la doppia genitorialità. L’esigenza di tutela del minore emerge, peraltro, anche in quella giurisprudenza che, in caso di cessazione della convivenza tra coppie del medesimo sesso, riconosce sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 337 ter cod. civ., all’ex partner del genitore biologico il diritto a mantenere un rapporto significativo con i figli, secondo un calendario di incontri stabilito.

A fronte del diverso scenario legislativo rispetto a quello giurisprudenziale viene ancor più da domandarsi se la scelta del legislatore sia una scelta giusta; o meglio se essa sia o no condivisibile sotto il profilo della tutela dell’interesse del minore. Ecco mi soffermerei proprio su questo aspetto: l’interesse del minore deve sempre prevalere rispetto a qualsivoglia esigenza che si trovi a convivere con esso. E se è vero che con un siffatto interesse occorre confrontarsi, poiché è il nocciolo duro della questione in oggetto, allora mi siano consentite talune considerazioni.

Ritengo, e qui secondo me va ribadito con forza, che l’essere genitori sia un desiderio; un desiderio legittimo, apprezzabile, condivisibile appieno. Ma non di certo un diritto. Il divenire padre o madre costituisce forse l’esperienza più coinvolgente, profonda, e definitiva della vita umana, rappresentando un legame destinato a durare per sempre. È un bisogno umano. Come l’amore, la salute, l’amicizia, il sentirsi sostenuto. Non v’è difficoltà alcuna a comprendere che qualsiasi uomo o donna possa avvertire la necessità di dare la vita e di crescere dei figli. Questo bisogno umano profondo va rispettato, tutelato nonché garantito ma sempre nella consapevolezza che non si tratta di un diritto. E non è questa una considerazione limitata alle coppie omoaffettive, essa a mio parere va riferita pure alle coppie eterosessuali, sì che, personalmente sono dell’idea di guardare con una certa prudenza anche le moderne tecniche di fecondazione assistita.

Credo che il divieto legislativo vada interpretato al di là di ogni spirito polemico. Non si tratta, come invece evidenziato da molti, di disconoscere l’idea della genitorialità delle persone omosessuali e/o transessuali, sulla convinzione che essi siano inidonei a crescere dei figli. Si tratta tuttavia di porre a confronto due interessi che si trovano a convivere, quello della coppia desiderosa di crearsi una famiglia con prole e quello del minore. Nella valutazione e comparazione di siffatti interessi non è possibile escludere aprioristicamente che essi possono anche risultare tra loro confliggenti ed allora, in questo caso, non può non prevalere a tutto campo la tutela del secondo a fronte della soccombenza del primo. Sotto il profilo indicato va posto in rilievo che una legislazione a maglie strette in materia potrebbe forse creare seri problemi sotto il profilo della tutela effettiva; meglio appare la scelta di una normativa per principi, sì che caso per caso potrà essere rintracciata la soluzione più aderente all’ipotesi concreta.

Se è vero come è vero che la persona umana non conosce limiti, che ad essa va accordata la più ampia tutela, è altresì indubbio che essa conosce limiti posti nell’interesse di un’altra persona. Ed è questo il punto, la chiave di volta della questione che ci troviamo ad affrontare.

La problematica della genitorialità non può essere affrontata in chiave di diritto, semmai in chiave di libertà. Poiché a differenza del diritto (che esprime comunque un interesse egoistico ed individuale) la libertà evoca la nozione di responsabilità. La libertà responsabile è quella che non può non essere esercitata nel rispetto di altre libertà. Conseguentemente la particolare attenzione nei confronti del minore, che non è più considerato «oggetto», ma «soggetto», suggerisce la concreta attuazione, oltre che il rispetto, della sua dignità e della sua attitudine.

È un punto sul quale bisogna riflettere nella consapevolezza che le soluzioni proposte non possono non avere riguardo alle peculiarità del fatto, per cui ogni fatto è un fatto a sé; l’auspicio è quello di individuare, sistematicamente ed assiologicamente, volta per volta il rimedio più ragionevole e più adeguato, tenuto conto che il principio di eguaglianza, al quale troppe volte si fa riferimento, non esclude quello di differenziazione se (per ipotesi) in concreto dovessero sussistere i presupposti per una differenziazione.

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