Il pluralismo familiare in Italia: unioni civili e convivenze

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Autora: Immacolata Prisco, Ricercatore di Diritto Privato dell’Università di Cassino e del Lazio Meridionale. Correo electrónico: immacolata.prisco@unicas.it.

Resumen: La legge n. 76 del 2016 riconosce il pluralismo dei modelli familiari, disciplinando le unioni civili tra persone dello stesso sesso e i rapporti di convivenza. Il saggio analizza la disciplina vigente sui rapporti familiari non fondati sul matrimonio evidenziandone i profili critici e i relativi dubbi ermeneutici.

Palabras clave: famiglia; unioni civili; convivenze; contratti di convivenza.

Abstract: The law n. 76/2016 gives legal recognition to the families not based on marriage, by regulating the civil unions between persons of the same sex and the cohabitation. The essay analyzes the existing rules, highlighting its critical aspects and the doubts of interpretation.

Key words: family; civil unions; cohabitation; cohabitation agreements.

Sumario:
I. L’evoluzione del concetto di famiglia. Considerazioni introduttive.
II. La l. n. 76 del 2016: il legislatore italiano “istituisce” le unioni civili.
III. I rapporti personali e patrimoniali.
IV. Segue. L’estensione all’unito civile di alcune norme dettate per il coniuge.
V. Lo scioglimento dell’unione.
VI. La mancata regolamentazione dei rapporti di filiazione nelle unioni same-sex. Sviluppi giurisprudenziali.
VII. I rapporti di convivenza.
VIII. Il contratto di convivenza.
IX. Il diritto agli alimenti in favore del convivente e la mancata regolamentazione dei profili successori.

Actualidad Jurídica Iberoamericana Nº 11, agosto 2019, ISSN: 2386-4567, pp. 78-109

Revista indexada en SCOPUS, REDIB, ANVUR, LATINDEX, CIRC y MIAR; e incluida en los siguientes catálogos: Dialnet, RODERIC, Red de Bibliotecas Universitarias (REBIUN), Ulrich’s y Dulcinea.

I. L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI FAMIGLIA. CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE.

Il tema delle unioni familiari non fondate sul matrimonio, da sempre al centro dell’attenzione degli interpreti, si è arricchito, nel tempo, di nuovi argomenti e spunti di riflessione: a partire dal dibattito, più risalente, sulla rilevanza giuridica delle convivenze c.dd. di fatto, la dottrina e la giurisprudenza si sono in séguito confrontate sulla meritevolezza di tutela delle unioni omoaffettive, sulla necessità di una regolamentazione delle medesime, sulla possibilità di riconoscere effetti ai matrimoni omosessuali realizzati all’estero, come sull’incidenza che i c.dd. nuovi modelli familiari hanno sulla costruzione dei rapporti di filiazione.

La legge n. 76 del 2016 offre una risposta alle questioni sollevate nel tempo dagli interpreti, positivizzando l’evoluzione, già registrata sul piano sociale, delle comunità familiari non fondate sul matrimonio.

La nuova normativa – emanata all’esito di un travagliato iter politico – si colloca nel solco dei precedenti normativi e giurisprudenziali che hanno progressivamente condotto al riconoscimento di rapporti familiari molto distanti dai modelli ispiratori della normativa codicistica. Il riferimento è alla riforma della filiazione, la quale ha istituito il c.d. stato unico di figlio, nonché a quella giurisprudenza incline, già prima della legge in esame, a valorizzare i rapporti ‘in fatto’ familiari: i rapporti tra i conviventi (omo o eterosessuali), come quelli – ancora oggi al centro di un ampio dibattito – tra genitore c.d. sociale e figlio.

Su quest’ultimo profilo si tornerà in séguito, nel confronto con la scelta del legislatore italiano di non prendere posizione sulla stepchild adoption, ovvero, più in generale, sui rapporti di filiazione nelle unioni omoaffettive; scelta che non ha impedito – ma ha, piuttosto, consentito – alla giurisprudenza di rifondare su nuove basi i rapporti genitoriali.

In particolare, la tanto attesa legge del 2016 istituisce le unioni civili, così offrendo alle parti di un’unione same-sex di formalizzare il proprio rapporto. D’altro canto, la legge n. 76 del 2016 sviluppa gli approdi giurisprudenziali in punto di meritevolezza di tutela delle convivenze (anche same-sex) in quanto formazioni sociali ex art. 2 cost. e disciplina i contratti di convivenza. La nuova normativa amplia, così, “le opzioni istituzionali disponibili”, sia per le coppie omosessuali sia per quelle eterosessuali, le quali, anche grazie alla possibilità di regolamentare autonomamente i rapporti di convivenza, possono “modellare la loro relazione secondo differenti livelli di assunzione di reciproche responsabilità”.

A pochi anni dall’entrata in vigore della nuova normativa non mancano, tuttavia, riflessioni critiche tra gli interpreti, i quali si confrontano con un testo normativo frutto di un compromesso tra diverse sensibilità politiche, fino ad auspicarne, talvolta, una riforma. Tale ‘compromesso’ traspare dall’assenza, nel disposto normativo, del lemma ‘famiglia’ come di quello di coniuge, così implicitamente rimarcandosi una separazione – talvolta di forma più che di sostanza – tra il modello di famiglia fondato sul matrimonio e le altre unioni familiari.

II. LA L. N. 76 DEL 2016: IL LEGISLATORE ITALIANO “ISTITUISCE” LE UNIONI CIVILI.

L’art. 1, comma 1, l. n. 76 del 2016, istituisce “l’unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione”: l’unione è ‘luogo’ idoneo allo sviluppo della personalità dei soggetti che la compongono, ma, al contempo, formazione che differisce da quella fondata sul matrimonio ex art. 29 cost.. La scelta del legislatore italiano è, dunque, nel senso della creazione di un nuovo istituto, autonomo rispetto a quello del matrimonio come disciplinato dal codice civile e riservato a persone di sesso differente.

Ai fini della costituzione dell’unione, le due parti – necessariamente maggiorenni – devono prestare il loro consenso, alla presenza di due testimoni, dinanzi all’ufficiale di stato civile, il quale provvede alla registrazione dell’unione nell’archivio di stato civile (art. 1, commi 2 e 3). In questa sede le parti potranno scegliere se assumere, in costanza di unione, un cognome comune (da scegliersi tra quelli delle parti), nonché se anteporre o posporre al cognome comune prescelto il proprio (art. 1, comma 10).

Nella disciplina del rapporto tra gli uniti civili, dei presupposti necessari ai fini della valida costituzione dell’unione, nonché della fase di scioglimento del vincolo, la tecnica normativa varia: per alcuni aspetti la disciplina si ricava dal rinvio alla normativa codicistica o alla legislazione speciale in tema di matrimonio (sebbene, talvolta, entro precisi limiti), per altri, invece, essa è dettata ex novo in maniera più o meno aderente a quella prevista per il vincolo matrimoniale.

L’attenzione della dottrina si incentra, in primis, sulla ‘nuova’ disciplina dell’unione: il confronto, sul piano positivo, tra i due modelli familiari (la famiglia fondata sul matrimonio e l’unione civile) induce a riflettere, di volta in volta, sulla ragionevole differenziazione tra i due istituti, come sulla possibilità di trarre dalla nuova normativa spunti per futuri sviluppi nella disciplina del vincolo matrimoniale. Oggetto di confronto, ad esempio, risultano le previsioni sulle cause impeditive dell’unione, sui vizi e sui relativi strumenti di tutela.

In linea con la disciplina codicistica del matrimonio (artt. 85, 86, 87, 88 c.c.), sono cause impeditive alla costituzione dell’unione (comma 4): la sussistenza di un vincolo matrimoniale o di un’unione civile; l’interdizione per infermità di mente; la sussistenza dei rapporti di parentela e affinità indicati all’art. 87, comma 1, c.c.; la condanna definitiva di una delle parti per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia coniugato o unito civilmente con l’altra parte. La sussistenza di una delle suindicate cause determina la nullità dell’unione, la quale potrà essere fatta valere da ciascuna delle parti, dagli ascendenti prossimi, dal pubblico ministero e da chiunque possa vantare un interesse legittimo ed attuale (commi 5 e 6). Di là dalle cause di nullità innanzi indicate, l’unione, analogamente a quanto previsto per il matrimonio (art. 122 c.c.), potrà essere impugnata dalla parte che ha prestato il proprio consenso per effetto di violenza, alla quale è espressamente equiparato il “timore di eccezionale gravità determinato da cause esterne alla parte stessa”, o di errore sull’identità o sulle qualità personali dell’altra parte quando riguardi “l’esistenza di una malattia fisica o psichica, tale da impedire lo svolgimento della vita comune” (comma 7, l. n. 76 del 2016, ivi i riferimenti all’art. 122 c.c.). Non sfugge il mancato richiamo all’errore che riguardi una “anomalia o deviazione sessuale”, secondo il disposto dell’art. 122, comma 3, n. 1, c.c. Un’omissione che potrebbe, forse, essere frutto di una dimenticanza, ma che solleva il dubbio essa celi l’idea che lo stesso orientamento omosessuale sia stato considerato alla stregua di una “anomalia o deviazione sessuale”. Sì che la norma potrebbe sottendere proprio quelle barriere culturali che ci si proponeva di abbattere. L’omissione, tuttavia, pur nella sua gravità ‘ideologica’, potrebbe non avere ricadute sul piano pratico-applicativo, là dove, seppure non fosse possibile qualificare in termini di patologia psichica la deviazione sessuale del partner, potrebbe ugualmente giustificarsi l’impugnativa attraverso un’interpretazione assiologia del dato normativo.

Le menzionate barriere culturali potrebbero – secondo una parte della dottrina – essere alla base anche della scelta (più o meno consapevole) di omettere ogni riferimento alla stabilità affettiva della coppia quale fondamento dell’unione civile. Mancanza che – come sarà meglio chiarito di seguito – traspare sia dalle previsioni sul momento costitutivo dell’unione sia da quelle sul relativo scioglimento, le quali differiscono dalle disposizioni sullo scioglimento del vincolo matrimoniale.

III. I RAPPORTI PERSONALI E PATRIMONIALI.

Sul piano patrimoniale, la nuova disciplina (art. 1, comma 13) ricalca quasi interamente il modello codicistico dei rapporti patrimoniali tra i coniugi. In assenza di diversa indicazione, si applicherà il regime della comunione dei beni e oggetto di espresso rinvio sono le norme in tema di forma, modifica, simulazione e capacità per le convenzioni matrimoniali (artt. 162, 163, 164 e 166 c.c.). Espressamente richiamate, in quanto applicabili anche all’unione, sono le sezioni II, III, IV, V e VI del capo VI del titolo VI del libro I del codice civile (rispettivamente dedicate alla disciplina del fondo patrimoniale, della comunione legale, della comunione convenzionale, della separazione dei beni e dell’impresa familiare).

Maggiori criticità si riscontrano invece nella disciplina dei rapporti personali. Gli uniti civili acquistano i medesimi diritti e obblighi. In particolare, il comma 11, art. 1, della legge fa espresso riferimento all’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale, alla coabitazione, nonché a quello di contribuire, secondo le rispettive capacità, ai bisogni comuni. Il successivo comma 12, invece, in linea con quanto prescritto dall’art. 144 c.c., prevede che i coniugi concordino tra loro l’indirizzo della vita familiare fissando la comune residenza, accordando a ciascuna delle parti il potere di attuare l’indirizzo stabilito.

Nessun riferimento – com’è stato puntualmente segnalato già in sede di discussione e approvazione del disegno di legge – è operato agli obblighi di fedeltà e a quello di collaborazione nell’interesse della famiglia (espressamente previsti all’art. 143 c.c.).

Molte le spiegazioni fornite dalla dottrina, soprattutto riguardo gli obblighi di fedeltà: la mancanza potrebbe essere frutto di un pregiudizio di fondo verse le unioni omoaffettive, quello stesso pregiudizio che – secondo alcuni – avrebbe guidato il legislatore nella stesura di tutto il testo normativo; ancora, essa potrebbe giustificarsi in ragione della ratio originaria dell’obbligo di fedeltà (la certezza della paternità); infine, potrebbe trattarsi di una scelta coerente con la disciplina dello scioglimento dell’unione civile, là dove non hanno rilevanza le ‘ragioni’ dello scioglimento medesimo.

Di là dalle differenti motivazioni addotte, ci si chiede se davvero detta esclusione abbia delle ricadute sul piano operativo. Da una parte – e anche alla luce dell’evoluzione del concetto stesso di fedeltà – si potrebbe giustificare la riconduzione della condotta ‘infedele’ alla piú generale violazione del vincolo di solidarietà che lega le parti dell’unione, come dell’obbligo alla reciproca assistenza morale. Dall’altra, non si trascura la circostanza che il principale tratto distintivo tra i modelli familiari oggetto di confronto risiede non tanto nell’assenza dei divisati obblighi, quanto, piú in generale, nelle conseguenze legate alla violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e dall’unione. Per quest’ultima non è disciplinata una fase di separazione antecedente al procedimento di divorzio, né, conseguentemente, risulta contemplata la possibilità di ‘addebito’ dello scioglimento.

Pertanto, le implicazioni pratiche legate alla violazione, per ipotesi, di un obbligo di fedeltà dovrebbero apprezzarsi sul piano risarcitorio, sulla configurabilità di un danno risarcibile per illecito endofamiliare. In altri termini, la mancata previsione degli indicati obblighi potrebbe escludere a priori la risarcibilità del danno per la loro violazione. Tuttavia, neppure sotto tale profilo si ravvisano rilevanti implicazioni circa la mancata previsione del citato obbligo di fedeltà. L’evoluzione della giurisprudenza in tema, infatti, mostra di non riconoscere l’equazione illecito endofamiliare-violazione degli obblighi positivamente riconosciuti, giustificando il risarcimento del danno ogni qual volta si dimostri la lesione della dignità e della personalità dei componenti il nucleo familiare. Si esclude, cosí, che l’addebito della separazione sia di per sé fattore legittimante per ottenere il ristoro dei danni e si riconosce, al contempo, la configurabilità del menzionato illecito anche nell’àmbito di unioni non fondate sul matrimonio, di là dalla sussistenza di obblighi e doveri positivizzati.

IV. SEGUE. L’ESTENSIONE ALL’UNITO CIVILE DI ALCUNE NORME DETTATE PER IL CONIUGE.

Alle norme in tema di regime patrimoniale e di rapporti personali tra gli uniti civili si affiancano una serie di disposizioni volte a estendere il campo di applicazione di singole previsioni, dettate per i coniugi, agli uniti civili.

Cosí, nell’ipotesi di abusi familiari all’interno dell’unione, potrà farsi ricorso all’art. 342 ter c.c. (norma già applicabile sia al coniuge sia al convivente); nella scelta dell’amministratore di sostegno il Giudice tutelare, se possibile, prediligerà la scelta della parte dell’unione e a quest’ultima sarà concesso di agire per domandare l’interdizione o l’inabilitazione dell’altra parte ovvero per presentare istanza di revoca per cessazione della relativa causa; infine, in tema di annullamento del contratto acquista rilievo, ai fini dell’applicazione del primo comma dell’art. 1436 c.c., anche la minaccia di un male ingiusto verso la persona o i beni dell’altra parte dell’unione costituita dal contraente o di un discendente o ascendente di lui.

Oggetto di espresso richiamo sono, inoltre, gli articoli 2118 e 2120, prevedendosi che, in caso di morte del prestatore di lavoro le indennità ivi disciplinate devono essere corrisposte in favore della parte dell’unione civile; le disposizioni di cui al titolo XIII del libro I del codice civile (sugli alimenti); gli articoli 116, comma 1, 146, 2647, 2653, comma 1, n. 4 e 2659 c.c.

La tecnica del rinvio è poi adoperata sul fronte successorio, ove si constata, piú che in altri àmbiti, una tendenza alla parificazione delle unioni civili alle coppie coniugate. Si richiamano, infatti, tutte quelle previsioni per le quali poteva dubitarsi dell’applicabilità alle unioni civili. Piú nello specifico, il comma 21 estende all’unione le norme poste dal capo III (sull’indegnità); dal capo X del titolo I (sui legittimari); dal titolo II (sulla successione legittima), dal capo V bis del titolo IV del libro II (sul patto di famiglia). In altri termini, dall’impianto complessivo della normativa può rilevarsi l’ampliamento dei soggetti chiamati alla successione attraverso l’equiparazione dell’unito civile al coniuge superstite.

Equiparazione destinata ad operare rispetto sia alla normativa codicistica sia a quella dettata dalla legislazione speciale (in forza del comma 20).

Al comma 20, infine, una disposizione per molti versi ‘compromesso’. Si ammette l’estensione alla parte dell’unione civile di tutte quelle norme che si riferiscono al matrimonio o comunque contenenti la parola “coniuge”, ma “ai limitati fini” di garantire l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione.

Si delimita, cosí, il campo operativo di quella estensione evitando possibili applicazioni in via analogica per scopi differenti rispetto a quelli tracciati dalla normativa in oggetto. Al contempo, si precisa che detta estensione è preclusa rispetto alle norme del codice civile non richiamate nel testo della legge. Infine – ma sul punto si riferirà nelle pagine che seguono – espressamente esclusa è l’applicabilità della legge sulle adozioni n. 184 del 1983, sebbene con una ‘clausola di apertura’ finale.

V. LO SCIOGLIMENTO DELL’UNIONE.

In analogia rispetto a quanto prescritto per il vincolo fondato sul matrimonio, l’unione civile si scioglie per morte o dichiarazione di morte presunta. Si applicano all’unione anche alcune cause di scioglimento disciplinate dall’art. 3, l. n. 898 del 1970, tra le quali la condanna per uno dei delitti indicati al n. 1 o l’assoluzione da essi: per infermità totale di mente (n. 2, lett. a); per estinzione del reato (n. 2, lett. c), nonché – con specifico riferimento all’incesto – “per mancanza di pubblico scandalo” (n. 2, lett. d). Ancora, l’unione si scioglie allorquando l’altro coniuge, cittadino straniero, abbia ottenuto all’estero l’annullamento o lo scioglimento dell’unione matrimonio o ha contratto all’estero nuovo matrimonio (n. 2, lett. e). La legge sul divorzio è, poi, richiamata dal comma 25, con particolare riferimento alle regole sul procedimento e a quelle sulla c.d. pensione di reversibilità in favore del coniuge. Infine, in merito alle regole che presidiano il procedimento di scioglimento, si richiamano le norme, di recente introduzione, sulla c.d. negoziazione assistita e sulle modalità di scioglimento del vincolo matrimoniale innanzi all’ufficiale di stato civile (artt. 6 e 12, d.l. 12 settembre 2014, n. 162, conv. con modif. dalla l. 10 novembre 2014, n. 162).

Peculiare, rispetto alla normativa dettata per i coniugi, è la disciplina dello scioglimento ‘volontario’ dell’unione, la quale – come è stato osservato – risulta più “moderna” rispetto a quella matrimoniale. Si prevede infatti che che l’unione si scioglie “quando le parti hanno manifestato, anche disgiuntamente la volontà di scioglimento dinanzi all’ufficiale dello stato civile”. Con la precisazione che, in tal caso, la domanda di scioglimento potrà essere proposta decorsi tre mesi da quella manifestazione di volontà. Il modello codicistico che vede, tendenzialmente, una fase di separazione preliminare al procedimento di divorzio, non trova riscontro nella disciplina delle unioni civili, per le quali la fase di separazione risulta ‘assorbita’ in quel termine di tre mesi dalla manifestazione della volontà di scioglimento. Dal complessivo impianto normativo della legge si ricava, inoltre, che la domanda di scioglimento e quella successiva, proposta al Tribunale decorsi tre mesi dalla prima, non necessitino dell’indicazione delle motivazioni delle parti. Con la conseguenza che, ai fini della cessazione del vincolo, risulterebbe sufficiente la mera dichiarazione di volontà (anche immotivata) della parte interessata.

Oggetto di autonoma disciplina è l’ipotesi della rettificazione di sesso, quale causa di scioglimento dell’unione. È noto il lungo dibattito che ha coinvolto la tematica del c.d. ‘divorzio imposto’ in ragione della rettificazione di sesso di uno dei coniugi, come note sono le pronunce della Corte costituzionale, prima, e della Corte di cassazione, poi, le quali hanno reso ineludibile una regolamentazione delle conseguenze legate alla rettificazione di sesso. I commi 26 e 27 della legge in esame offrono una prima risposta alle istanze di tutela già oggetto di attenzione della giurisprudenza: da una parte, si ravvisa nella sentenza di rettificazione di sesso una causa di scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, dall’altra, si regolamenta l’ipotesi nella quale la rettificazione avvenga nell’àmbito di una compagine familiare fondata sul matrimonio. In tal caso, qualora i coniugi abbiano manifestato la volontà di non far cessare gli effetti del vincolo matrimoniale, quel vincolo si trasforma automaticamente in unione civile.

VI. LA MANCATA REGOLAMENTAZIONE DEI RAPPORTI DI FILIAZIONE NELLE UNIONI SAME-SEX. SVILUPPI GIURISPRUDENZIALI.

Il vero nodo da sciogliere della legge sulle unioni civili è considerato, da molti, quello relativo alla stepchild adoption, originariamente inclusa nel disegno di legge, ma successivamente stralciata ai fini dell’approvazione del testo normativo. Secondo la prima versione del disegno di legge, infatti, attraverso una modifica del vigente art. 44, l. n. 184 del 1983, la parte dell’unione civile avrebbe potuto adottare il figlio minore (anche adottivo) del proprio partner. Tuttavia, complici il dissenso verso la piena equiparazione delle unioni omosessuali a quelle eterosessuali e il timore di un indiretto avallo della maternità surrogata, la disposizione è stata stralciata dal testo normativo. Il comma 20 esclude espressamente l’applicazione diretta della citata legge sulle adozioni, ma precisa che “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”.

La stepchild adoption pur non espressamente inserita nella normativa sulle unioni civili, non trova comunque in essa un ostacolo. La menzionata clausola di apertura, secondo la quale resta fermo quanto previsto dalla vigente legge sulle adozioni, giustifica, infatti, la possibilità di interpretare quest’ultima in modo da accogliere le domande di adozione da parte del partner convivente. A venire in rilievo è l’art. 44, comma 1, lett. d, l.ad., sull’adozione in casi particolari in caso di “impossibilità di affidamento preadottivo”.

Tale locuzione è stata variamente interpretata dalla giurisprudenza, che ne ha offerto una lettura ora restrittiva (limitata cioè alle ipotesi di impossibilità ‘di fatto’ di procedere ad affidamento), ora estensiva, comprendente anche i casi di impossibilità ‘di diritto’. In quest’ultima prospettiva l’adozione potrebbe operare anche qualora l’impossibilità dell’affidamento si fondi sull’assenza dello stato di abbandono del minore; circostanza che si realizza ogni qual volta il minore già gode di vincoli idonei a garantirgli un ambiente idoneo alla crescita. L’art. 44, comma 1, lett. d, l.ad., interpretato estensivamente consente di giustificare – quantomeno in astratto – l’adottabilità del figlio biologico del partner omosessuale convivente. In tal caso, infatti, si realizzerebbe una impossibilità di diritto all’affidamento preadottivo data dalla esistenza di un genitore biologico in grado di prendersi cura del minore. Da qui l’orientamento della giurisprudenza ad accogliere domande di adozione formulate dal partner ai sensi della citata previsione, ogni qual volta ciò corrisponda al migliore interesse del minore.

Il riconoscimento di rapporti di filiazione nell’ambito di unioni omosessuali non si esaurisce entro i confini dell’adozione non legittimante.

La necessità di garantire il c.dd. best interest of the child guida la giurisprudenza nelle decisioni che concernono il riconoscimento di rapporti di filiazione nell’ambito di unioni omoaffettive, di là dalla tecnica procreativa adoperata dagli aspiranti genitori per la realizzazione del proprio progetto di genitorialità. Il riferimento, in particolare, è alla giurisprudenza degli ultimi anni la quale ha ammesso la trascrivibilità di certificati di nascita resi all’estero e recanti l’indicazione di due padri o di due madri. In tali ipotesi non si riscontra alcuna violazione dell’ordine pubblico (quale limite generale al riconoscimento in Italia di certificati o provvedimenti esteri), là dove lo stesso ordine pubblico, riferito a valutazioni concernenti rapporti di filiazione, non può non essere letto alla luce del preminente interesse del minore a mantenere il rapporto genitoriale realizzato in fatto.

L’angolo visuale prescelto dalla giurisprudenza consente, dunque, di superare un approccio che muova dalla comparazione tra i diversi modelli familiari, poiché a tale diversità corrisponde l’unicità della condizione di figlio e il rifiuto di ogni forma di discriminazione.

Non rileva, peraltro, la prova di un legame genetico tra il minore e il genitore che domanda il riconoscimento di filiazione: cosí, la giurisprudenza si apre al riconoscimento dello status filiationis a fronte di procedure di fecondazione eterologa e di procedimenti adottivi realizzati all’estero, anche in ipotesi di assenza di un legame genetico tra il nato e il richiedente. Ritorna nelle pronunce la valutazione di conformità all’ordine pubblico, la garanzia del best interest del minore e l’impossibilità di considerare il vincolo omosessuale di per sé ostativo al consolidamento del rapporto di filiazione.

Peculiare anche la giurisprudenza sulla possibilità di riconoscere rapporti genitoriali ‘creati’ all’esito del ricorso a pratiche di maternità surrogata (oggetto di espresso divieto nell’ordinamento italiano). A fronte di un primo orientamento incline a ritenere irrilevante il fatto che i richiedenti avessero fatto ricorso a tale pratica, le sezioni unite della Corte di cassazione pongono, da ultimo, un limite alla possibilità di riconoscere, in queste ipotesi, i rapporti di genitorialità in fatto realizzati. Secondo la Corte, infatti, la norma interna che vieta la maternità surrogata è espressiva di un principio di ordine pubblico in quanto posta a presidio di valori fondamentali, tra i quali la dignità umana della gestante. Da qui l’impossibilità di procedere alla trascrizione del certificato di nascita. Tuttavia, è la stessa Corte a non escludere che l’interesse del minore coinvolto possa essere garantito attraverso il ricorso alla disciplina dell’adozione non legittimante (ex art. 44, lett. d, l. ad.).

Del resto, la dottrina, a fronte dell’indiscriminata tendenza della giurisprudenza a riconoscere lo status filiationis dietro lo scudo del best interest of the child, aveva già avanzato più d’una riflessione critica, con particolare riguardo a tutte quelle ipotesi nelle quali il best interest sembrava invocato in astratto, assurgendo a strumento attraverso il quale riconoscere un inesistente diritto ad essere genitori. Ciò peraltro trascurando il rischio di avallare pratiche ripudiate nell’ordinamento interno e di favorire, così, il ricorso al c.d. turismo procreativo.

VII. I RAPPORTI DI CONVIVENZA.

La regolamentazione delle unioni civili era, per il legislatore italiano, una tappa ‘obbligata’, in ragione delle istanze di tutela avanzate dalle coppie omosessuali e degli interventi della giurisprudenza europea. La normativa del 2016, tuttavia, ha rappresentato anche l’occasione per dettare una disciplina per la “convivenza di fatto” (comma 36 e ss.), ipotesi senz’altro peculiare rispetto alle unioni civili, poiché sottende la scelta (in luogo dell’impossibilità) di non accedere al vincolo matrimoniale o – in caso di coppie omosessuali – all’unione civile.

Il dibattito sui diritti dei conviventi, prima dell’introduzione della legge del 2016, aveva perso la centralità che aveva in passato. Ciò anche in ragione dei diversi interventi normativi e giurisprudenziali che hanno consentito il riconoscimento delle convivenze come formazioni sociali meritevoli di tutela, accordando, di volta in volta, taluni diritti al convivente. Tanto traspare dalla stessa disciplina delle convivenze, la quale sovente positivizza risultati già raggiunti in via ermeneutica dalle Corti di legittimità.

Nel comma 36 si ritrova la definizione di convivenza precedentemente tracciata dalla giurisprudenza: i “conviventi di fatto” sono “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”. Seguono talune disposizioni volte a riconoscere diritti al convivente, talvolta – come premesso – ribadendo o precisando risultati già acquisiti sul piano ermeneutico, talaltra, fornendo specifica risposta a problematiche ancora irrisolte. Accolta con favore, ad esempio, è stata l’espressa positivizzazione del diritto di visita, di assistenza ospedaliera e di accesso alle informazioni di carattere medico, come del diritto del convivente a nominare – con scrittura autografa o alla presenza di un testimone – l’altra parte quale rappresentante, con poteri pieni o limitati, in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di voler o di morte, per quanto riguarda donazioni di organi, modalità di trattamento del corpo e celebrazioni funerarie. Sempre a titolo esemplificativo, maggiori perplessità, ha suscitato la disciplina dei diritti del convivente nell’ambito dell’impresa familiare. Se infatti, ormai da tempo, si sottolineava l’opportunità di riconoscere anche al convivente i diritti riconosciuti al “familiare” dall’art. 230 bis c.c. , la scelta di inserire nel codice civile una disposizione ad hoc (art. 230 ter c.c.) per il “convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa familiare dell’altro convivente”, è apparsa non soddisfacente a quanti hanno segnalato irragionevoli disparità di trattamento tra il coniuge e il convivente.

VIII. IL CONTRATTO DI CONVIVENZA.

Particolare interesse desta la disciplina sui c.dd. contratti di convivenza (commi 50 e ss.). I conviventi possono autoregolamentare i propri rapporti patrimoniali, attraverso la stipula di contratti, da redigersi – a pena di nullità – per atto pubblico o con scrittura privata autenticata da un notaio o da un avvocato, che nel ricevere l’atto ne attesta la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico.

Il tema dei “contratti di convivenza” si inserisce in quello, piú ampio, dell’esercizio dell’autonomia dei conviventi nella regolamentazione dei loro interessi. In particolare, di là dalla legge in esame, la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza hanno progressivamente riconosciuto la validità dei contratti aventi ad oggetto la disciplina di interessi che maturano in seno alle famiglie di fatto, sebbene approdando a conclusioni differenti in ordine alla natura dei relativi accordi (e, correlativamente, dei loro effetti), nonché ai confini del potere di autoregolamentazione.

Entro tale quadro, la legge Cirinnà “fa del contratto di convivenza un negozio formale, legittimo, a contenuto patrimoniale (almeno parzialmente) predeterminato”, così riconoscendo in tale contratto una causa sufficiente a giustificare, sul piano civile (e non meramente ‘naturale’ ex art. 2034 c.c.), le obbligazioni che ne discendono.

Alle norme in tema di forma del contratto, di requisiti ai fini della sua opponibilità ai terzi, di indicazioni anagrafiche da apportare nel testo, di disciplina applicabile (anche nell’ipotesi di contraenti di diversa cittadinanza), si affianca l’indicazione di ciò che il contratto di convivenza “può contenere” (comma 53): la residenza; le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune; il regime patrimoniale della comunione dei beni (con la precisazione della sua modificabilità in qualunque momento nel corso della convivenza). Si esclude, inoltre, l’apponibilità al contratto di termini o condizioni (che, se inseriti, si hanno per non apposti); si indicano, tra le cause di nullità la presenza di un’unione civile, di un matrimonio e di un altro contratto di convivenza, la violazione del comma 36 (che definisce la convivenza more uxorio), la minore età o l’interdizione giudiziale della parte, la condanna per uno dei delitti di cui all’art. 88 c.c.; si disciplina la risoluzione del contratto. In particolare, il contratto di convivenza si risolve per accordo delle parti o per recesso unilaterale di una di esse, purché sia rispettata la forma richiesta dal comma 51 (espressamente richiamato), e con la precisazione che là dove le parti abbiano scelto il regime della comunione legale, l’estinzione del contratto determina lo scioglimento della comunione e l’applicazione, in quanto compatibili, della disciplina codicistica in tema. Il comma 59 indica, tra le cause di risoluzione, anche il matrimonio o l’unione civile tra i conviventi o tra un convivente e un’altra persona, nonché la morte di uno dei contraenti.

La scelta legislativa di riconoscere espressamente il potere di autoregolamentazione nell’àmbito della famiglia di fatto non esaurisce la questione dei limiti del divisato potere e, piú, in generale i dubbi ermeneutici che, da tempo, accompagnano la tematica dei contratti di convivenza. Talune criticità emergono, ad esempio, in merito alla possibilità per le parti di determinare “le modalità di contribuzione alle necessità della vita comune” (comma 53, lett. b), con una previsione che sembra riportare su un piano pattizio l’inderogabile dovere di contribuzione previsto per i coniugi (art. 143 c.c.). Sì che, ci si interroga sulla validità di un patto di convivenza con il quale le parti deroghino al citato dovere di contribuzione o, comunque, violino il principio di proporzionalità espresso dalla normativa codicistica. In tal caso, infatti, potrebbe profilarsi un’ipotesi di nullità della relativa pattuizione. Controversa è anche la portata applicativa del comma 58, là dove non ammette l’apposizione di termini o di condizioni, così ponendo un limite alla regolamentazione pattizia della convivenza che sembra contraddire l’intrinseca precarietà del contratto di convivenza, suscettibile di scioglimento, in qualsiasi momento, mediante recesso unilaterale ad nutum. Ancora, la prassi potrà sottoporre all’interprete dubbi di validità su pattuizioni, non contemplate tra quelle che possono essere inserite nel contratto (per espressa previsione normativa), ma potenzialmente idonee a regolamentare gli interessi dei conviventi. Vengono in rilievo, a titolo esemplificativo, i dubbi, già sollevati dalla dottrina, circa la validità di clausole penali, come di pattuizioni aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro o impegni al trasferimento di diritti reali immobiliari al momento della cessazione della convivenza.

Infine, la disciplina del contratto di convivenza non potrà non essere letta alla luce della normativa successoria vigente, con conseguente nullità di tutte quelle clausole contrattuali integranti patti successori.

IX. IL DIRITTO AGLI ALIMENTI IN FAVORE DEL CONVIVENTE E LA MANCATA REGOLAMENTAZIONE DEI PROFILI SUCCESSORI.

Chiude la disciplina sui contratti di convivenza (comma 65) l’espressa previsione del diritto agli alimenti in favore del convivente nell’ipotesi di cessazione della convivenza di fatto, il quale sorge qualora il convivente versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio sostentamento. Piú nello specifico gli alimenti dovranno essere versati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e determinati secondo i parametri offerti dall’art. 438, comma 2, c.c. Con la precisazione che l’obbligo alimentare del convivente è adempiuto con precedenza sui fratelli e sorelle. La norma sugli alimenti in favore del convivente ha suscitato qualche perplessità, in quanto sembra porsi in contraddizione proprio con la disciplina dei contratti di convivenza, là dove è verosimile che tali contratti siano sovente utilizzati per regolamentare, sul piano patrimoniale, la cessazione della convivenza.

La nuova legge non incide, invece, in maniera determinante sul sistema successorio a favore del convivente, con la conseguenza che, salve le singole previsioni di legati ex lege per il convivente superstite, il testamento risulta ancor oggi lo strumento adoperabile al fine di procedere ad attribuzioni al partner, pur sempre entro i limiti della quota disponibile.

Un vuoto normativo che lascia insoddisfatta quella parte della dottrina che vedeva in questa riforma l’occasione per una modifica del regime della successione necessaria, per molti versi inadeguato rispetto al pluralismo dei modelli familiari. Cosí, a riprova della “perdurante anomalia” che caratterizza il sistema vigente, si osserva come non possa escludersi che il testatore limiti le attribuzioni al proprio convivente al fine di rispettare il diritto alla quota di legittima del coniuge separato. Riserve queste ultime che appaiono senz’altro condivisibili, sebbene si ritenga che la legge sulle unioni civili non fosse, probabilmente, la “sede” piú adeguata per intervenire su una disciplina che richiederebbe piú ampi e generali interventi riformatori di carattere sistematico.

X. RILIEVI CONCLUSIVI.

Dal quadro tracciato emerge il tentativo del legislatore come degli interpreti di adeguare e innovare il dato normativo a fronte dell’evoluzione del concetto stesso di famiglia.

L’atteso intervento normativo sul riconoscimento delle unioni non fondate sul matrimonio, sebbene guardato con favore da quanti ormai da tempo ritenevano inaccettabile un vuoto normativo sul punto, lascia aperte diverse questioni interpretative e non è difficile ipotizzare, per il futuro, ulteriori riforme o interventi correttivi della Corte costituzionale.

La normativa introdotta nel 2016, punto di incontro di sensibilità politiche differenti, appare dunque, per alcuni versi, come un’occasione mancata, ma rappresenta senz’altro la base sulla quale costruire la regolamentazione delle unioni non fondate sul matrimonio. Sì che, pur in assenza di espresse previsioni o a fronte di un dato normativo talvolta ambiguo, sarà compito dell’interprete individuare soluzioni adeguate agli interessi concretamente in gioco.

Ciò, peraltro, senza farsi aprioristicamente influenzare dall’idea secondo la quale le diverse comunità familiari siano categorie autonome, non comunicanti. In questa direzione, utile anche il confronto con la giurisprudenza, la quale, nel corso degli anni, già prima dell’intervento del legislatore del 2016, ha mostrato una peculiare sensibilità verso il riconoscimento di compagini familiari non fondate sul matrimonio, così testimoniando come, talvolta, risulti del tutto irrilevante l’atto sul quale si fonda la comunione di vita familiare.

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