“Uno studio in rosso”. Sicurezza, sistemi e alterità artificiali

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Autora: Manolita Francesca (Italia): Professore ordinario IUS 01 presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università del Salento, attualmente Prorettore vicario dell’Università del Salento. E-mail: manolita.francesca@unisalento.it

Resumen: L’“incolore matassa della vita” è scandita dal filo rosso delle forme di sicurezza, rese negli ambienti del biopotere, della statistica-finanziaria e, infine, dell’intricato mercato farmaceutico. Molteplici forme di razionalità – genetica, economica, statistica, scientifica – incidono sui sistemi sociali che le autogenerano, tanto da produrre una compressione dei diritti fondamentali e, nell’attualità come in passato, l’emersione di nuove alterità artificiali.

Palabras clave: sicurezza; sistemi; razionalità; alterità artificiali.

Abstract: The “colorless skein of life” is punctuated by the scarlet thread of forms of se-curity, provided in the circles of biopower, financial statistics and, finally, the intricate pharmaceutical market. Multiple forms of rationality – genetic, economic, statistical, sci-entific – affect the social systems that self-generate them, producing a compression of fundamental rights and, in actuality as in the past, the emergence of new artificial alteri-ties.

Key words: security; systems; rationalities; artificial alterity.

Sumario:
I. Sicurezza, fiducia e razionalità.
II. Quattro immagini a confronto: uno studio in rosso.
1. Razionalità genetica e sicurezza della popolazione.
2. Razionalità statistica e sicurezza del sistema finanziario.
3. Razionalità economica e sicurezza del mercato.
4. Razionalità scientifica e stabilità del sistema.
III. Alterità artificiali (o eccedenze di alterità) e espulsione della differenza.

Referencia: Actualidad Jurídica Iberoamericana Nº «14», «febrero 2021», ISSN: 2386-4567, pp. 54-83.

Revista indexada en SCOPUS, REDIB, ANVUR, LATINDEX, CIRC, MIAR.

I. SICUREZZA, FIDUCIA E RAZIONALITÀ.

Parlare di sicurezza nel tempo della pandemia apre a suggestioni distoniche. Viene naturale interrogarsi sulle evoluzioni del medesimo principio e chiedersi se – da sovrastruttura del linguaggio razionale – esso contribuisca alla configurazione di alterità artificiali, funzionali esclusivamente alla sua stessa esistenza.

È sufficiente una osservazione approssimativa del contesto culturale determinato dallo stato di pandemia perché venga alla mente che la paura è da sempre fattore propulsivo di movimenti sociali, economici e politici. Dunque, la gestione della sicurezza è altresì gestione di un ordine: incide sul linguaggio sociale, su quello comunicativo, e intorno ad essa si sviluppa l’azione comune, di una comunità e dei suoi appartenenti. La minaccia di un pericolo, di un rischio, muta il comportamento razionale collettivo, mentre include provoca naturali esclusioni di ciò che è considerato pericoloso. Ciò accade con il rischio di contagio al pari di quanto accada in termini di scelta efficiente nel sistema economico. La sicurezza è dunque un elemento strutturale della comunità, ne fissa le regole di funzionamento e allontana ciò che non è riconoscibile in essa o ciò che semplicemente determina insicurezza. Nelle società moderne, la sicurezza alimenta la fiducia, che ne costituisce il sostituto funzionale e si distacca profondamente dalla tradizionale fides; quella stessa fides che trovava i suoi addentellati nel rapporto tra il singolo, la comunità e il potere divino. La gestione del rischio è insomma coeva all’uomo e alla necessità di creare raggruppamenti o, probabilmente, ne è la giustificazione profonda.

La medesima struttura delle regole è ontologicamente conformata sulla sicurezza e alimenta la speranza: esse sono infatti prescrittive, esibiscono la funzione se A consegue B, che consegna certezza rispetto al futuro, sicurezza rispetto agli effetti che un dato comportamento produrrà in termini di valutazione. Attraverso le regole si controlla il comportamento di una pluralità di soggetti, a loro volta garantiti nell’aspettativa che nutrono verso comportamenti altrui. In questo senso, le regole sono predittive: esse consentono di coltivare speranze verso il futuro, rispetto a comportamenti che sono assunti dalla norma come attendibili, in quanto governati dalla coercibilità propria dell’ordinamento, ma ancóra prima da una razionalità intrinseca. Si tratta di razionalità che affonda le sue radici nei comportamenti valutati come necessari, giusti (leciti) dall’ordinamento attraverso il confronto con la realtà sociale.

Per dirla con Orestano: “La riflessione del giurista continuamente riduce e “traduce” in un mondo di parole il mondo della realtà, della realtà concreta, di quella che potremmo dire la “realtà umana” (intendendo quanto gli uomini di una determinata esperienza vivono, fanno, perseguono, pensano, soffrono una realtà)”.

Ma cosa traducono quelle parole quando il campo di osservazione non è la realtà umana, quando il medesimo campo assume forma e sostanza dell’utopia di una specifica disciplina, del cammino verso qualcosa di sperato?

Il risultato complessivo sarà in questo caso il risultato del contenuto della speranza e della realtà voluta con le sue specifiche leggi.

Shylock, nel Mercante di Venezia, fu messo di fronte alla scelta tra asportare una libra di carne dal corpo di Antonio, quale conseguenza contrattuale dell’inadempimento, o rinunciare all’azione. Nel primo caso, assumeva il rischio di essere giudicato colpevole dell’attentato alla vita di un cittadino veneziano, là dove l’asporto avesse determinato la perdita anche soltanto di una goccia di sangue. Un rischio che Shylock decise di non correre, perché il giudizio successivo sarebbe stato ovvio, in quanto ovvia era la conoscenza comune della base scientifica cui si sarebbe poggiata la futura valutazione.

Ma le esigenze di sicurezza e di pulizia nella storia dei popoli iniziano lentamente a spostarsi da una radice antropologica e comune, di regole affermate su prassi, pratiche, comportamenti che hanno dimostrato nel tempo la capacità di produrre vantaggi sociali e individuali, alla tecnocrazia scientifica che vincola sia le scelte normative sia quelle di giudizio. Nella seconda prospettiva, è la storia della paura artificiale, non più mossa da quella dell’ignoto, del non conosciuto, ma suffragata dalla conoscenza fondata su leggi scientifiche.

Se al diritto è coeva la distinzione, per ciò che non è e, appunto, non ha diritto, e se l’idea di giustizia risponde al fondo a una logica organizzativa fondata sulla risoluzione dei conflitti e, a volte, lontana dal concetto della giustizia del riconoscimento, le leggi scientifiche hanno talvolta contribuito alla creazione di una alterità artificiale, che potremmo definire come sistemica, propria cioè della medesima funzione del sistema.

La razionalità non è quella a stati discreti descritta da Turing nel discorso intorno alla prima intelligenza artificiale, quella indotta genericamente dai bisogni dell’uomo; essa ha subìto una evoluzione e ha superato abbondantemente le esigenze primarie della collettività per specializzarsi in altrettante razionalità: genetica, statistica, economica, scientifica. Queste razionalità governano i medesimi sistemi che le producono e, attraverso la loro connessione, incidono sul funzionamento di più generali stati complessi.

II. QUATTRO IMMAGINI A CONFRONTO: UNO STUDIO IN ROSSO.

Dalla selezione di alcuni eventi, fatti, costruzioni dell’ingegneria economico-sociale è possibile verificare quanto sopra avvertito e – “per usare un linguaggio artistico” – isolare il filo rosso “lungo l’incolore matassa” degli accadimenti.

1. Razionalità genetica e sicurezza della popolazione.

Le leggi razziali sono necessariamente il primo esempio, quello storicamente conclamato e, in quanto tale, immediatamente evidente. Qui l’alterità è appunto artificiale, in quanto creata in vitro, sul conosciuto, su quanto era fin a quel momento perfettamente integrato nella struttura sociale, tanto da dover essere rimosso in applicazione di quelle leggi.

Il 5 agosto del 1938, sulla rivista “La difesa della razza”, è pubblicato il Manifesto di quelle Leggi, redatto da studiosi fascisti di diverse Università italiane. Da lì fu breve il passo ai numerosi provvedimenti amministrativi che spogliarono cittadini, fino ad allora parti cospicue del corpo civile e culturale della Nazione, dei diritti civili di partecipazione e di riconoscimento.

Il diritto aveva continuato a lavorare per distinzione e, questa volta, aveva operato attraverso leggi scientifiche sulle origini genetiche e culturali, rendendosi servitore di una apologia culturale. L’antico concetto giuridico di status operò una riduzione artata della capacità giuridica, ciò sebbene mancasse la giustificazione eziologica di sempre: quella della necessità – parimenti ingiustificabile – di regolare il diverso da sé, per consentire la creazione di una egemonia culturale reputata in sé giusta.

2. Razionalità statistica e sicurezza del sistema finanziario.

Una donna di ottanta anni chiede un prestito ad un istituto finanziario, esibendo un certificato di buona salute, tuttavia il tempo di vita media stimato dalle statistiche sulla popolazione le è avverso. Ciò accade a prescindere dalla sua consistenza patrimoniale, dal fatto che goda di pensione e, dunque, a prescindere anche dalla garanzia offerta dall’art. 2740 c.c. Il finanziamento le viene negato. Il prestito avrebbe dovuto avere una vita massima di cinque anni e, comunque, i suoi beni avrebbero fornito una adeguata garanzia di rientro, anche nell’ipotesi di sopravvenuta morte o incapacità, per il tramite degli eredi o degli amministratori/tutori. La ragione del rifiuto non è infatti nel suo rating finanziario, ma nell’impossibilità di accendere – per limite d’età – il contratto collegato di assicurazione che, attualmente, assiste sia il finanziamento personale sia il mutuo. Un tie-in abbastanza moderno, tra finanziamento e assicurazione, che dovrebbe favorire l’inclusione finanziaria, atteso che attraverso l’assicurazione il finanziatore è coperto dal rischio di inadempimento per sopravvenuta morte, invalidità o perdita del lavoro. Al rating finanziario del soggetto si aggiungono, infatti, strumenti di copertura dei rischi collegati ad evenienze della vita del debitore che potrebbero precludere il corretto adempimento, senza gli appesantimenti procedurali legati alle azioni contro eventuali garanti personali o eredi.

Si tratta di collegamento negoziale unilaterale, che trova fonti abbastanza variegate ed è obbligatorio soltanto nei casi di cessione del quinto. Il collegamento è definito unilaterale perché la persistenza dell’assicurazione è esclusivamente funzionale al credito e non viceversa: una vicenda che interrompa il rapporto finanziario incide sull’assicurazione, attraverso la restituzione delle quote anticipatamente pagate, ma non è vera la reciproca.

Questo per sommi capi è il dato tecnico che opera in pendant con le statistiche di vita media degli assicurati.

L’origine è sicuramente meritoria, giacché la quadratura dei due strumenti nasce per agevolare il credito a chi non goda di una struttura patrimoniale adeguata; a chi risulti, insomma, lavoratore o nullatenente. Tuttavia, nel tentativo di aumentare la sicurezza della circolazione e quindi agevolare l’accesso al credito e, attraverso questo, al mercato, si aprono spazi di discriminazione.

Fatti negoziali che limitano la dignità di soggetti pari nei presupposti di trattamento. Per essere più precisi, i limiti di età per una assicurazione sulla vita vanno dai sessantacinque anni ai settanta; dunque, la nostra ottantenne non avrebbe avuto alcuna speranza già da anni prima di godere di un prestito personale. La sua unica speranza è quella di intestare il finanziamento al figlio, se c’è e se gode, a sua volta, di un rating favorevole. La sua autonomia cede di fronte a evidenze statistiche sulla sua durata in vita. È ormai “fuori casta”.

3. Razionalità economica e sicurezza del mercato.

Non ha avuto gli onori della cronaca la questione giudiziaria collocata in Sudafrica e relativa all’accesso agli antiretrovirali, necessari per la cura dell’AIDS.

Nell’ottobre 2003, Hazel Tau e TAC (Treatment Action Campaign) sporgono reclamo alla RSA Competition Commission, contro le imprese Glaxo-Smith-Kline e Boehringer. La questione sottoposta alla Commissione lamenta il prezzo eccessivo dei farmaci per il trattamento dell’HIV/AIDS e l’abuso di posizione dominante per l’esercizio di pratiche escludenti da parte delle imprese titolari del brevetto sul prodotto farmaceutico. Al reclamo veniva allegata una valutazione del Medical Research Council (MRC) che dimostrava come l’HIV avesse assunto, in Africa, la dimensione di una malattia sociale.

La Commissione dà ragione ai cittadini e alle associazioni di azione politica. In particolare, dopo avere avviato una attività di controllo attraverso l’ausilio di esperti indipendenti, la medesima decide di deferire la questione al Tribunale della concorrenza. Il 16 ottobre 2003, la Commissione rende pubblico un comunicato con il quale diffonde la decisione di avere accertato le pratiche anticoncorrenziali delle società farmaceutiche e deferito il giudizio al Tribunale della Concorrenza. Le parole del Commissario, che accompagnano la divulgazione della decisione, suonano come un monito:

considerato che l’indagine compiuta “ha rivelato che ciascuna delle aziende si è rifiutata di concedere in licenza i propri brevetti a produttori generici in cambio di una royalty ragionevole. Ritenuto che ciò sia fattibile e che i consumatori trarranno vantaggio da versioni generiche più economiche dei farmaci interessati; ritenuto inoltre che la concessione di licenze ripristinerebbe la concorrenza tra le aziende e i loro concorrenti generici; chiederemo al Tribunale di emettere un’ordinanza che autorizzi chiunque a sfruttare i brevetti per commercializzare versioni generiche dei medicinali brevettati […], in cambio del pagamento di una ragionevole royalty. Inoltre, raccomanderemo una penale del 10% del fatturato annuo […] degli imprenditori in Sud Africa per ogni anno di violazione della legge”.

La storia ha un lieto fine, essa infatti si conclude con una transazione tra le società farmaceutiche e la TAC che consentirà la concessione del brevetto a tutti i produttori di farmaci generici, con un abbattimento dei costi tale da consentire la distribuzione gratuita degli antiretrovirali in tutti gli ospedali pubblici sudafricani. Le esternalità positive prodotte dall’azione giudiziaria, promossa da espressioni associative della società civile, hanno progressivamente travolto l’intera Africa subsahariana.

Non ha un pari lieto fine la vicenda relativa al Sofosbuvir, farmaco di nuova generazione per la cura dell’Epatite C.

Le organizzazioni Medici Senza Frontiere (MSF), Médecins du Monde, Just Treatment e gruppi della società civile hanno presentato opposizione all’Ufficio Brevetti Europeo (EPO) con la richiesta di ritrattare – o quantomeno emendare in favore della tutela salva vita dei pazienti – la decisione relativa alla concessione del brevetto Sofosbuvir a favore della società farmaceutica Gilead. La società è titolare del brevetto e commercializza il prodotto a prezzi elevati dal 2013, mentre le riferite associazioni, per le caratteristiche scientifiche del farmaco e per i relativi costi contenuti di produzione, reputano ormai venuto meno il carattere dell’innovatività.

È noto che l’infezione può portare a cirrosi epatica e cancro del fegato. Infatti, L’OMS nel 2015 ha stimato che 325 milioni di persone nel mondo sono affette da infezione cronica da epatite, con 1,34 milioni di decessi correlati, con una particolare diffusione nei Paesi a basso livello di reddito.

La società Gilead ha commercializzato il Sofosbuvir nel 2013, dopo l’acquisizione della start-up Pharmasset, che aveva, a sua volta, sviluppato la ricerca sulla molecola. La commercializzazione ha preso avvio nel 2013 negli Stati Uniti, per poi giungere, nel 2014, in Europa. Questi anni sono stati caratterizzati da un monopolio assoluto della società farmaceutica. La medesima società ha successivamente consentito, in regime di licenza volontaria e dietro versamento di una royalty, la produzione del farmaco a undici case farmaceutiche indiane, con conseguente creazione di c.d. flussi di necessità per i pazienti europei.

È recente la decisione dell’EPO che ha confermato il monopolio della Gilead Sciences sul Sofosbuvir.

L’Italia ha inizialmente limitato il trattamento ai soli soggetti reputati gravi, quelli a rischio di trapianto, con un’inevitabile discriminazione tra medesimi malati. Attualmente, l’AIFA ha raggiunto un segretissimo negoziato con la società Gilead, al fine di consentire l’acquisizione di un altro farmaco di portata analoga al precedente. Il farmaco è così entrato, a prezzi elevatissimi, nella disponibilità del Sistema Sanitario Nazionale. Il risultato conseguito garantisce una piena accessibilità alla cura, fermi i limiti che possono frapporsi a livello ragionale in ragione dell’operatività del c.d. vincolo di bilancio per la spesa sanitaria.

Discriminazioni diverse si palesano all’orizzonte: da un lato, quella tra capacità economica delle regioni e dall’altro, la possibilità per pochi di utilizzare il farmaco principale Sofosbuvir, necessario in caso di incompatibilità con quello negoziato dal Sistema Sanitario Nazionale.

La razionalità economica in campo farmaceutico conduce a tre azioni prevalenti:

a) indirizzo della ricerca scientifica verso patologie tipicamente occidentali, quelle proprie di paesi economicamente agiati, come affezioni cardiovascolari, Parkinson o Alzheimer e dove il profitto è netto in ragione di una domanda caratterizzata da medio reddito e, per effetto, costituzione della categoria dei c.d. farmaci orfani (la cui domanda non giustifica il costo della ricerca);

b) costruzione di situazioni monopolistiche per farmaci che abbisognano di una elaborazione scientifica costosa per settori di mercato non sempre sufficienti;

c) valore dei farmaci stabilito in ragione del potere di acquisto dei Paesi.

L’utilità marginale è un calcolo quantistico che poco ha a che fare con la qualità del prodotto sottostante e con l’idoneità del medesimo a incidere sul diritto fondamentale-vita. Eppure la razionalità economica, che fonda la predilezione di rotta per il volume d’affari e il ritorno dell’investimento, produce un ordine meta-statuale che incide sul livello di tutela dei diritti fondamentali.

La fonte della discriminazione è, come nel caso precedente, il contratto, quello a valle dell’intrapresa economica, guidato da una logica razionale di efficienza economica che vincola la perseguibilità, in concreto, dei diritti fondamentali in vaste aree del mondo.

Le regole di privativa sono in sé neutre. Esse rispondono all’esigenza di protezione dell’investimento economico nell’attività di ricerca, elemento necessario di qualsiasi prodotto: dall’high tech fino alla farmacologia, senza alcuna distinzione sulla sua capacità di impatto concreto.

Cionondimeno, nell’osservare le regole del mercato emerge con chiarezza un dato: mentre siamo tutti garantiti nell’accesso ai beni di consumo – siamo tutti consumatori –, non siamo altrettanto garantiti, in parità di accesso, ai farmaci salvavita. È necessario appartenere a una categoria: ora relativa alla gravità/non gravità della malattia ora all’aspettativa statistica di vita ora alla cittadinanza.

A questa stregua, la sicurezza eteroimposta nel mercato dei beni di consumo, attraverso le discipline relative al diritto di recesso, alla garanzia dei beni di consumo e alle clausole vessatorie acquista un retrogusto amaro. Essa risponde alla medesima funzionalità del mercato, nel senso di garantire i contraenti rispetto alle attività di consumo e così alimentare la fiducia nel suo funzionamento. Qui la sicurezza assume il valore del suo sostituto funzionale (fiducia). Nel caso del mercato farmaceutico, invece, la razionalità impone scelte di sopravvivenza delle imprese. In quest’area, il mercato non necessita di meccanismi che incrementino il bisogno di sicurezza nelle contrattazioni, per la sua stessa promozione: siamo innanzi a “non scelte” di beni irrinunciabili. La razionalità economica riappare nella sua purezza, per misurare il mero valore di profitto.

4. Razionalità scientifica e stabilità del sistema.

Il concetto di fiducia nel mercato farmaceutico acquista il valore di sicurezza della qualità del prodotto, attestata dall’evidenza scientifica del percorso di creazione. La razionalità è qui resa dall’evidenza scientifica e, dunque, dalla sua legge.

A monte vi sono sempre delle espressioni dell’autonomia privata, questa volta si tratta delle clausole di non disclosure che accompagnano i contratti di ricerca.

Le clausole sono funzionali a tutelare la medesima attività di ricerca, di scoperta, che conduce alla brevettabilità per innovatività e originalità. Rispondono, in apice, a regole di razionalità economica, di controllo del mercato e di tutela dell’attività imprenditoriale e tuttavia capaci di incidere, in chiusura, sull’azionabilità dei diritti e sulla relativa tutela.

Un esempio chiaro di come la segretezza sia un aspetto fondamentale di questo tipo di produzione, al pari di tutti gli altri settori caratterizzati da alta innovatività, è rinvenibile nella sentenza del Consiglio di Stato n. 1213 del 17 marzo 2017.

Il Consiglio di Stato esamina la clausola di riservatezza, relativa alla contrattazione intervenuta tra l’AIFA e la Gilead Sciences sulla rimborsabilità del prezzo relativo ai già noti farmaci Sovaldi e Harvoni, e la reputa legittima, anche alla stregua di un controllo di meritevolezza. Conclude il Consiglio:

“non v’è una norma che direttamente o indirettamente vieti, chiaramente e nettamente, la stipula di accordi di riservatezza in relazione agli interessi commerciali di un’impresa”.

Tuttavia, nell’affermazione di principio richiama le ragioni della scelta caduta su una procedura di contrattazione diretta, in luogo di quelle proconcorrenziali proprie della PA. Il Consiglio di Stato spiega che, quando il segmento di riferimento è quello dei farmaci coperti da brevetto e ammessi al rimborso del Sistema Sanitario Nazionale, per il loro potenziale terapeutico, “il monopolista può portare il prezzo al di sopra del livello di equilibrio senza con ciò subire la sanzione da parte del mercato, come avverrebbe in un sistema competitivo, dall’altro il consumatore che ha un problema di salute potenzialmente risolvibile con un farmaco non è interessato a ricercare il punto di ottimo tra benefìci e costi, e soprattutto – con specifico riferimento ai farmaci in fascia A rimborsabili – non è indotto a cercare il prodotto che minimizza i costi, poiché l’onere finanziario per l’acquisto è sostenuto dal Sistema sanitario pubblico sulla base di una decisione pubblica di protezione della salute collettiva”.

Con riferimento poi alla clausola di riservatezza, il Consiglio di Stato giustifica la sua presenza in senso biunivoco, sia come difesa del medesimo produttore sia come mezzo utile, per il negoziatore pubblico, a ottenere maggiori vantaggi in termini economici.

Dunque le clausole di riservatezza si dimostrano essenziali in caso di contrattazione a valle, al pari di quanto lo siano, a monte, in fase di ricerca innovativa. Ma cosa accade quando esse producono la c.d. publication bias? Il riferimento è al caso di vincolo di non divulgazione dei risultati negativi inerenti alla ricerca finanziata da un soggetto privato. La ragione di simili clausole è rintracciabile nella necessità di controllare il mercato dei possibili fruitori. Un clima positivo – di fiducia appunto – dell’opinione pubblica rispetto all’oggetto della ricerca diventa fondamentale per creare un clima di sicurezza rispetto al risultato.

Questa sicurezza non è quella del risultato scientifico in sé, ma quella dovuta all’applicazione della razionalità economica, anche detta avviamento del prodotto. È stato chiarito in proposito che quando “una razionalità economica usurpa una razionalità scientifica, sostituendo il codice scientifico con quello economico, la violazione della libertà di scienza è evidente. Ma proprio questo normalmente non avviene nel publication bias.

L’industria farmaceutica si guarda, saggiamente, dall’intervenire direttamente nei processi di ricerca e dettare risultati agli scienziati. […] Le manipolazioni di cui si parla qui sono di gran lunga più sottili e tanto più pericolose perché si inscrivono in maniera quasi impercettibile nello stesso processo scientifico, creando il publication bias. Perciò è anche difficile produrne una prova. Solo dispendiose ricerche empirico-statistiche, come si scrivevano una volta, potrebbero finalmente dimostrare la falsificazione sistematica del processo di pubblicazione”.

Quanto detto fa il paio con quanto già noto in materia di giurisprudenza sul danno da vaccino e impone un ripensamento o, quanto meno, una riflessione sulle razionalità che vincolano le decisioni e, da qui, le tutele.

È nota la giurisprudenza, anche della Corte costituzionale, sul danno da vaccino. In sintesi, in caso di vaccino obbligatorio, il danno – nelle forme dell’indennizzo previsto dalla l. n. 210 del 1992 – è riconosciuto là dove sussista un nesso causale tra somministrazione del vaccino e danno patito dal soggetto passivo del trattamento sanitario obbligatorio. Tuttavia, attesa la riconosciuta irrilevanza del nesso fattuale tra tempo di inoculazione del vaccino e manifestazione del danno, l’unico riferimento ammissibile per la configurazione di quel nesso è proprio la legge scientifica. È la questione della probabilità logico-scientifica fondata sul legame eziologico ricostruito su coefficienti scientifici di tipo probabilistico o su c.d. evidenze scientifiche. Insomma, l’evidenza scientifica acclarata può essere abbattuta soltanto là dove sia possibile provare il suo opposto: l’incertezza scientifica. La prova diventa diabolica allorché non vi siano analisi di segno contrario o se queste siano cadute nel c.d. publication bias.

Anche la Corte di giustizia affronta la questione e sposta l’attenzione sul vizio del prodotto, ammettendo che l’incertezza si possa rintracciare nella produzione del vaccino. A proposito della somministrazione di un vaccino antiepatite e la successiva comparsa della sclerosi multipla, la Corte apre un varco:

“il nesso causale tra difetto del vaccino e danno provocato a séguito della somministrazione non deve essere determinato in maniera scientifica e avallato dalla ricerca medica”, con l’avvertenza comunque “che la sussistenza di un nesso di causalità tra vizio del vaccino e danno non possa considerarsi dimostrata dalla mera presenza di indizi fattuali predeterminati (quali la vicinanza temporale tra somministrazione ed insorgenza, l’assenza di precedenti familiari e personali rispetto alla patologia)”.

Rispetto alla legge scientifica, ritorna dunque la possibilità di agire in un’unica chiave: la produzione del bene. In questo senso, è possibile dimostrare come le attività di esportazione del prodotto al mercato abbiano inciso sulla sua assenza di qualità, tanto da essere causa di un danno alla vita del soggetto.

Ancóra una tutela di mercato, che riecheggia quella da prodotto difettoso. Il linguaggio economico diventa sovrabbondante al pari della logica di eguagliare tutto in un’unica funzione: la generale ed astratta legittimazione ad agire per la tutela di una propria situazione soggettiva mostra la corda nella selettività delle categorie economiche riconosciute al piano della protezione. L’azionabilità della tutela diventa possibile soltanto quando non si scontra con l’inamovibilità della legge scientifica e ritorna a parlare un linguaggio di mercato, ossia quello della qualità della produzione.

III. ALTERITÀ ARTIFICIALI (O ECCEDENZE DI ALTERITÀ) E ESPULSIONE DELLA DIFFERENZA.

Il tema di fondo è quello delle presunte sicurezze che attraversano i relativi linguaggi, ergono sistemi distinti e non comunicanti. Il mercato, attraverso i suoi strumenti, da luogo espressivo delle libertà economiche di ciascuno trova la sua stabilizzazione attraverso la continua produzione di alterità, rese necessarie dal linguaggio di efficienza. Gli esempi precedenti raffigurano spaccati di interferenza tra esigenze di sicurezza del mercato – nelle declinazioni fiducia nel mercato/fiducia o avviamento al prodotto – e diritti fondamentali. È altresì evidente che i secondi subiscano forti compressioni attraverso una logica di esclusione che muove dalla tenuta del singolo sistema.

Tanto si è visto accadere nel sistema finanziario, con l’elezione dei “fuori casta”, di coloro cioè che sono considerati statisticamente inidonei a ricevere il finanziamento. L’apertura, in questo caso, provocherebbe un vulnus di funzionamento e un aumento del rischio legato al recupero del credito.

Le immagini contenute nei paragrafi 2.3 e 2.4 mostrano un ambiente a tenuta stagna, completamente autoreferenziale e insensibile ai diritti sottostanti. Gli episodi si snodano con un lemma comune di razionalità/efficienza, che spiega i suoi effetti in una doppia direzione:

a) scelte di return on investiment e return on equity necessarie per il rientro del costo sostenuto per la medesima attività di ricerca, momento necessario alla scoperta scientifica;

b) politiche di protezione del prodotto che incidono sulla concreta possibilità di tutela, attraverso l’effetto distintivo tra categorie di soggetti tutelabili e possibilità concreta dell’azione.

Era il 1978 quando la Corte costituzionale riconosceva la necessità di estendere la protezione brevettuale alle scoperte scientifiche in materia medicale e rilevava che non corrispondeva “a realtà la preoccupazione di favorire (o di non impedire) il “rincarimento” dei prezzi dei medicinali come conseguenza dei diritti di esclusiva a profitto di chi detiene il brevetto, perché i prezzi dei prodotti farmaceutici sono determinati e modificati di imperio sia in base alle leggi sanitarie sia per effetto della normativa sul Comitato interministeriale prezzi (cfr. da ultimo per il C.I.P. art. 33 d.l. 26 ottobre 1970, n. 745). Del resto, l’esperienza degli altri paesi, nei quali è ammessa la brevettabilità dei prodotti farmaceutici (o quanto meno dei procedimenti di fabbricazione), dimostra come non sia possibile stabilire un legame di causa-effetto tra brevettabilità e livello dei prezzi, risultando ovunque il mercato dei medicinali largamente corretto da interventi autoritativi, che debbono tener conto non solo del costo delle materie prime e della mano d’opera, del normale profitto e della spesa di confezionamento, ma pure della possibile diffusione del farmaco, dell’incidenza della ricerca, nonché di altri fattori più peculiari”.

La normativa allora vigente sui brevetti si componeva con il Regio Decreto 29 giugno 1939, n. 1127, che prevedeva un onere di attuazione della privativa nel territorio dello Stato “in misura tale da non risultare in grave sproporzione con i bisogni del paese” e dall’art. 54 della stessa legge nel nuovo testo disposto dall’art. 1 del D.P.R. 26 febbraio 1968, n. 849.

Entrambe le disposizioni sono state abrogate e, nella specie, dal d.lg. n. 30 del 2005. Ma merita, comunque, un richiamo il citato art. 54, che faceva dipendere dall’insufficiente attuazione del brevetto, misurata con la “grave sproporzione con i bisogni del Paese”, la concessione di “licenza obbligatoria per l’uso non esclusivo dell’invenzione medesima, a favore di ogni interessato che ne faccia richiesta”. Il sistema contrastava dal suo interno la rarefazione del prodotto, come conseguenza della privativa.

Questa è l’origine storica del contesto attuale, nel quale sono venuti meno i correttivi di sistema, che per quanto orientati sulla domanda del singolo Stato membro avevano al fondo una razionalità aggregata di funzionamento, capace di bilanciare gli interessi contrapposti e spiegare la funzione normativa in una prospettiva di trasformazione.

Attualmente, nel microcosmo di mercato puro, nel quale il brevetto farmaceutico trova disciplina, si è passati dalla privativa ventennale rinnovabile per altrettanti anni, alla riduzione del tempo del rinnovo a cinque anni. Il tempo è considerato necessario per il recupero dei costi di ricerca, tanto che la prosecuzione del brevetto opera come riutilizzazione degli anni tra il deposito della domanda del brevetto a quello dell’effettiva commercializzazione. Il meccanismo è, insomma, costruito per garantire l’effettiva copertura dei costi necessari per la ricerca scientifica sul prodotto che conduce alla sua commercializzazione.

È evidente che siamo in un mercato a sé stante o almeno con un funzionamento a sé stante: la Corte di giustizia ha coniato un nuovo principio, quello di concorrenza sui meriti con funzione terapeutica di mercati fortemente condizionati da posizione dominante.

La Corte, insomma, riconosce lo stato dell’arte, soprattutto nel mercato farmaceutico, e cerca di recuperare il bandolo della matassa attraverso la considerazione che dichiarazioni ingannevoli o prive di trasparenza danno luogo a un abuso di posizione dominante, senza favorire una concorrenza sui meriti. In particolare, la Corte funzionalizza la c.d. concorrenza sui meriti agli interessi dei consumatori, anche in condizione di protezione con privativa e correlata posizione dominante. Il passaggio è netto e cerca di bilanciare le legittime pratiche protettive della singola posizione concorrenziale e il vantaggio per gli utenti ultimi del peculiare mercato. L’impressione è che un bagliore sia rintracciabile proprio in questo frangente e cioè nel riconoscere in via diretta azione ai consumatori e relative associazioni, ciò proprio alla stregua di quanto stabilito dall’art. 140 bis del codice del consumo. È infatti superata da tempo la scissione tra regole di mercato, proprie dei rapporti tra imprese, e rapporti contrattuali a valle, ai fini della valutazione di pratiche non competitive. La questione è, al più, quella di superare le maglie del diritto dei consumi, entro le quali ha maggiore difficoltà a trovare sistemazione il prodotto farmaceutico, se non nei limiti di prodotto di consumo difettoso.

Ma se l’autonomia privata incide con regole di mercato sulla misura di tutela del fondamentale diritto alla vita, gli anticorpi rimediali vanno riconosciuti nel medesimo sistema e generalizzati in ragione della tutela del bene primario. La matrice del conflitto risulta allora riformulata: tra difettosità del prezzo, in ragione della sua non rispondenza ai costi di produzione con forte elisione del diritto alla tutela del bene vita, e tutela di malattie sociali (razionalità economica vs. razionalità sociale), con possibile incidenza sul tempo di durata del brevetto.

Insomma, il filo scarlatto del quale si parlava in apertura, a proposito delle immagini a confronto, è rintracciabile nell’elevazione del concetto di sicurezza dalle singole regioni di attuazione, in un diverso livello di normalizzazione. È in fondo un ritorno alla sicurezza esaminata da Foucault, proprio con riferimento alle malattie pandemiche. Queste ultime sono, infatti, ragioni di paura di massa, di insicurezza collettiva, di delimitazione dei rapporti, di espulsione di alterità, eppure nella storia del XVII e XVIII secolo hanno consentito lo sviluppo di “differenti tecnologie di sicurezza” capaci di trasformare la categoria “di malattia regnante”, quale “specie di malattia sostanziale che fa corpo con uno stato, una città, un clima, un gruppo di persone, una regione, una maniera di vivere”, in integrazione dei “fenomeni individuali in campo collettivo”. Qui la norma, con la sua capacità normalizzatrice, torna ad essere “un gioco all’interno di normalità differenziali”.

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