Principi bioetici e politiche di gestione della pandemia.

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Autor: Fabio Macioce, Full professor of Philosophy of Law and Bioethics LUMSA-Roma. Correo electrónico: f.macioce@lumsa.it

1. Le epidemie non sono, certamente e tragicamente, una novità nel panorama clinico mondiale; e tuttavia la diffusione, e la rapidità, con cui il nuovo Coronavirus SARS-CoV-2 (COVID-19) si è diffuso su scala mondiale sono davvero impressionanti. In tal senso, e comprensibilmente, tutti gli osservatori hanno sottolineato l’entità senza precedenti delle misure di contenimento adottate da moltissimi paesi, in tutto il pianeta.

Sul piano giuridico, l’esperienza della pandemia COVID-19 ha condotto ad una inedita – almeno, per la maggior parte di noi – situazione di compressione di alcuni diritti fondamentali, di alcuni spazi di libertà che erano sempre stati considerati come scontati e garantiti, almeno in questa parte di mondo. La libertà di movimento, di riunione, di culto, il diritto all’istruzione, il diritto al lavoro, la libertà di iniziativa economica, pur con differenti gradi e modalità, sono state compresse e limitate in nome della tutela del diritto alla salute: del diritto alla salute individuale, certo, ma anche e soprattutto in nome del diritto “sociale” alla salute, ovvero alla presenza di un sistema sanitario accessibile, efficiente, egualitario.

Di principio, è una possibilità che ogni teorico delle istituzioni conosce bene. Lo diceva già Cicerone (salus rei publicae suprema lex… dove “salus” è salvezza ma anche salute, benessere), ma si può citare, in modo ancor più appropriato, Machiavelli: quando è in gioco la salvezza dello Stato – oggi possiamo dire: di una sua struttura fondamentale, come il sistema sanitario – “non vi debba cadere alcuna considerazione né di giusto né di ingiusto, né di pietoso né di crudele, né di laudabile né di ignominioso”. Tutto è permesso, insomma, se la posta in gioco è così alta.

In una prospettiva bioetica, l’esperienza della pandemia si sta rivelando una sorta di stress-test, un banco di prova per tutti quei principi che disciplinano (mi si perdoni una definizione molto generica di “bioetica”) l’applicazione delle tecnologie e delle conoscenze scientifiche, e quindi la ricerca biologica e medica, alla salute e alla vita umana. Non è dunque un caso che in questi mesi le più importanti istituzioni internazionali nel campo della bioetica (tra cui, ad esempio, l’EGE – European Group on Ethics in Science and New Technologies; il DH-BIO – Committee on Bioethics at the Council of Europe; l’IBC – UNESCO International Bioethics Committee; il COMEST – Commission on the Ethics of Scientific Knowledge and Technology), così come numerosi Comitati etici e bioetici nazionali, si siano espresse per affermare i principi che devono guidare le politiche e gli interventi per contenere la diffusione della pandemia, per indirizzare le attività di ricerca, per favorire la cooperazione internazionale, e per garantire i diritti e la dignità delle persone coinvolte.

2. L’esperienza di passate epidemie ha infatti dimostrato che senza solide garanzie, e senza una forte affermazione dei principi etici che devono guidare l’azione pubblica e privata, le misure di politica sanitaria adottate per fronteggiare l’emergenza possono condurre a inaccettabili violazioni dei diritti umani e dei principi fondamentali che pure consideriamo acquisiti (BATLAN F.: “Law in the time of cholera: disease, state power and quarantines past and future”, in Temple Law Rev 2007, 80). Al contrario, l’integrazione dei principi etici rilevanti nella pianificazione delle politiche di contenimento della pandemia non soltanto garantisce che tali politiche siano implementate nel quadro di principi acquisiti e limiti chiari, ma può anche contribuire a rafforzare la cooperazione da parte dei cittadini nell’attuazione di tali politiche, a rafforzare la fiducia nelle scelte delle istituzioni competenti, e a ridurre i risultati indesiderati (LEMON, S.M., HAMBURG, M.A., SPARLING, P.F., CHOFFNES, E.R., MACK. A.: Ethical and legal considerations in mitigating pandemic dis¬ease: workshop summary, The National Academies Press, Washington, 2007).

Come ha correttamente sottolineato il Nuffield Council in una recente dichiarazione sulle politiche sanitarie di gestione della pandemia, “trust is essential in order to maintain support on the part of the general public for the measures proposed: without such trust, compliance with those measures is likely to be low” (Nuffield Council of Bioethics: “Ethical considerations in responding to the COVID-19 pandemic”, 2020, p. 3). In questo senso, una comunicazione chiara, trasparente, e affidabile delle “misure” adottate e delle giustificazioni che le sostengono, da parte delle istituzioni pubbliche, è assolutamente prioritaria perché tale fiducia possa costruirsi e mantenersi. Allo stesso tempo, la chiarezza sugli “obiettivi generali” delle politiche sanitarie adottate è fondamentale: discutere di “immunità di gregge” in modo confuso, non trasparente, e spesso contraddittorio – cosa purtroppo avvenuta in alcuni paesi europei, è certamente una scelta che non contribuisce a costruire un rapporto di fiducia fra cittadini e istituzioni pubbliche; così pure, una comunicazione trasparente in merito alla allocazione delle risorse disponibili, alle priorità e alle possibili scelte di razionamento nell’assistenza sanitaria (le decisioni relative al triage in condizioni di emergenza) è assolutamente fondamentale, al fine di consentire un controllo da parte dell’opinione pubblica sull’equità nelle scelte effettuate, e dunque un rapporto di fiducia fra decisori pubblici e popolazione.

In modo analogo, sono importanti le “modalità” attraverso le quali le decisioni politiche sono comunicate e attuate. Sebbene le misure di contenimento, e dunque la compressione di alcuni diritti fondamentali, siano giustificate sul piano strettamente giuridico e costituzionale (o, almeno, “possono” esserlo), il modo in cui tale compressione è attuata, e il modo in cui è comunicata, incidono profondamente sulla fiducia che le persone sono disposte a riporre nei decisori pubblici, a prescindere dalla legittimità formale di queste stesse misure. È insomma fondamentale – sottolinea ancora il Nuffield Council – che i cittadini percepiscano tali decisioni come rispettose della loro dignità e del loro valore “as individuals”, ovvero non solo come parte di un “gregge”, e come titolari di “equal moral worth with all others” (Nuffield Council of Bioethics: “Ethical considerations in responding to the COVID-19 pandemic”, 2020, p. 4), senza cioè che alcuni percepiscano i sacrifici imposti dalle politiche sanitarie come pesi distribuiti in modo diseguale fra la popolazione.

È cruciale, altresì, che a fronte dei sacrifici imposti ai cittadini, lo Stato adotti misure straordinarie per sostenerli, e non solo dal punto di vista economico. Sostenere le famiglie, i minori, gli anziani, i soggetti più vulnerabili, oltre che le imprese e le attività economiche, è un compito che le istituzioni devono assolvere non solo dal punto di vista materiale (assegni di disoccupazione, o estensione di altre misure di sostegno economico), ma anche dal punto di vista pratico, della gestione della quotidianità e delle esigenze personali; dimostrare che questi problemi sono affrontati, che sono presi seriamente in considerazione, è ancora una volta cruciale per costruire, e rafforzare, un legame di fiducia fra cittadini e decisori pubblici, a sua volta indispensabile per una piena attuazione delle misure di politica sanitaria in un contesto liberal-democratico.

Il bisogno di fondare sul piano etico – e di giustizia – le misure adottate è tuttavia importante anche da un secondo punto di vista. Tutte queste misure infatti non rappresentano soltanto un peso per la popolazione: esse rappresentano anche un notevole, e incredibilmente rapido, mutamento di paradigma sul piano culturale, determinando uno spostamento del cardine dell’etica clinica dal “singolo individuo-paziente all’interesse pubblico”. Dal dovere di assistenza del singolo come priorità e criterio etico fondamentale, si determina infatti uno spostamento significativo verso il dovere di promozione dell’uguaglianza delle persone e dell’equità nella distribuzione dei rischi e benefici per la società, come criteri etici fondamentali. È necessario sottolineare come questo passaggio non implichi la contrapposizione fra l’interesse individuale e quello collettivo, quanto piuttosto l’adozione di una “prospettiva relazionale”, in ragione della quale l’autonomia della persona si manifesta “sempre” (non solo durante le pandemie) all’interno di reti di relazioni sociali, e che gli individui in quanto interni a tale sistema di relazioni hanno interessi che non sono distinti da quelli della società nel suo insieme [BAYLIS F., KENNY, N.P., SHERWIN, S.: “A relational account of public health ethics”, in Public Health Ethics, 2008; 1(3)].

Questo passaggio ad una nuova prospettiva non è banale sul piano concettuale – pur se certamente sensato e possibile – e può essere fonte di incertezza per i soggetti coinvolti: il personale sanitario, e i pazienti. Poiché tutti sono chiamati a confrontarsi con una pratica clinica che ruota intorno ad un cardine diverso dal solito, in altre parole, è fondamentale che siano chiari i principi eticamente rilevanti, i criteri etici che devono essere presi come riferimento per l’assistenza durante le emergenze, in cui peraltro la scarsità di risorse (di personale, di tempo, e materiali) è un fattore di ulteriore aumento di tensione. Solo un quadro di principi eticamente convincente può, in tale contesto, rendere le politiche pubbliche, e l’azione individuale, accettabili e sostenibili (Hastings Center: “Ethical Framework for Health Care Institutions Responding to Novel Coronavirus SARS-CoV-2 (COVID-19). Guidelines for Institutional Ethics Services Responding to COVID-19”, 2020).

3. In questa prospettiva, i principi più rilevanti, ovvero quelli che più direttamente entrano in gioco nella gestione della pandemia e che perciò più profondamente devono segnare le politiche sanitarie, sono stati ben individuati dalle istituzioni internazionali che si sono pronunciate finora.

Un primo gruppo di principi si colloca in una prospettiva molto generale, e richiede un orientamento delle politiche sanitarie che, da un lato, ne limiti per quanto possibile l’impatto, e dall’altro assicuri che tali interventi siano percepiti come accettabili, giustificati, e quindi correttamente implementati. In tal senso, già in contesti epidemici passati, si è riconosciuta la rilevanza di quattro principi fondamentali: il principio del “danno”, in ragione del quale ogni misura di contenimento e compressione dei diritti è ammissibile solo se si indicano in modo chiaro e misurabile i danni che l’assenza di tali misure produrrebbe (il no harm principle, interno alla tradizione liberale); il principio di “proporzionalità”, in virtù del quale le misure di contenimento devono essere le meno restrittive e invasive possibili, devono essere proporzionate all’entità del rischio, e devono essere adottate secondo un criterio progressivo, ovvero partendo da misure meno invasive e proseguendo con livelli crescenti di severità; terzo, il principio di “reciprocità”, in ragione del quale i sacrifici chiesti ai cittadini devono essere bilanciati da servizi e forme di sostegno da parte delle istituzioni pubbliche (in termini di cibo, sostegno economico e psicologico, e protezione), impedendo che la compressione delle libertà si traduca in deprivazione economica e emarginazione sociale; infine, il principio di “trasparenza”, per il quale le istituzioni pubbliche e le autorità competenti hanno il dovere di comunicare con chiarezza e tempestività le ragioni e gli obiettivi degli interventi adottati, e devono giustificare pubblicamente le loro scelte sottoponendole al giudizio dell’opinione pubblica.

Se questi sono principi molto generali, altri principi vengono in considerazione nell’analisi delle politiche sanitarie in contesti epidemici, principi dotati di una maggiore cogenza dal punto di vista giuridico, oltre che etico. Sul punto è meritevole di attenzione la dichiarazione del DH-Bio: “Statement on human rights considerations relevant to the COVID-19 pandemic”, 14 Aprile 2020. In tale dichiarazione, si ribadisce in primo luogo la necessità di garantire un “accesso equo” alle cure e ai servizi sanitari: tale principio, il cui fondamento si trova nell’art. 3 della Convenzione di Oviedo (Convenzione sui diritti umani e la biomedicina), impone che l’accesso alle cure e ai servizi sanitari di qualità, anche in contesti segnati dalla di scarsità di risorse, sia garantito su un piano di eguaglianza. Il che significa, nel caso dell’epidemia di COVID-19, che le condizioni individuali non devono produrre discriminazioni in termini di accesso alle cure, e che per contro tale accesso sia determinato esclusivamente da criteri clinici. È pertanto necessario che anche in contesti di scarsità di risorse (ad esempio, a causa del numero limitato di posti letto in terapia intensiva) sia garantita la protezione dei soggetti vulnerabili, come persone con disabilità, anziani o migranti, e che l’eguaglianza sia rispettata tanto nel fornire le cure necessarie ai pazienti, quanto nelle misure di supporto e protezione per le persone più colpite dalle politiche di contenimento e lockdown.

Il secondo principio che si considera particolarmente rilevante nel contesto della pandemia e delle politiche di contenimento è sancito dall’art. 10 della Convenzione di Oviedo, che afferma il diritto alla riservatezza dei dati sanitari. È infatti noto, e ampiamente dibattuto sui media, il ruolo che la gestione e l’analisi dei dati sanitari, e dei dati relativi agli spostamenti individuali, potranno giocare nel contenimento della pandemia; tuttavia, si sottolinea come tutte le politiche sanitarie e di ordine pubblico debbano necessariamente essere attuate nel rispetto dei principi democratici e dei diritti fondamentali, fra cui anche, per l’appunto, il diritto alla protezione dei propri dati, e ciò con forza ancora maggiore laddove tali dati siano qualificati come “sensibili” (come per l’appunto i dati sanitari). Sul punto, opportunamente, si è espresso di recente anche il Garante Europeo per la protezione dei dati, ribadendo – nella prospettiva per cui “big data means big responsibilities” – che “the processing of personal data should be designed to serve mankind”, e che la protezione dei dati non è un principio assoluto e non comprimibile, ma va considerato in relazione alla sua funzione sociale e bilanciato con la garanzia di altri diritti. E pertanto, anche l’uso e la gestione di dati sensibili come quelli sanitari “can be achieved when processing is necessary for reasons of substantial public interest” (WIEWIÓROWSKI, W.: “EU Digital Solidarity: a call for a pan-European approach against the pandemic”, 6 Aprile 2020). A tal proposito, il DH-Bio richiama l’attenzione sul fatto che la Convenzione di Oviedo, all’art. 26, riconosce la possibilità che l’esercizio di alcuni diritti sia compresso, proprio in vista della garanzia di interessi pubblici, ma ricorda che ogni compressione – così anche la giurisprudenza della Corte EDU – deve essere motivata da ragioni di necessità e ispirata da un criterio di proporzionalità.

Un altro aspetto cruciale è relativo al consenso. Vero è infatti che l’art. 8 della Convenzione di Oviedo dispone che se, in ragione di una situazione di emergenza (e certamente tale può essere, in molti contesti, quella determinata dalla diffusione del virus), non è possibile ottenere il consenso della persona interessata, si può procedere immediatamente a qualsiasi intervento medico indispensabile per il beneficio della salute della persona stessa. E tuttavia, come giustamente sottolineato dall’Hastings Center, sarà opportuno prevedere “specifiche linee guida” per rendere possibile un effettivo consenso informato nel contesto specifico del COVID-19, ad esempio relative all’uso di documenti di pianificazione dell’assistenza preventiva durante la fase di emergenza, o relative a pazienti in triage o in isolamento che siano privi di adeguata capacità (Hastings Center: “Ethical Framework for Health Care Institutions Responding to Novel
Coronavirus SARS-CoV-2 (COVID-19). Guidelines for Institutional Ethics Services Responding to COVID-19”, 2020, 5).

Infine, è necessario ribadire che la ricerca clinica e farmacologica in contesti di emergenza (la ricerca di un possibile vaccino, o di protocolli terapeutici, ad esempio) può certamente essere effettuata, anche perché in assenza di tale ricerca difficilmente le condizioni dei pazienti più critici potrebbero migliorare. E tuttavia, proprio perché in tali contesti più che in altri i pazienti possono essere impossibilitati a manifestare un consenso valido e informato, è necessario stabilire quali ulteriori garanzie siano necessarie per procedere con tali ricerche cliniche e farmacologiche, onde evitare abusi e violazioni dei diritti delle persone.

4. Alla luce i tali principi, pertanto, devono essere pianificate le politiche e gli interventi per far fronte alla pandemia, ma devono anche essere gestiti i rischi e i problemi che tali politiche portano con sé. Il bilanciamento fra le misure di sanità pubblica e la garanzia dei diritti e del benessere individuale è reso particolarmente complesso, infatti, dalla molteplicità di effetti sociali, economici e sanitari sugli individui, e soprattutto dalla non diretta reciprocità fra tali effetti negativi (che possono ricadere in modo più intenso su alcuni soggetti e alcune fasce della popolazione) e i benefici in termini di salute individuale o pubblica (che per le caratteristiche di questa epidemia tendono a colpire più intensamente alcune fasce della popolazione che altre, e alcune zone più di altre).

E così, su un piano molto generale, tali principi devono essere tenuti in considerazione quando si gestiscono le conseguenze della chiusura delle scuole, degli istituti di istruzione superiore e delle università, valutando l’impatto di tali decisioni sullo sviluppo e – in alcuni casi – sul futuro professionale dei giovani coinvolti, così come sulle difficoltà per le famiglie di bilanciare la ripresa delle attività produttive e professionali con la cura e l’istruzione dei minori. O ancora, tali principi devono essere considerati nel bilanciamento fra l’esigenza di mantenere un distanziamento sociale e una riduzione dei contatti fra gli individui, e le possibili conseguenze sulla salute mentale e il benessere delle persone, soprattutto dei soggetti più vulnerabili.

Problemi più specifici sono, similmente, suscettibili di essere affrontati alla luce di tali. Ad esempio, le questioni relative al triage, e all’allocazione delle risorse (sia in termini di macro-allocazione che di micro-allocazione) devono essere affrontate alla luce dei principi di equità, trasparenza, e proporzionalità. Nei contesti emergenziali è infatti possibile che le necessità direttamente legate al fattore di rischio primario (nel nostro caso, l’insorgenza della COVID-19) siano “costantemente e ingiustificatamente rese prioritarie” rispetto ad ogni altra necessità, sia in campo clinico che in campo sociale. È invece necessario che ogni bisogno sia considerato per la sua rilevanza intrinseca, e che la gestione dell’emergenza non si traduca in un aggravamento o, peggio, in una assenza nella risposta alle altre necessità e agli altri bisogni. Non soltanto le altre patologie non scompaiono durante un’emergenza, ma proprio in ragione della rimodulazione delle priorità delle politiche pubbliche e delle decisioni nella gestione dell’assistenza, possono aggravarsi sensibilmente.

Più noti, e ampiamente dibattuti, sono i problemi legati alla sorveglianza e al controllo delle persone. Sul primo aspetto, si considera generalmente accettabile che i dati anonimi siano raccolti e utilizzati anche senza consenso, a condizione che qualsiasi violazione della privacy sia ridotta il più possibile (Nuffield Council of Bioethics: “Guide to the ethics of surveillance and quarantine for novel coronavirus”, 2020); tuttavia, si può considerare eticamente giustificato anche l’utilizzo di dati non anonimi senza il consenso dei soggetti, ove ciò servisse ad evitare danni significativi agli altri. Per ciò che riguarda il controllo delle persone, si ritiene che il personale sanitario abbia generalmente il dovere di segnalare alle autorità competenti i casi di sospetto contagio da coronavirus; anche in tal caso, infatti, la prevenzione di danni significativi alle altre persone, e specialmente ai soggetti più a rischio, può giustificare la compressione del diritto alla riservatezza e l’attuazione di misure di controllo. In entrambi i casi, tuttavia, il principio di proporzionalità e di minimizzazione della gravosità della misura devono essere rispettati.

Meno dibattuti, purtroppo, sono i problemi legati alla condizione dei soggetti vulnerabili, che certamente sono colpiti in modo particolarmente severo, e molteplice, in questo periodo. Se infatti consideriamo la vulnerabilità (così il United Nations Department of Economic and Social Affairs: “United Nations Report on the World Social Situation: Social Vulnerability: Sources and Challenges”, New York, 2003) come una parte integrante della condizione umana, e specificamente “a state of high exposure to risks and uncertainties, in combination with a reduced ability to protect or defend oneself against those risks and uncertainties and cope with the negative consequences”, l’effetto della pandemia sui soggetti vulnerabili è particolarmente evidente. La vulnerabilità è infatti un elemento che accomuna ogni soggetto, e che dipende sia dalla nostra corporeità e della nostra esposizione a malattie e incidenti, sia dalla nostra condizione “sociale”: la relazionalità umana può certamente essere fonte di sostegno e cooperazione, ma anche di conflitto e debolezza (FINEMAN, M.A.: “The Vulnerable Subject: Anchoring Equality in the Human Condition”, Yale Journal of Law & Feminism, 2008, 20; BUTLER J.: Precarious Life: The Powers of Mourning and Violence, Verso, London, 2004). L’idea stessa del distanziamento sociale al fine di evitare i contagi rivela, con tutta evidenza, questa dimensione sociale della vulnerabilità umana. E tuttavia, come si comprende dalla definizione su enunciata, non tutti siamo egualmente vulnerabili: la nostra vulnerabilità è infatti influenzata dalle risorse (interpersonali, legali, economiche, ecc.) di cui dispone o alle quali ha accesso, e grazie alle quali può fronteggiare i rischi e i danni cui siamo esposti: e le risorse di cui disponiamo o cui abbiamo accesso dipendono in larga misura da quelle che la società fornisce e mette a nostra disposizione.

Tali risorse possono essere classificate in (almeno) tre gruppi principali (KIRBY P.: Vulnerability and Violence. The impact of Globalization, Pluto Press, London, 2005, p. 55): risorse materiali, risorse personali, risorse sociali. Ora, le istituzioni possono fornire alle persone quantità variabili di beni materiali (attraverso sussidi, politiche fiscali, politiche sul credito, e così via…), ma possono anche influenzare le risorse personali e sociali di cui dispongono: le regole per l’accesso ai servizi sanitari (ad esempio fra cittadini e stranieri, e fra migranti regolari e migranti in condizioni di irregolarità), le politiche sul sistema scolastico, le politiche per l’impiego, sono modalità attraverso cui le istituzioni condizionano le risorse di cui ciascuno di noi dispone per far fronte ai rischi e alle difficoltà cui la diffusione del virus ci espone. Allo stesso modo, le modalità con cui è disciplinata l’azione e la struttura delle famiglie, delle associazioni, dei sindacati e dei gruppi religiosi, ad esempio, possono influire molto sulle risorse relazionali di cui disponiamo, aumentando o diminuendo la nostra capacità di far fronte ai rischi, e dunque la nostra vulnerabilità.

La diffusione del virus, in altre parole, rappresenta uno di quei “rischi” cui, in quanto esseri umani, siamo naturalmente esposti, e che ci rendono, tutti, soggetti vulnerabili. Ma le risorse di cui disponiamo per far fronte a tale rischio non sono le stesse, evidentemente, e le politiche che i governi stanno attuando per far fronte all’emergenza sanitaria possono, allo stesso tempo, essere elementi di riduzione e di aumento della vulnerabilità per differenti categorie di soggetti, anche in modo molto severo. Se infatti le strategie di distanziamento sociale e di lockdown sono orientate alla protezione di “alcune” categorie di soggetti particolarmente vulnerabili (gli anziani, ad esempio), determinano un significativo aumento della vulnerabilità per altri. È per questa ragione che, opportunamente, in tutti i paesi Europei i governi stanno adottando misure di sostegno economico per le imprese e i singoli lavoratori; e tuttavia mi pare che altre categorie di soggetti vulnerabili siano molto meno garantite, finora, e che le loro condizioni siano esposte ad un significativo peggioramento: tra essi certamente i migranti in condizioni di irregolarità, i detenuti, le persone in condizioni di emarginazione sociale e senza dimora, i disabili, tutti soggetti che potrebbero vedere un radicale peggioramento delle loro condizioni di vita a causa del lockdown, e che nella maggior parte dei casi sono completamente trascurati dalle misure adottate finora.

Come ha correttamente sottolineato l’UNESCO International Bioethics Committee, “Vulnerable individuals become even more vulnerable in times of pandemic. It is particularly important to take note of vulnerability related to poverty, discrimination, gender, illness, loss of autonomy or functionality, elder age, disability, ethnicity, incarceration (prisoners), undocumented migration, and the status of refugees and stateless persons” (UNESCO – IBC: “Statement on COVID-19. Ethical consideration from a global perspective”, 2020).

Solo prendendo in adeguata considerazione queste, ed altre, dimensioni di vulnerabilità, le misure adottate potranno davvero essere eque e proporzionate, e dunque eticamente accettabili, e potranno consentire di gestire l’emergenza sanitaria senza distruggere, allo stesso tempo, il tessuto sociale delle nostre comunità.

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